Si
è scritto più volte che il confinamento forzato di questi ultimi mesi è
particolarmente difficile per la parte più debole della popolazione.
Deboli tra i deboli, sono coloro che soffrono di una malattia mentale,
costretti a modificare repentinamente le loro abitudini, i ritmi di vita
già in equilibrio precario, a rinunciare a quelle attività che per loro
hanno un significato, anche terapeutico, fondamentale.
E
ben noto che di fronte alla malattia mentale la costrizione e la
segregazione hanno effetti negativi e che la via corretta non è quella
di voler ricondurre la persona che soffre a un concetto di “normalità”
difficile da definire e a volte politicamente pericoloso, bensì favorire
il suo pieno inserimento sociale rispettandone la personalità e le
inclinazioni.
Eppure,
i pregiudizi e le paure, ma anche le discriminazioni sociali, religiose
e politiche, hanno fatto si che, nella storia, la malattia mentale sia
stata affrontata con l’esclusione sociale e, a volte, per esempio in
ambito popolare, per difesa, con la sua negazione. Basti pensare ai
malati curati con le pratiche esorcistiche perché ritenuti “indemoniati”
o al mondo delle classi subalterne pugliesi che, sino agli anni
sessanta del secolo scorso, si inventò, per difesa, che il tarantismo era effetto del morso di un ragno e non una forma di disagio psichico.
Le
cose, nel nostro paese, cambiarono negli anni settanta, per effetto
delle esperienze di vari psichiatri, tra cui il più noto resta Franco
Basaglia, che ribaltarono completamente il concetto di psichiatria,
sostituendo alla costrizione e all’esclusione sociale la liberazione e
l’integrazione sociale dei malati. Esperienze che avevano anche un
significato profondamente politico, inserite come erano nel contesto
delle lotte di quegli anni e perché dirette contro l’uso politico che si
faceva della psichiatria e dei manicomi.
Infatti,
sino all’approvazione della legge 180 del 13 maggio 1978 (la cosiddetta
legge “Basaglia”) la “cura” dei malati mentali era concepita come
reclusione nei manicomi per le persone che potevano essere “pericolose
per sé e per gli altri” ma anche, come recitava la vetusta legge 36 del
1904, fossero di “pubblico scandalo”.
Una
formulazione, quest’ultima, che portò alla reclusione nei manicomi di
prostitute, omosessuali, o di persone semplicemente depresse o
“devianti” dalle norme.
La
legge 180/78 di cui ancora oggi si parla molto, restò in realtà in
vigore solo sei mesi perché nel dicembre del 1978 venne approvata la
legge 833 che istituì il Servizio Sanitario Nazionale in cui ne furono
integrati quasi tutti gli articoli.
Purtroppo
la regionalizzazione del SSN che ha preso avvio nel 1992, ha provocato
grandi differenze regionali sulla quantità e qualità dei servizi
psichiatrici. Inoltre la continua politica di definanziamento della
sanità pubblica ha diminuito la presenza e l’efficienza dei servizi
territoriali, che sono il nodo fondamentale per garantire un’assistenza
valida proprio sul punto chiave del reinserimento sociale e lavorativo
dei pazienti.
Un
reinserimento che viene comunque pazientemente perseguito da molte
strutture con progetti che hanno bisogno, per la loro realizzazione, di
poter avere quella continuità che, purtroppo il confinamento di questo
periodo sta mettendo a rischio.
*****
La pandemia nella testa di chi soffre di una malattia psichiatrica
Giuseppe Rizzo – Internazionale
Quando
i medici hanno provato a spiegargli l’importanza di indossare una
mascherina, Massimo gli ha detto di non preoccuparsi troppo per lui:
“Come sapete, sono immortale”. Magro, capelli rasati e occhi verdi,
Massimo non scherzava. Ha 34 anni e dal febbraio del 2018 vive a Villa
Letizia, una comunità terapeutica convenzionata nel quartiere di
Monteverde a Roma. Santo Rullo, lo psichiatra che guida la struttura,
gli ha risposto con la stessa serietà. Ha detto a Massimo di capire la
sua situazione ma gli ha chiesto di mettersi nei panni degli altri 24
pazienti e in quelli dei dottori, degli infermieri e degli operatori che
danno una mano a lui e ai suoi compagni: “Fallo per noi”. Massimo ha
capito, ha detto che la mascherina non l’avrebbe indossata, ma che
avrebbe fatto una concessione: dal momento che tutti loro sono mortali,
avrebbe mantenuto la distanza di sicurezza. Rullo ha sorriso e gli ha
detto che era già qualcosa.
