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Tariq
Ali (1943) è uno storico e attivista pakistano residente a Londra.
Attivo nei movimenti della nuova sinistra degli anni ’70, redattore
della New Left Review, è stato uno dei principali portavoce del
movimento no global.
In italiano sono state pubblicate molte sue opere tra cui Lo scontro dei fondamentalismi: crociate, jihad e modernità (Rizzoli, 2002 e più recentemente Un’altra storia. Una conversazione sul novecento (Alegre, 2012). La sua ultima fatica, Dilemmas of Lenin è stato pubblicato per i tipi di Verso nel 2017.
Pochi
biografi si sono concentrati sul background intellettuale e
sentimentale di Lenin. Nella tua riflessione, tuttavia, questo elemento è
centrale. Cosa puoi dirci al riguardo?
Ci
sono state molte biografie di Lenin. La migliore non è mai stata
scritta, a parte il primo capitolo, perché il suo autore, Isaac
Deutscher, morì. Il mio I dilemmi di Lenin
non è una biografia tradizionale. È piuttosto una riflessione sulle
influenze intellettuali e politiche cruciali per la sua formazione.
Conosciamo
il suo debito nei confronti di Marx ed Engels. Ma che dire per quello
della lunga tradizione del 18° secolo dell’anarchismo russo? Non c’è
dubbio che tale tradizione colpì profondamente Lenin anche se ne
respingeva le premesse e le pratiche, per quanto eroiche. Non scordiamo
che a Kropotkin fu riconosciuto un funerale di Stato nell’Urss.
Quindi
era necessario approfondire quella tradizione che dominò la politica
radicale del XIX secolo in tutto il mondo anche se poi ci fu la nascita e
la crescita di un movimento laburista e socialista in Europa che presto
scavalcò l’anarchismo e in cui Lenin fu impegnato fino alla guerra
mondiale.
Per
quanto riguarda l’aspetto sentimentale: non fu mai centrale per il
rivoluzionario russo, ma fu comunque importante. Il suo amore per Inessa
Armand non era un segreto nei circoli bolscevichi. Nadia Krupskaya, ne
era a conoscenza e gli offrì quella libertà che egli non si era preso
per «ragioni politiche». Sia lui che Inessa ne furono tormentati.
Fu
solo dopo l’attentato alla sua vita che accettò di non poter vivere
senza di lei e iniziò a parlarle e a vederla ogni giorno. Sia Krupskaya
che Armand erano femministe impegnate e hanno avuto un enorme impatto su
Lenin che considerava le faccende domestiche femminili come una forma
di servitù e insisteva su cucine e asili nido comuni per le famiglie
lavoratrici.
Lenin
è famoso per «l’arte della rivoluzione e dell’insurrezione», ma il tuo
«I dilemmi di Lenin» ci raccontano anche i suoi numerosi dubbi ed
errori.
La
maggior parte degli errori di Lenin furono dopo il 1917 e la guerra
civile. Nel 1917 la direzione del partito bolscevico, un’organizzazione
preparata per la rivoluzione, dovette essere persuasa, convinta e spinta
sulla direzione dell’insurrezione. La base del partito era più radicale
e fu essa a sostenere la posizione di Lenin.
Ma
la chiave di volta fu l’interrelazione dialettica tra soviet e partito.
Fu il mutamento del carattere politico dei soviet mentre i bolscevichi
conquistavano la maggioranza di essi a Mosca e di Pietrogrado a rendere
inespugnabile la posizione di Lenin.
Senza
di lui, dubito fortemente che avremmo avuto una rivoluzione socialista
nell’ottobre 1917. L’alternativa ai bolscevichi era Kornilov e i
centoneri sostenuti dall’Intesa e non certo una soluzione democratica
«avanzata».
Inoltre,
vale la pena sottolineare che non era una questione puramente tecnica
per Trotsky (sostenuto in questo caso da Stalin) insistere affinché
l’insurrezione fosse organizzata dal comitato militar-rivoluzionario del
Soviet.
Ciò
che è stato veramente unico nella rivoluzione russa non è stato
semplicemente il partito rivoluzionario ma la nascita di consigli di
operai, contadini e soldati eletti dal basso e rivali della Duma.
