lunedì 20 aprile 2020

Lukács, la dialettica e la rivoluzione

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Passando da Korsch a Lukács mostriamo come il recupero di un’interpretazione filosofica del marxismo, a partire dalla dialettica hegeliana, abbia consentito di contrastare le concezioni revisioniste e dogmatiche

Secondo Karl Korsch è indispensabile riportare alla luce le radici hegeliane del pensiero marxiano. Bisogna, al contempo, opporsi con forza a ogni forma di economicismo che pretenda di poter ridurre la complessità del reale a dei semplici rapporti di produzione. A parere di Korsch, infatti, le stesse forme economiche della produzione possono essere analizzate in quanto tali solo in relazione alle forme di coscienza in cui si riflettono e da cui dipendono. Lo stesso Il capitale, allora, deve essere considerato come una critica dell’economia politica e non come una nuova teoria economica. Korsch mostra infatti che, nonostante il primo libro de Il capitale, l’unico pubblicato da Karl Marx, costituisca solo una piccola parte dell’opera progettata, esso tuttavia è in grado di fornire un’idea adeguata dell’intera teoria marxiana. Marx, infatti, nel primo libro ha limitato solo formalmente la sua ricerca al processo di produzione del capitale, ma sostanzialmente “ha colto e presentato come una totalità contemporaneamente il tutto del modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso emanante, con tutte le sue manifestazioni economiche e – oltre ad esse – con tutte le sue manifestazioni giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, in breve ideologiche” [1].