In
queste settimane, una delle parti più complicate del lavoro della sua
squadra è stata fare l’esatto contrario di quello che fa da sempre, e
cioè raccomandare di innalzare delle barriere con il mondo esterno
invece di superarle, chiedere di mantenere le distanze tra le persone
anziché accorciarle. Naturalmente, rinunciare a progetti di
reinserimento o perfino a semplici passeggiate, sentire l’aria intorno a
sé diventare satura di ansie e paure, ha avuto le sue conseguenze.
Dall’inizio della pandemia, a Villa Letizia e nell’adiacente Villa madre
Chiara Ricci, che ospita 19 minorenni, si sono contati due tentativi di
suicidio, un paio di fughe e alcuni ricoveri in ospedale di pazienti
che non hanno retto.
La quarantena ha modificato la trama delle giornate di tutti, è perfino ovvio dirlo, ma per tanti quella trama era già fatta di fili sottili, in grado di rompersi facilmente. Esmé Weijun Wang, scrittrice californiana che soffre di schizofrenia, ha trovato una sintesi efficace per raccontare la condizione di chi ogni giorno fa i conti con un disturbo psichico: “Essere vivi e malati è una fatica molto più complessa di quanto ci piacerebbe ammettere”. Alleggerire questa fatica è parte del lavoro di medici come Rullo. Capire che riguarda molte più persone di quante si pensi, dovrebbe essere lo sforzo di tutti.
Qualche numero aiuta a provarci. Secondo l’ultima rilevazione del ministero della salute, in Italia le persone assistite dai servizi specialistici perché soffrono di una malattia psichiatrica sono circa 851mila. Nel 2017 quelle che per la prima volta si sono rivolte ai dipartimenti di salute mentale sono state 335mila. Nella stragrande maggioranza dei casi hanno chiesto aiuto perché soffrivano di depressione, di schizofrenia o di sindromi nevrotiche. La loro vita, oggi, è sospesa come quella di tutti. Ma come raccontano le storie delle persone che vivono a Villa Letizia e a Villa madre Chiara Ricci, in molti casi questa sospensione può avere conseguenze gravi.
Lo psichiatra ha 58 anni e da dodici è a Villa Letizia. Da dietro la mascherina protettiva mi spiega il perché della domanda di Gaetano. Nato nel 1981, pelle olivastra e broncio perenne, Gaetano è cresciuto a Roma senza il padre e con una madre che aveva problemi psichiatrici. Quando la donna è morta, il ragazzo ha ereditato il suo appartamento. “È stata la sua fortuna”, racconta Rullo, “gli ha consentito di barcamenarsi per tutta l’adolescenza, passando dei periodi in comunità e altri a casa”. L’equilibrio si è rotto un giorno di qualche anno fa quando una ragazza minorenne lo ha accusato di averla molestata. “È successo su un autobus, in un periodo più complicato del solito per Gaetano”, dice il dottore. La denuncia ha portato a una condanna e la condanna lo ha portato a Villa Letizia, dove il magistrato ha chiesto a Rullo e agli altri medici di valutare la sua pericolosità sociale.
“Zia Laura e zia Giusi dicono che sono pericoloso”, dice Gaetano. Rullo sorride e spiega che le due zie sono in realtà i magistrati che si occupano del caso. “Ma tu non sei pericoloso”, dice il dottore, “lo abbiamo scritto anche nella relazione per loro”. Nel documento Rullo auspicava che Gaetano potesse passare l’ultima parte della misura cautelare nel suo appartamento, ma la quarantena ha bloccato tutto. Insieme al progetto, è saltata anche la pazienza di Gaetano.
