lunedì 20 aprile 2020

L’occupazione israeliana aggrava i colpi del Coronavirus. Terra e libertà per il popolo palestinese!

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Sono ufficialmente 305 i palestinesi finora risultati positivi al Coronavirus. Di questi, 13 nella Striscia di Gaza. Due i decessi. Ma questi numeri lasciano più di qualche ragionevole dubbio: i contagiati potrebbero risultare molti di più se solo ci fossero strumenti diagnostici in grado di poter individuare eventuali casi positivi. La diffusione del Coronavirus anche in Israele e Territori Occupati non ha portato un mutamento o almeno un ammorbidimento della politica d’Israele nei Territori Occupati. Anzi, il Covid ha reso ancora più evidente l’inaccettabile situazione in cui vivono gli oltre 5 milioni di palestinesi che risiedono tra Gerusalemme Est, Cisgiordania e Striscia di Gaza, territori che per gli Accordi di Oslo del 1993 dovrebbero costituire il futuro Stato di Palestina.
Il Cogat, l’amministrazione israeliana che si occupa dei civili sotto occupazione, ha facilitato solo occasionalmente in queste settimane l’accesso di materiali e attrezzature sanitarie offerte dall’OMS, Banca mondiale, ONG e istituzioni umanitarie. Ad aggravare il quadro c’è poi la questione delle migliaia manovali palestinesi impiegati in Israele per il cui rientro l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) chiede a Tel Aviv (finora invano) che vengano sottoposti al tampone in territorio israeliano così da individuare coloro che sono stati eventualmente contagiati prima che possano rientrare nelle loro abitazioni.
Una richiesta che nasce anche dal fatto che l’Anp è a corto di kit perché il sistema sanitario in Cisgiordania, complice la decennale occupazione israeliana, è fragile e può facilmente collassare. Come sottolineato da Ali Abed Rabbo su il Manifesto del 2 aprile, mancano infatti “sufficienti posti letto di terapia intensiva, respiratori e ventilatori”. Per non parlare poi della Striscia di Gaza, piccolo lembo di terra palestinese dove vivono quasi due milioni di persone sotto assedio da 13 anni da parte d’Israele, dove manca tutto o quasi: la scorsa settimana il portavoce del Ministro della Sanità Asharaf al-Qidra ha annunciato persino l’impossibilità di effettuare i tamponi per il Coronavirus perché sono terminati i kit. La situazione è così drammatica che alcuni giorni fa venti ONG e centri per i diritti umani locali e internazionali si sono appellati a Tel Aviv per chiedere la fine del blocco e l’invio di forniture mediche necessarie per combattere l’epidemia. Ma dal governo Netanyahu non sono ancora arrivate risposte.
Desta enorme preoccupazione anche l’area orientale occupata di Gerusalemme, quella che per il diritto internazionale dovrebbe essere la futura capitale dello stato di Palestina: qui solo tardivamente a inizio aprile il Ministero della Sanità israeliano ha preso in considerazione l’esposizione al virus dei residenti dell’area. Troppo poco per una situazione che potrebbe diventare esplosiva.
L’emergenza sanitaria non è solo l’unica preoccupazione per i palestinesi: strettamente legata ad essa, infatti, vi è la questione della perdita di migliaia di posti di lavoro. Il problema si è acuito in quest’ultimo mese perché gran parte della forza lavoro palestinese non ha uno stipendio fisso e vive di occupazioni giornaliere, cessate ormai con l’arrivo del virus. Se a tanti manovali è vietato ora recarsi a lavorare in Israele a causa delle restrizioni anti-Covid, i provvedimenti di chiusura di gran parte delle attività lavorative e il divieto al movimento di persone nelle città autonome cisgiordane, annunciati dall’ANP per limitare la diffusione del virus, stanno portando sul lastrico gran parte della popolazione in Cisgiordania.
In questo quadro emergenziale, non si sono fermati i raid dell’esercito israeliano in Cisgiordania e gli omicidi da parte dei soldati (sono al momento due le vittime delle proteste scoppiate a seguito dei blitz dei militari nei centri abitati palestinesi). La Commissione per gli affari dei prigionieri, la Società per il prigioniero palestinese e la ONG Addameer per i diritti dei detenuti politici palestinesi hanno recentemente riferito in un comunicato congiunto che soltanto il mese scorso l’esercito israeliano ha arrestato 357 palestinesi, tra questi 48 erano ragazzi con una età inferiore ai 18 anni e 4 erano donne. Tra i detenuti, per la settima volta in 18 mesi, c’è anche Adnan Gheith, il governatore dell’ANP a Gerusalemme.
La situazione degli oltre 5.000 prigionieri politici palestinesi in Israele è un tema molto serio: lo scorso mese numerose proteste sono scoppiate all’interno delle carceri israeliane per protestare contro la mancanza di misure di protezione per la diffusione del Covid nelle prigioni e per i provvedimenti restrittivi delle autorità carcerarie israeliane (tra cui il divieto delle visite dei familiari dei detenuti). Israele ha annunciato qualche settimana fa di voler mettere in detenzione domiciliare centinaia di prigionieri, ma non quelli condannati per reati “contro la sicurezza e terrorismo”. L’associazione Addameer ha denunciato che a restare dietro le sbarre sono anche minori e 430 palestinesi posti in detenzione amministrativa (incarcerati senza processo e accuse formali).
Ma non è solo la questione sanitaria con i suoi inevitabili corollari sociale e politico a preoccupare i palestinesi. Il “Piano del Secolo” annunciato a gennaio dal presidente statunitense Donald Trump autorizza, contraddicendo palesemente il diritto internazionale, la formazione di uno stato palestinese indipendente e sovrano e legalizza l’annessione d’Israele della Valle del Giordano e delle colonie israeliane in Cisgiordania. Con un alleato del genere non sorprende che in questi ultimi due mesi e persino in queste settimane di pandemia, sia il premier israeliano Netanyahu che il suo principale rivale politico Gantz abbiano ribadito con forza la necessità di procedere all’annessione di queste grosse fette di territorio cisgiordano palestinese.
Alla luce di questo contesto drammatico, mai come oggi è importante ribadire la vicinanza ai palestinesi, siano essi residenti in ciò che resta della Palestina storica o nella diaspora. Nel pretendere l’attivazione immediata di tutte le procedure possibili che possano garantire ai palestinesi della Cisgiordania e di Gaza l’incolumità dal Covid-19, Potere al Popolo! rivendica:
a) la fine dell’occupazione israeliana su tutti i Territori Occupati;
b) la rimozione del blocco israeliano sulla Striscia di Gaza;
c) di impedire l’implementazione del “Piano del Secolo” di Trump;
d) il ritorno immediato al tavolo dei negoziati, riportando al centro di qualunque incontro la questione dei rifugiati palestinesi;
e) il rispetto di tutte le risoluzioni internazionali concernenti il conflitto arabo-israeliano.
Il quinto e ultimo punto assume un valore fondamentale perché il devastante virus che sta colpendo l’intero mondo non può che lasciare effetti ancora più devastanti laddove il diritto internazionale è reso carta straccia. Non solo da Israele con la complicità statunitense, ma anche dai tanti e troppi silenzi della comunità internazionale. A partire da quelli del Governo italiano.

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