sabato 25 aprile 2020

La memoria è sempre di parte.


Negli ultimi 25 anni l'ideologia della «memoria condivisa» ha orientato l'interpretazione istituzionale della resistenza rimuovendone i conflitti. È lo stesso tipo di discorso che ritroviamo oggi nella retorica nazionale sulla lotta contro il virus.



Quest’anno, il 25 aprile è l’occasione per fare un esercizio di analisi del discorso pubblico, specialmente istituzionale, attorno alla pandemia e al suo contrasto. L’esercizio consiste nel provare a inquadrarlo nello stesso insieme di schemi argomentativi, che in retorica prende il nome di «topica», su cui si fonda il discorso istituzionale attorno alla liberazione: quello della memoria condivisa. 
Messi a confronto, i due discorsi rivelano molte corrispondenze. 
E queste corrispondenze a loro volta rivelano uno sfondo ideologico, se non del tutto sovrapponibile, almeno assai simile. 
Il modo d’argomentare non è ovviamente un dato neutro; rispecchia certe opzioni valoriali, cioè una determinata visione del mondo, il che vuol dire: un’ideologia. Per questo la memoria condivisa è allo stesso tempo una topica, dunque un elemento discorsivo, e un’ideologia.


I suoi prodromi risalgono già alla metà del Novecento, a distanza di breve tempo dalla Liberazione. Per farsene un’idea, si può leggere, tra i molti, il volume Sulla guerra civile. La resistenza a due voci (a cura di David Bidussa, Bollati Boringhieri 2015), che raccoglie scritti di (e scambi epistolari tra) Claudio Pavone e Norberto Bobbio. Ma è nell’ultimo quarto di secolo che il motivo della memoria condivisa ha finito con l’orientare in modo costante l’interpretazione ufficiale degli eventi verificatisi in Italia dopo la fine della Seconda guerra mondiale, condizionando la lettura del fenomeno pluriforme della resistenza al nazifascismo. In questa visione, il cambio di regime, dunque l’instaurazione della repubblica democratica e l’entrata in vigore della Costituzione rappresentano una sorta di fondazione ex nihilo dello Stato, nei cui valori tutti i cittadini e tutte le forze politiche si riconoscono senza scarti.
Perché questo racconto di fondazione non si autocontraddica, è necessario che il conflitto sia spinto ai margini. La nascita dello Stato nuovo e il conflitto che l’ha determinata sono dunque presentati quasi come momenti separati. Questa separazione è l’artificio che permette di depotenziare o monumentalizzare (le due facce di una stessa medaglia) l’operato della resistenza, in particolar modo della resistenza armata. Della resistenza il discorso istituzionale vela le cause, più delle altre quelle endogene, interne allo Stato, che s’allungano ben prima e ben oltre i 18 o 20 mesi della guerra di Liberazione: ossia, molto banalmente, fatica a nominare il fascismo. Lo scontro tra antifascisti e fascisti è così, se non del tutto, almeno in larga parte obliterato, la sua conclusione relegata al 1945, sminuite – se non per brevi sprazzi d’allarmismo – le risorgenze fasciste nei 75 anni successivi della storia del Paese.
Guardando all’altro momento bellico su cui s’è celebrata la liturgia della memoria condivisa, la prospettiva sembra rovesciarsi, ma si tratta solo di un’apparenza. Le celebrazioni del centenario della Grande guerra, che hanno costellato il quadriennio 2015-2018, hanno assunto il conflitto mondiale a momento genetico dell’identità nazionale. Nel far ciò, hanno ripreso praticamente senza variazioni un motivo della propaganda d’un secolo prima. La guerra viene dunque relegata ai margini in un caso, mentre occupa il centro del discorso ufficiale nell’altro. In ciò sta l’apparente rovesciamento. Ma se il fuoco dei due discorsi cambia, è perché la componente di guerra civile della lotta di Liberazione è d’ostacolo all’argomento dell’unità nazionale, mentre nella Grande guerra il nemico era esclusivamente lo straniero. Nei due discorsi, il concetto di fondo resta la rappresentazione dell’unità nazionale. Opera dunque la stessa topica: quella, appunto, della memoria condivisa. Detto altrimenti: opera lo stesso dispositivo  di costruzione e rafforzamento di un’ideologia, almeno se intendiamo il termine «ideologia» nel significato di rappresentazione mistificata della realtà da parte della classe dominante. Del resto, che quella della Grande guerra come evento unificante dell’identità nazionale sia una mistificazione basta a mostrarlo un solo rilievo: che le celebrazioni mettono in piena luce il conflitto tra gli Stati, tra gli eserciti, ma ne respingono nell’ombra un altro: quello di classe, che esplode nell’immediato dopoguerra. Come nell’ombra sono respinti i molti episodi d’insubordinazione militare e di solidarietà tra soldati dalle due parti del fronte.