L’emergere di istituzioni autonome di duplice potere, che possono
assumere forme diverse, è il segnale dell’esistenza di un moto
rivoluzionario.
Da
ciò derivò la velocità con cui i capitalisti e le classi agrarie
italiane optarono per Mussolini, spaventati dall’ottobre sovietico e dai
consigli dei fabbrica di Gramsci a Torino. Non è un segreto che gran
parte della borghesia europea preferiva il fascismo a una rivoluzione
socialista.
Dopo
la guerra civile Lenin decise di introdurre per un periodo il Nep,
l’economia di mercato. L’attuale corso cinese aperto da Deng Xiao Ping
afferma di fare riferimento a quella lezione, ma le disuguaglianze
sociali in Cina sono enormi…
Lenin
morì poco dopo la sua introduzione. C’è stato un grande dibattito
sull’argomento all’interno del partito con Bucharin che fortemente
sostenne la sua estensione e Trotsky e i suoi compagni che ne chiedevano
la fine. Stalin assunse una posizione semi-neutrale ma dopo aver
schiacciato e sconfitto l’opposizione di sinistra si lanciò in un
disastroso assalto alle campagne (da cui l’agricoltura sovietica non si
riprese mai veramente) e schiacciò il raggruppamento di Bucharin.
Col
senno di poi sarebbe stato meglio qualche altro anno di Nep. Sia
Bucharin che Trotsky non potevano ancora intendere che un’alleanza tra
loro era la necessità del momento.
Per
quanto riguarda la Cina, la sua versione del Nep è stata di enorme
successo. Il paese è al cuore del mercato mondiale e il capitalismo
internazionale sta iniziando a farsi prendere dal panico. I cinesi hanno
messo in mora l’idea che capitalismo e democrazia vadano a braccetto.
Non
è mai stato così, ma i leader cinesi lo hanno dimostrato chiaramente.
La questione interessante è ora se il modello cinese è irreversibile o
no. Le disparità sociali ed economiche stanno crescendo, non
attenuandosi, e ciò spiega l’inasprimento di Xi delle limitazioni alle
libertà politiche e la crescente repressione. A volte sembra che
l’Imperatore Kiangsi fosse a contatto con i bisogni del popolo più di
quanto lo sia Xi e la sua corte.
Pensi che se Lenin non fosse morto nel 1924 la storia dell’URSS avrebbe preso una strada diversa?
Senza
dubbio. Se fosse vissuto per un altro decennio o anche solo per 5 anni
il corso storico sarebbe stato diverso. Già nel 1922, Lenin si scusò con
i popoli dell’URSS per la situazione del paese e ammise che «non
sapevamo nulla» prima della rivoluzione su come gestire una nazione.
Nonostante
l’isolamento della Russia molte cose sarebbero state comunque diverse
con Lenin vivo. Il partito bolscevico e la sua leadership non sarebbero
stati decimati, le modalità dell’industrializzazione sarebbero state
diverse, all’esterno il partito non si sarebbe imbarcato nelle politiche
suicide imposte ai partiti comunisti cinesi e tedeschi, Tuchachevsky
sarebbe rimasto al suo posto, solo per fare degli esempi.
Siamo
dentro la grande crisi del coronavirus. Molte certezze del capitalismo
sono messe in discussione. Lenin sostenne che ci sono giorni che valgono
anni: come la sua eredità può essere utile nelle battaglie della
prossima crisi sociale ed economica?
Il
virus mostra come il capitalismo si prende cura di se stesso. La
regressione neoliberale degli ultimi decenni e il culto religioso del
mercato che hanno avuto nella Ue un agente e un motore.
Il
mondo capitalista è stato colto di sorpresa e la sua mancanza di
protezioni sociali ha portato a tantissimi decessi, ma non alla morte
del capitalismo in quanto tale.
Se
necessario, lo Stato capitalista può adottare forme socialdemocratiche
per affrontare a crisi: lo ha già fatto in precedenza, quando il virus
era il comunismo.
Ciò che possiamo imparare da Lenin è evitare i pii desideri, i wishful thinking.
Non sono possibili cambiamenti reali a meno che non vi sia una forza
sociale e politica pronta ad attuarli. La politica deve restare sulla
plancia di comando.
* da il manifesto
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