La quarantena ha modificato la trama delle giornate di tutti, è perfino ovvio dirlo, ma per tanti quella trama era già fatta di fili sottili, in grado di rompersi facilmente. Esmé Weijun Wang, scrittrice californiana che soffre di schizofrenia, ha trovato una sintesi efficace per raccontare la condizione di chi ogni giorno fa i conti con un disturbo psichico: “Essere vivi e malati è una fatica molto più complessa di quanto ci piacerebbe ammettere”. Alleggerire questa fatica è parte del lavoro di medici come Rullo. Capire che riguarda molte più persone di quante si pensi, dovrebbe essere lo sforzo di tutti.
Qualche numero aiuta a provarci. Secondo l’ultima rilevazione del ministero della salute, in Italia le persone assistite dai servizi specialistici perché soffrono di una malattia psichiatrica sono circa 851mila. Nel 2017 quelle che per la prima volta si sono rivolte ai dipartimenti di salute mentale sono state 335mila. Nella stragrande maggioranza dei casi hanno chiesto aiuto perché soffrivano di depressione, di schizofrenia o di sindromi nevrotiche. La loro vita, oggi, è sospesa come quella di tutti. Ma come raccontano le storie delle persone che vivono a Villa Letizia e a Villa madre Chiara Ricci, in molti casi questa sospensione può avere conseguenze gravi.
Gli effetti della quarantena
Ad accompagnarmi nella stanza di Rullo una mattina di metà aprile è Gaetano, un ragazzo che vive a Villa Letizia da due anni e due mesi, e che chiede subito se sono il signor magistrato. Gli rispondo di no mentre un’operatrice mi misura la temperatura, puntandomi alla tempia uno strumento che somiglia a una pistola. “Siamo obbligati a farlo a chiunque entri nella struttura”, dice Rullo.Lo psichiatra ha 58 anni e da dodici è a Villa Letizia. Da dietro la mascherina protettiva mi spiega il perché della domanda di Gaetano. Nato nel 1981, pelle olivastra e broncio perenne, Gaetano è cresciuto a Roma senza il padre e con una madre che aveva problemi psichiatrici. Quando la donna è morta, il ragazzo ha ereditato il suo appartamento. “È stata la sua fortuna”, racconta Rullo, “gli ha consentito di barcamenarsi per tutta l’adolescenza, passando dei periodi in comunità e altri a casa”. L’equilibrio si è rotto un giorno di qualche anno fa quando una ragazza minorenne lo ha accusato di averla molestata. “È successo su un autobus, in un periodo più complicato del solito per Gaetano”, dice il dottore. La denuncia ha portato a una condanna e la condanna lo ha portato a Villa Letizia, dove il magistrato ha chiesto a Rullo e agli altri medici di valutare la sua pericolosità sociale.
“Zia Laura e zia Giusi dicono che sono pericoloso”, dice Gaetano. Rullo sorride e spiega che le due zie sono in realtà i magistrati che si occupano del caso. “Ma tu non sei pericoloso”, dice il dottore, “lo abbiamo scritto anche nella relazione per loro”. Nel documento Rullo auspicava che Gaetano potesse passare l’ultima parte della misura cautelare nel suo appartamento, ma la quarantena ha bloccato tutto. Insieme al progetto, è saltata anche la pazienza di Gaetano.
“Io
non ce la faccio più”, dice, “io da qui me ne devo andare”. Sono
passate da poco le nove e questa è la parte della giornata in cui Rullo
incassa le frustrazioni, le lamentele e le domande dei suoi pazienti.
Dopo averli ascoltati ammorbidisce i malumori, ribalta alcune
argomentazioni e invita tutti a riflettere sul loro ruolo nei conflitti
che denunciano. “Io ce l’ho con il mondo. Io voglio uscire da qui se no
ammazzo qualcuno”, dice senza molta convinzione Gaetano. Rullo sorride:
“Quante volte ti ho spiegato che dire una frase del genere a chi sta
valutando la tua pericolosità sociale non è una grande mossa?”.
Gaetano
dice che non era serio. “Non lo faresti anche perché sei buono come il
pane”, gli risponde Rullo. Gaetano si alza, ma prima di andarsene ci
tiene a dire un’ultima cosa: “Signor giornalista, stavo scherzando”.