Non è difficile scorgere nel discorso istituzionale sul contagio le tracce della topica di cui stiamo parlando. Anzitutto il discorso è inscritto in un ordine ben preciso, che è quello segnato dal campo semantico della guerra. Se nella costruzione della memoria condivisa attorno alla Prima guerra mondiale e alla nascita dello Stato repubblicano avevamo a che fare con guerre guerreggiate, il contagio è invece traslato in guerra per il tramite di una concatenazione di metafore. «La guerra contro il nemico invisibile» è il luogo comune di questi mesi: luogo comune non nel senso tecnico-retorico di schema argomentativo a cui si può attingere qualunque sia il tema del discorso, ma in quello a-tecnico (che pure da quello tecnico è derivato) di frase abusata e svuotata di senso. Nella versione estrema, ma non poco diffusa, di questo luogo comune, il nemico non è solo invisibile, ma è anche straniero: viene dalla Cina. Oppure, in una variante che ha avuto una qualche eco per un certo tempo, ce lo hanno portato i tedeschi.
L’altra traccia immediatamente percepibile, conseguenza del ricorso alla metafora bellica e all’individuazione del nemico, è l’istanza dell’unità nazionale. Il pathos dell’orgoglio patrio, il richiamo ai valori fondanti l’identità del popolo italiano. Di qui il luogo comune «siamo tutti sulla stessa barca». Di qui soprattutto la richiesta incessantemente rivolta dalle istituzioni statali e civili a intonare l’inno nazionale e soprattutto a esporre dal balcone il tricolore, che i valori nazionali li significa tutti per metonimia. Anche il flash mob sulle note di Bella ciao, promosso dall’Anpi nazionale, sarà accompagnato dall’esposizione del tricolore, e preceduto, si legge nel programma della manifestazione virtuale, dall’esecuzione dell’inno di Mameli. In proposito vale quel che ha già scritto Wu Ming: «A pensarci, è un rovesciamento ironico: il 25 Aprile siamo soliti ricordare la sconfitta di un tizio che comunicava dal balcone, e anche a quel balcone era appeso il tricolore».
Sempre a questo proposito, la boutade di Salvini che associa Bella ciao e scarcerazione dei camorristi va presa per quello che è: un maldestro tentativo di framing, cioè di orientamento del discorso secondo una certa cornice concettuale, fatto probabilmente nella speranza di rintuzzare la polemica anti-antifascista a ridosso del 25 aprile, che quest’anno la Lega considera evidentemente troppo blanda. Il tentativo di associare in uno stesso contesto due concetti generalmente e a ragione percepiti come del tutto irrelati, celebrazione dell’antifascismo e mafia, è debolissimo. Il frame si estinguerà per inerzia. Il punto è mostrare come Salvini abbia provato a costruirlo, e quindi disinnescare l’espediente retorico, senza collocarsi al suo interno, cioè senza ripetere involontariamente l’associazione tra i due concetti, magari con l’intento di negarla, ma con l’effetto di rilanciarla e rafforzarla.
Torniamo all’uso metonimico dell’inno e del tricolore, su cui va fatta ancora una considerazione. Si tratta d’una metonimia che consente di lasciare da parte la domanda piuttosto scomoda su quali siano davvero i valori nazionali significati da quei due simboli. E a monte, quella ancora più importante sul senso politico del concetto d’identità di popolo, per come storicamente s’è affermato in Europa: un concetto che presuppone, è bene non dimenticarlo, l’idea d’una comunità pacificata, salda sulle proprie radici e al limite minacciata di disgregazione dall’esterno, contrapposta a una società internamente attraversata dal conflitto. A cosa serve, del resto, insistere sulla memoria condivisa, se non a conservare questa rappresentazione?