Per approfondire quest’interpretazione che vede nel marxismo la sintesi di dialettica e rivoluzione è ora necessario lasciare Karl Korsch per passare a occuparci di un altro grande teorico del marxismo: György Lukács. La più larga base filosofica di Lukács gli ha permesso, infatti, una maggiore capacità astrattiva e, quindi, una maggiore visione d’insieme che si ripercuote anche sulle scelte tattiche e politiche le quali, al di là delle apparenze, non hanno quell’instabilità, quel continuo oscillare tra estremismo puristico e riformismo sociologico che caratterizzano gran parte delle posizioni teoriche e delle scelte politiche di Korsch a partire dalla fine degli anni venti.
Pur non potendo concordare con chi ritiene che Korsch abbia prodotto un solo libro importante, Marxismo e Filosofia, è innegabile che negli anni seguenti egli abbia oscillato tra posizioni anarco-sindacaliste (sorelliane) e aperture troppo acritiche alla sociologia americana e all’ideologia del neopositivismo. Ciò lo ha portato a comporre opere che oggi appaiono decisamente datate, come ad esempio il Karl Marx in cui il marxismo è ridotto a scienza materialista della società che, presentandosi come ricerca strettamente empirica di determinate relazioni sociali, pretende di non aver più bisogno di una fondazione filosofica. La mancanza di una sicura base filosofico-dialettica non gli permette, infatti, di portare a compimento il suo decisivo compito di riconnettere il marxismo alla moderna epistemologia grazie alla mediazione della filosofia hegeliana. Nella sua riflessione le istanze della dialettica marxista si incontrano con quelle del positivismo logico, ma senza poter trovare una sintesi, anzi, il più delle volte contraddicendosi l’una con l’altra. Lo stesso problema si incontra nelle sue posizioni politiche nelle quali l’istanza rivoluzionaria e antiburocratica non si sintetizza mai con il suo realismo storicistico.
Anche nel caso di Lukács limiteremo la nostra analisi alla produzione degli anni venti, composta durante l’esilio in Germania, in cui il teorico ungherese scrive essenzialmente per i comunisti occidentali che vivono in paesi con un capitalismo avanzato. Con la sconfitta del comunismo in occidente, infatti, benché Lukács abbia preso di fronte all’irrigidimento del marxismo una strada opposta a quella di Korsch, anche la sua riflessione incontra una serie di difficoltà che la rendono “utilizzabile”, per noi, solo a patto di “mediazioni” storico-critiche. Nell’esilio in Urss e negli anni seguenti in Ungheria, infatti, Lukács fu costretto nei suoi scritti teorici a fare i conti con una classe operaia non così sviluppata come quella occidentale e, quindi, con altri bisogni ed esigenze.
Il filo rosso che attraversa tutti gli scritti di Lukács di questi anni è il tentativo di riportare alla luce l’aspetto fondamentale del metodo di Marx e Vladimir I. U. Lenin: la dialettica. Questo compito è reso urgente proprio dall’oblio in cui sono caduti alcuni degli aspetti essenziali del metodo marxiano. Lukács ritiene, però, che sarebbe uno sforzo del tutto vano pretendere di potersi occupare della dialettica in Marx senza tenere conto del rapporto che lo lega a Hegel, che di questo metodo può essere considerato, per certi aspetti, il padre. Tanto più che diversi marxisti, benché Marx stesso abbia più volte messo in guardia dal trattare Hegel come un “cane morto”, hanno sottovalutato questo aspetto o lo hanno coscientemente messo da parte, spesso facendo riferimento, in modo dogmatico, a indicazioni presenti negli scritti di Marx. Queste interpretazioni si sono richiamate, ad esempio, a quel noto passo della prefazione a Il capitale in cui Marx intendeva dichiarare i suoi debiti con la dialettica hegeliana, ma che, paradossalmente, ha sviato diversi interpreti, poco “critici”, per quell’espressione in cui afferma di aver “civettato” con il “modo di esprimersi” di Hegel. Ciò ha permesso a molti marxisti volgari di ridurre l’importanza che ha la dialettica negli scritti marxiani a un “accessorio stilistico di superficie, da espungere con la massima energia possibile dal metodo del materialismo storico, nell’interesse della sua ‘scientificità’” [2]. Ciò ha portato diversi studiosi – peraltro coscienziosi – a ritenere “che Marx abbia ‘civettato’ con concetti hegeliani ‘in realtà soltanto in due luoghi’, o al massimo in tre, senza rendersi conto che tutto un complesso di categorie metodologiche decisive e costantemente applicate deriva direttamente dalla logica hegeliana” (Lukács, Storia, p. XI).
Il misconoscimento delle radici hegeliane di molti dei concetti marxiani ha portato a delle notevoli incomprensioni sul piano teorico che hanno avuto dei risvolti negativi anche sul piano politico. A questo proposito Lukács porta l’esempio della distinzione – centrale per il metodo marxiano e di evidente derivazione hegeliana – tra il concetto di immediatezza e quello di mediazione. Negli scritti politici di questi anni Lukács ritorna più volte sull’opposizione tra la semplice coscienza di classe immediata dei socialdemocratici, che giustificano il loro opportunismo richiamandosi a un preteso realismo dei fatti, e la coscienza che debbono avere i comunisti della vocazione storica universale del proletariato.