Rullo non lo lascia andare via così: “Non si scherza su queste cose, non
si dicono”. Gaetano prova a prendersi l’ultima parola: “Allora neanche
gli operatori devono dirmi ‘li mortacci tua’”.
Quando rimaniamo soli, Rullo mi spiega che tra i pazienti c’è chi sta tenendo bene l’ulteriore carico di inquietudine causato dalla pandemia e chi invece ha i nervi tesi come lame. Tra i primi c’è Ivano, che ha 53 anni e ne ha passati dieci in alcuni manicomi criminali. Rullo lo presenta come “l’incarnazione della storia della psichiatria”. Con perfetto tempo comico Ivano aggiunge: “Ma dagli albori, da Freud proprio”.
Il dottore gli chiede di raccontare cos’è successo dopo la condanna per omicidio colposo: “A vent’anni stavo male e ho messo sotto uno che manco conoscevo, facevo il militare e m’hanno portato prima al manicomio di Secondigliano e poi a quello di Aversa. Botte dalla mattina alla sera. Poi quando sono uscito ho continuato le cure, ero seguito. Nel frattempo ho vissuto dieci anni per strada”. A questo punto Ivano fa una pausa e poi si rivolge a Rullo: “Dotto’, gli dica quando mi so’ dato fuoco a piazzale Annibaliano”. Rullo dice che lavorava in una asl lì vicino, ma che non aveva fatto in tempo a fare niente. “Manco io”, dice Ivano. “Beh, insomma, tu ti sei dato fuoco”, gli ricorda lo psichiatra. Ivano ride, l’ironia è il modo che ha trovato per sopravvivere ai manicomi e alla strada. A Villa Letizia è arrivato due anni e mezzo fa. La quarantena, dice, a lui non pesa: “Dopo dieci anni di manicomio, sono abituato a stare rinchiuso”.
Quando rimaniamo soli, Rullo mi spiega che tra i pazienti c’è chi sta tenendo bene l’ulteriore carico di inquietudine causato dalla pandemia e chi invece ha i nervi tesi come lame. Tra i primi c’è Ivano, che ha 53 anni e ne ha passati dieci in alcuni manicomi criminali. Rullo lo presenta come “l’incarnazione della storia della psichiatria”. Con perfetto tempo comico Ivano aggiunge: “Ma dagli albori, da Freud proprio”.
Il dottore gli chiede di raccontare cos’è successo dopo la condanna per omicidio colposo: “A vent’anni stavo male e ho messo sotto uno che manco conoscevo, facevo il militare e m’hanno portato prima al manicomio di Secondigliano e poi a quello di Aversa. Botte dalla mattina alla sera. Poi quando sono uscito ho continuato le cure, ero seguito. Nel frattempo ho vissuto dieci anni per strada”. A questo punto Ivano fa una pausa e poi si rivolge a Rullo: “Dotto’, gli dica quando mi so’ dato fuoco a piazzale Annibaliano”. Rullo dice che lavorava in una asl lì vicino, ma che non aveva fatto in tempo a fare niente. “Manco io”, dice Ivano. “Beh, insomma, tu ti sei dato fuoco”, gli ricorda lo psichiatra. Ivano ride, l’ironia è il modo che ha trovato per sopravvivere ai manicomi e alla strada. A Villa Letizia è arrivato due anni e mezzo fa. La quarantena, dice, a lui non pesa: “Dopo dieci anni di manicomio, sono abituato a stare rinchiuso”.
Non
è così semplice per Fabio, un ragazzo di Milano di 33 anni che entra
nella stanza di Rullo per chiedergli un favore: “Ho lasciato il
caricabatterie del telefono in ospedale. Senza musica e senza film
impazzisco”. Il dottore dice che vedrà cosa si può fare. Fabio ringrazia
ed esce. Rullo spiega come sono andate le cose: “Due sere fa è crollato
ed è stato portato in ospedale. Lì hanno combinato un disastro. Lui
certo non è stato calmo, ma la loro risposta è stata metterlo su un taxi
alle due di notte e rispedirlo qui. Senza fargli un tampone e senza un
foglio di dimissioni”. Rullo è furioso anche per un’altra questione:
“Lavoriamo con Fabio da tre anni, ma non riusciamo ancora a inquadrarlo
da un punto di vista diagnostico. Eppure, all’ospedale lo hanno bollato
immediatamente come antisociale. Il che significa dire: c’è un’emergenza
in corso e tu sei un rompicoglioni, non ho il tempo o la voglia di
ascoltarti, perciò ti etichetto come indesiderabile. E questo non va
bene”.