Sono tanti i dati di realtà che fanno vacillare la costruzione del discorso ufficiale sulla lotta al contagio in nome dell’unità nazionale. Durante tutta l’emergenza, stare a casa non a mai voluto dire la stessa cosa per tutte e per tutti. Le ragioni, oltreché intuitive, sono note. Non ogni casa è uguale. Non ogni casa è fatta a misura di quarantena spensierata o, come recitava uno striscione famoso, romanticizzata. Non ogni persona ha una casa. Non ogni persona può restare a casa, perché la produzione, anche quella che sfugge alla categoria dell’essenzialità, non è stata mai fermata secondo criteri rigorosi o anche solo certi, nel senso in cui si dice «certezza del diritto». Sulla superficie levigata dell’unità nazionale compaiono e si allargano crepe, che seguono le linee, per riprendere una tripartizione celebre,  eponima di un libro miliare, della classe, del genere e della razza. Sono fatti che coinvolgono tutti gli ambiti della vita su cui l’emergenza sta pesando, perché è la vita nella sua interezza a esserne incisa.
Sono rivendicazioni di un’esistenza dignitosa e di un diritto alla salute inteso nella sua piena estensione, e non solo nel suo risvolto epidemiologico, le «necessarie evasioni», singole o di gruppo, raccontate da Alpinismo Molotov. Sono contestazioni del predominio della produzione sulla salute di lavoratrici e lavoratori gli scioperi, spontanei e organizzati, che hanno preceduto e seguito l’annunciato blocco delle attività non essenziali, al quale avrebbe dovuto mettere capo il decreto del presidente del consiglio dei ministri del 22 marzo scorso. Il fatto che gli scioperi si siano protratti molto oltre l’entrata in vigore del decreto dimostra con ogni evidenza che la produzione è proseguita su vasta scala, principalmente per effetto delle deroghe prefettizie. Commiato da una persona amata, da un compagno di lotta, e insieme ritorno alla piazza come spazio fisiologico della politica è stato il corteo durante i funerali di Salvatore Ricciardi a Roma, significativo anche per la risonanza internazionale che ha suscitato. Ma in una prospettiva di classe, la conflittualità e la solidarietà procedono di pari passo. Ecco allora le tante iniziative autorganizzate come lo sportello sindacale sui generis «Non sei solo/a» a Milano. E le iniziative di sostegno alle librerie indipendenti, o di mutuo soccorso tra librerie e editori indipendenti, come la campagna «Adotta una libreria». E ancora i numerosi crowdfunding lanciati per sostenere spazi d’aggregazione della più varia natura, che rischiano di non poter riaprire dopo il lockdown. Questi sono solo esempi: l’elenco delle forme di conflittualità e solidarietà messe in campo durante l’emergenza potrebbe proseguire.
Il discorso istituzionale sulla lotta e la futura vittoria contro il virus ha insomma i requisiti per diventare, in un tempo magari nemmeno troppo lontano, un’altra tessera del mosaico della memoria condivisa. Ma «istituzionale» non è sinonimo d’imparziale. Né, per contro, parziale è sinonimo di falso e contrario di vero. Per fare in modo che questo discorso non s’imponga senza contrasti, ne va sin d’ora sviluppato uno veritiero e dichiaratamente di parte. Un discorso che dica chi è stato chiamato a sopportare il peso dell’emergenza. Che dica come le persone in carne e ossa, e non la società civile idealizzata, l’abbiano fronteggiata. Un discorso che racconti tutti quei fatti dalla testa dura che non trovano posto nella topica e nell’ideologia della concordia nazionale.
Che la storiografia, quando interrogherà questo tempo di pandemia, possa trovare delle veritiere memorie di parte. Perché di parte, le memorie, pure quelle collettive, sono sempre e non possono non essere.

*Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki. Scrive di uso politico del diritto penale e di antifascismo. Ha una seconda identità di pianista e critico musicale.

Nessun commento:

Posta un commento