L’opportunismo di destra ha potuto prendere il sopravvento all’interno della socialdemocrazia tedesca perché, in qualche modo, un’interpretazione volgare e dogmatica del marxismo gli aveva preparato la strada.  Il concetto di realtà, infatti, centrale per ogni interpretazione rivoluzionaria del marxismo, era stato volgarizzato ed appiattito da diversi teorici della Seconda Internazionale, che ne avevano fatto perdere – con le sue origini nella filosofia classica tedesca – la ricchezza semantica capace di rimettere in questione continuamente la presunta datità della “realtà”. Quest’interpretazione faceva del “reale” un concetto tanto generico quanto astratto, che una volta impiegato aveva fatto prevalere l’indeterminatezza, l’infondatezza e, quindi, l’arbitrio nell’interpretazione della realtà.
Diversi interpreti dottrinari del marxismo, inoltre, si sono richiamati agli appelli di Marx, spesso ironici, alla realtà effettuale di contro alle cerebrali costruzioni astratte dei rivoluzionari piccolo-borghesi e dei giovani hegeliani. Ciò ha avuto delle conseguenze politiche disastrose. La volgarizzazione del concetto di realtà portava con se l’abbandono della visione d’insieme che deve guidare le scelte politiche dei comunisti a cui si sostituiva una politica puramente congiunturale e, quindi, opportunista. I socialdemocratici hanno finito, infatti, o con il credere, come Bernstein, che il movimento fosse tutto e che, quindi, lo scopo finale non esistesse o con l’ipostatizzare, come Kautsky, l’obiettivo finale in un futuro dai contorni sempre più messianici e astratti, privo di qualsiasi contatto e influenza sulla realtà effettuale in cui andavano prese le decisioni politiche. Essi finivano, così, necessariamente con il soccombere e il piegarsi di fonte al succedersi imprevedibile degli eventi.
I fatti, i “dati” non possono determinare, invece, l’agire autocosciente dei marxisti. Essi per mezzo del metodo dialettico possono affrontare i diversi eventi, i fenomeni sociali, considerandoli al tempo stesso come necessari e come storici e, quindi, destinati a essere superati. Essi, infatti, hanno lo stesso concetto di realtà di Marx, per il quale essa era “un’esistenza necessaria, un dato di fatto necessariamente scaturito dal processo unitario e totale della storia, il quale costituisce sì il fondamento dell’essere universale, ma nella sua vera effettualità, nella sua completa unità, può essere portato a nascita solo dallo spirito” [3]. Quindi, i comunisti, conservando lo stesso concetto del “reale” che aveva Marx, si possono liberare dall’impotenza di fronte al sopraggiungere imprevedibile dei fatti e possono dominarli in quanto, per loro, la decisione cosciente precede i fatti. Quindi, sulla base di un’interpretazione dialettica della storia, tra movimento e obiettivo finale non ci può essere alcuna differenza sostanziale. Come scrive Lukács, infatti, il tentativo di mantenere puro a ogni costo “lo scopo finale” da qualsiasi contaminazionein e attraverso il rapporto con l’esistenza capitalistica, conduce infine allo stesso allontanamento dalla comprensione della realtà, dalla ‘attività pratico-critica’, alla stessa ricaduta nella dualità utopistica di soggetto ed oggetto, di teoria e praxis nella quale ha condotto il revisionismo” (Lukács, Storia, pp. 32-33).
Il metodo dialettico si fonda sulla teoria hegeliana del concetto concreto, in base alla quale, semplificando, è l’intero a prevalere sulle parti. Per Marx, infatti – in ciò discepolo a tutti gli effetti di Hegel – il concreto non è astrattamente contrapposto a ciò che è “compreso concettualmente, ma al contrario, è qualcosa che solo lo spirito può concepire. Il concreto (…) è concreto perché rappresenta la composizione di molte determinazioni, ossia l’unità del molteplice. Per il pensiero tale composizione si presenta come un processo, un risultato, e non come un inizio, sebbene sia proprio questo risultato a costituire il vero punto di partenza” (Lukács, Scritti, pp. 33-34). Il marxismo, quindi, si distingue dalla “scienza borghese” per il punto di vista universale da cui considera gli eventi e non per il predominio delle motivazioni economiche nella spiegazione della storia. La dialettica mira alla conoscenza della totalità del processo storico, quindi, anche le questioni economiche perdono la loro reciproca estraneità confluendo le une nelle altre.
Note:
[1] Karl Korsch, Introduzione al Capitale, in Id., Dialettica e scienza nel marxismo, Laterza, Bari 1974, p. 52.
[2] György Lukács, Storia e coscienza di classe [1923], Sugarco edizioni, Milano 1991, p. XI. D’ora in poi citata nel testo come (Lukács, Storia, p. x).
[3] G. Lukács, Scritti politici giovanili 1919-1928, Laterza, Bari 1972, pp. 35-36. D’ora in poi citato come (Lukács, Scritti, p. x).
19/04/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: https://personalizingroar.wordpress.com/2013/03/21/il-soggetto-il-romanzo-e-il-mondo-senza-senso-uneredita-dimenticata-del-giovane-lukacs/

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