“Abbiamo
fatto un patto con i pazienti”, dice Rullo, “cercheremo di essere più
tolleranti quando hanno degli episodi, ma dovranno esserlo anche loro
con i loro compagni, con i dottori e con gli operatori”. Alla
conversazione si unisce la psichiatra e psicoterapeuta Grazia
Cassatella, che è a Villa Letizia da otto mesi. “Appena in tempo per
passare dai progetti di apertura e reinserimento alla chiusura di quasi
tutte le attività”, spiega. “Laboratori come quello teatrale o musicale
sono stati sospesi, così come le semplici passeggiate, e chi tra i
pazienti faceva volontariato o usciva per lavorare ora non può più
farlo”. Cassatella parla di valvole di sfogo che si sono chiuse da un
giorno all’altro, e dice che questo non poteva non avere conseguenze.
“Fabio non vede i suoi da un anno, era pronto a fare dei passi in avanti
ma gli è stato detto di fermarsi. Una ragazza di 24 anni ci teneva ad
andare a casa del padre e a rivedere la madre, ma non avendo potuto fare
nulla, è entrata in un modus anoressico per cui rifiuta tutto il cibo che le diamo, facendoci preoccupare molto”.
Uno dei modi che gli psichiatri di Villa Letizia hanno trovato per lavorare sulle piccole e grandi tempeste che la pandemia agita nei loro pazienti è vedersi tutti insieme ogni mattina nel giardino esterno della struttura. Seduti in cerchio a distanza di sicurezza, ognuno esprime le proprie paure e le proprie rabbie. “È qualcosa a metà tra una riunione di condominio e un’attività terapeutica”, dice Rullo, “ma in qualche modo funziona”.
L’assemblea
L’assemblea
comincia sotto il sole alto delle dieci del mattino e va avanti per più
di un’ora. Santo Rullo chiede ai quindici pazienti davanti a lui chi si
sente triste. “Io!”, grida Chiara, 37 anni, piccola e nervosa. “Ma
quanto dura questa tristezza?”, vuole sapere il dottore. “Mille anni”,
dice Chiara a pieni polmoni. E dopo, con un’ottava più bassa, aggiunge:
“Poi passa”. Qualcuno non sente, qualcun altro sorride.
Gaetano è seduto su una cyclette e interviene in un momento di silenzio: “Dice che in America gli scienziati stanno trovando delle soluzioni. Rullo, quando smette questa cosa?”. È una domanda che risuona in tutto il mondo. Lo psichiatra cerca di essere il più onesto possibile: “Molti esperti sono al lavoro, ma quando tutto questo finirà ancora non lo sappiamo con certezza”. Massimo, che è immortale ma anche molto ansioso, racconta di averlo sentito in radio: “Dicevano che finisce il 3-4 maggio, bisogna avere pazienza”. Rullo non crede a quello che ha appena sentito: “Pazienza? Hai detto che bisogna avere pazienza? Beh, detto da te vuol dire che sei guarito!”. Massimo annuisce e un sorriso leggero gli si disegna sulle labbra.
Gloria, una ragazza dai lunghi capelli neri e gli occhi scuri come l’inchiostro, mostra una certa sfiducia: “Noi qui ci comportiamo bene, ma gli altri fuori come si stanno comportando?”. Rullo affronta la questione in maniera diretta: “Molte delle vostre storie sono caratterizzate dalla sfiducia verso qualcuno: un genitore, un dottore, un amico, voi stessi. In questo momento invece dobbiamo avere più fiducia. Le persone che prima vi spaventavano, anche loro si sono riscoperte più vulnerabili. Anche loro stanno capendo che siamo tutti fragili”. Gloria aggiunge un ulteriore motivo di preoccupazione: “Comunque dicono che quando finirà, la ripresa sarà durissima. Come faremo, come si farà?”. “Si farà abituandosi a un mondo nuovo”, risponde lo psichiatra. “Vi ricordate quanto è stato difficile all’inizio stare lontani gli uni dagli altri, indossare le mascherine, lavarsi più spesso le mani? Eppure ce l’abbiamo fatta. Approfittate della quarantena per individuare le vostre risorse e per sfruttarle. Chiedetevi cosa potete fare voi per modificare la vostra vita, senza avere troppa sfiducia e senza incolpare sempre gli altri”.
