Sono
ufficialmente 305 i palestinesi finora risultati positivi al
Coronavirus. Di questi, 13 nella Striscia di Gaza. Due i decessi. Ma
questi numeri lasciano più di qualche ragionevole dubbio: i contagiati
potrebbero risultare molti di più se solo ci fossero strumenti
diagnostici in grado di poter individuare eventuali casi positivi. La
diffusione del Coronavirus anche in Israele e Territori Occupati non ha
portato un mutamento o almeno un ammorbidimento della politica d’Israele
nei Territori Occupati. Anzi, il Covid ha reso ancora più evidente
l’inaccettabile situazione in cui vivono gli oltre 5 milioni di
palestinesi che risiedono tra Gerusalemme Est, Cisgiordania e Striscia
di Gaza, territori che per gli Accordi di Oslo del 1993 dovrebbero
costituire il futuro Stato di Palestina.
Il Cogat, l’amministrazione israeliana che si occupa dei civili sotto
occupazione, ha facilitato solo occasionalmente in queste settimane
l’accesso di materiali e attrezzature sanitarie offerte dall’OMS, Banca
mondiale, ONG e istituzioni umanitarie. Ad aggravare il quadro c’è poi
la questione delle migliaia manovali palestinesi impiegati in Israele
per il cui rientro l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) chiede a Tel
Aviv (finora invano) che vengano sottoposti al tampone in territorio
israeliano così da individuare coloro che sono stati eventualmente
contagiati prima che possano rientrare nelle loro abitazioni. Una richiesta che nasce anche dal fatto che l’Anp è a corto di kit perché il sistema sanitario in Cisgiordania, complice la decennale occupazione israeliana, è fragile e può facilmente collassare. Come sottolineato da Ali Abed Rabbo su il Manifesto del 2 aprile, mancano infatti “sufficienti posti letto di terapia intensiva, respiratori e ventilatori”. Per non parlare poi della Striscia di Gaza, piccolo lembo di terra palestinese dove vivono quasi due milioni di persone sotto assedio da 13 anni da parte d’Israele, dove manca tutto o quasi: la scorsa settimana il portavoce del Ministro della Sanità Asharaf al-Qidra ha annunciato persino l’impossibilità di effettuare i tamponi per il Coronavirus perché sono terminati i kit. La situazione è così drammatica che alcuni giorni fa venti ONG e centri per i diritti umani locali e internazionali si sono appellati a Tel Aviv per chiedere la fine del blocco e l’invio di forniture mediche necessarie per combattere l’epidemia. Ma dal governo Netanyahu non sono ancora arrivate risposte.
Desta
enorme preoccupazione anche l’area orientale occupata di Gerusalemme,
quella che per il diritto internazionale dovrebbe essere la futura
capitale dello stato di Palestina: qui solo tardivamente a inizio aprile
il Ministero della Sanità israeliano ha preso in considerazione
l’esposizione al virus dei residenti dell’area. Troppo poco per una
situazione che potrebbe diventare esplosiva.
L’emergenza sanitaria non è solo l’unica preoccupazione per i
palestinesi: strettamente legata ad essa, infatti, vi è la questione
della perdita di migliaia di posti di lavoro. Il problema si è acuito in
quest’ultimo mese perché gran parte della forza lavoro palestinese non
ha uno stipendio fisso e vive di occupazioni giornaliere, cessate ormai
con l’arrivo del virus. Se a tanti manovali è vietato ora recarsi a
lavorare in Israele a causa delle restrizioni anti-Covid, i
provvedimenti di chiusura di gran parte delle attività lavorative e il
divieto al movimento di persone nelle città autonome cisgiordane,
annunciati dall’ANP per limitare la diffusione del virus, stanno
portando sul lastrico gran parte della popolazione in Cisgiordania.
In
questo quadro emergenziale, non si sono fermati i raid dell’esercito
israeliano in Cisgiordania e gli omicidi da parte dei soldati (sono al
momento due le vittime delle proteste scoppiate a seguito dei blitz dei
militari nei centri abitati palestinesi). La Commissione per gli affari
dei prigionieri, la Società per il prigioniero palestinese e la ONG
Addameer per i diritti dei detenuti politici palestinesi hanno
recentemente riferito in un comunicato congiunto che soltanto il mese
scorso l’esercito israeliano ha arrestato 357 palestinesi, tra questi 48
erano ragazzi con una età inferiore ai 18 anni e 4 erano donne. Tra i
detenuti, per la settima volta in 18 mesi, c’è anche Adnan Gheith, il
governatore dell’ANP a Gerusalemme.
La
situazione degli oltre 5.000 prigionieri politici palestinesi in
Israele è un tema molto serio: lo scorso mese numerose proteste sono
scoppiate all’interno delle carceri israeliane per protestare contro la
mancanza di misure di protezione per la diffusione del Covid nelle
prigioni e per i provvedimenti restrittivi delle autorità carcerarie
israeliane (tra cui il divieto delle visite dei familiari dei detenuti).
Israele ha annunciato qualche settimana fa di voler mettere in
detenzione domiciliare centinaia di prigionieri, ma non quelli
condannati per reati “contro la sicurezza e terrorismo”.
L’associazione Addameer ha denunciato che a restare dietro le sbarre
sono anche minori e 430 palestinesi posti in detenzione amministrativa
(incarcerati senza processo e accuse formali).
Ma non è solo la questione sanitaria con i suoi inevitabili corollari
sociale e politico a preoccupare i palestinesi. Il “Piano del Secolo”
annunciato a gennaio dal presidente statunitense Donald Trump autorizza,
contraddicendo palesemente il diritto internazionale, la formazione di
uno stato palestinese indipendente e sovrano e legalizza l’annessione
d’Israele della Valle del Giordano e delle colonie israeliane in
Cisgiordania. Con un alleato del genere non sorprende che in questi
ultimi due mesi e persino in queste settimane di pandemia, sia il
premier israeliano Netanyahu che il suo principale rivale politico Gantz
abbiano ribadito con forza la necessità di procedere all’annessione di
queste grosse fette di territorio cisgiordano palestinese.
Alla luce di questo contesto drammatico, mai
come oggi è importante ribadire la vicinanza ai palestinesi, siano essi
residenti in ciò che resta della Palestina storica o nella diaspora. Nel
pretendere l’attivazione immediata di tutte le procedure possibili che
possano garantire ai palestinesi della Cisgiordania e di Gaza
l’incolumità dal Covid-19, Potere al Popolo! rivendica:
a) la fine dell’occupazione israeliana su tutti i Territori Occupati;
b) la rimozione del blocco israeliano sulla Striscia di Gaza;
c) di impedire l’implementazione del “Piano del Secolo” di Trump;
d)
il ritorno immediato al tavolo dei negoziati, riportando al centro di
qualunque incontro la questione dei rifugiati palestinesi;
e) il rispetto di tutte le risoluzioni internazionali concernenti il conflitto arabo-israeliano.
Il
quinto e ultimo punto assume un valore fondamentale perché il
devastante virus che sta colpendo l’intero mondo non può che lasciare
effetti ancora più devastanti laddove il diritto internazionale è reso
carta straccia. Non solo da Israele con la complicità statunitense, ma
anche dai tanti e troppi silenzi della comunità internazionale. A
partire da quelli del Governo italiano.
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