Prima di sciogliersi, l’assemblea si dà dei compiti. C’è chi pulirà la sala dove si mangia, chi i corridoi e chi i giardini. Poi, prima di pranzo, ci si riunirà in piccoli gruppi terapeutici dove si discuterà ancora più a fondo delle proprie emozioni.
I più giovani
Dall’altra
parte del giardino, a pochi metri dall’ingresso di Villa Letizia, c’è
quello di Villa madre Chiara Ricci, che ospita 19 minorenni. Le due
strutture sono separate anche se condividono alcuni medici e
specialisti. Ad accompagnarmi nella seconda è la psicoterapeuta Maria
Rita Ludovici. Occhiali da vista sul naso e mascherina sulla bocca,
Ludovici spiega che ragazze e ragazzi sono quasi tutti di Roma o del
Lazio. Il più giovane ha 14 anni, ma ci sono anche diversi maggiorenni.
“Tecnicamente potrebbero stare solo fino ai 18 anni, ma se c’è un
progetto scolastico in corso, allora restano fino al diploma”.
Mentre saliamo le scale dell’edificio, la dottoressa racconta che la maggioranza di loro è passata per l’uso di marijuana e che tutti hanno famiglie più o meno disfunzionali. “Tanti genitori non riescono o non vogliono riconoscere che i figli hanno delle patologie”, dice Ludovici, “oppure che spacciano o che stanno abusando di certe sostanze. In questi casi, le asl segnalano al tribunale che c’è qualcosa che non va e un giudice dopo vari inviti a intervenire può decidere di sospendere la patria potestà”.
Uno dei modi che gli psichiatri di Villa Letizia hanno trovato per lavorare sulle piccole e grandi tempeste che la pandemia agita nei loro pazienti è vedersi tutti insieme ogni mattina nel giardino esterno della struttura. Seduti in cerchio a distanza di sicurezza, ognuno esprime le proprie paure e le proprie rabbie. “È qualcosa a metà tra una riunione di condominio e un’attività terapeutica”, dice Rullo, “ma in qualche modo funziona”.
L’assemblea
L’assemblea
comincia sotto il sole alto delle dieci del mattino e va avanti per più
di un’ora. Santo Rullo chiede ai quindici pazienti davanti a lui chi si
sente triste. “Io!”, grida Chiara, 37 anni, piccola e nervosa. “Ma
quanto dura questa tristezza?”, vuole sapere il dottore. “Mille anni”,
dice Chiara a pieni polmoni. E dopo, con un’ottava più bassa, aggiunge:
“Poi passa”. Qualcuno non sente, qualcun altro sorride. Gaetano è seduto su una cyclette e interviene in un momento di silenzio: “Dice che in America gli scienziati stanno trovando delle soluzioni. Rullo, quando smette questa cosa?”. È una domanda che risuona in tutto il mondo. Lo psichiatra cerca di essere il più onesto possibile: “Molti esperti sono al lavoro, ma quando tutto questo finirà ancora non lo sappiamo con certezza”. Massimo, che è immortale ma anche molto ansioso, racconta di averlo sentito in radio: “Dicevano che finisce il 3-4 maggio, bisogna avere pazienza”. Rullo non crede a quello che ha appena sentito: “Pazienza? Hai detto che bisogna avere pazienza? Beh, detto da te vuol dire che sei guarito!”. Massimo annuisce e un sorriso leggero gli si disegna sulle labbra.
Gloria, una ragazza dai lunghi capelli neri e gli occhi scuri come l’inchiostro, mostra una certa sfiducia: “Noi qui ci comportiamo bene, ma gli altri fuori come si stanno comportando?”. Rullo affronta la questione in maniera diretta: “Molte delle vostre storie sono caratterizzate dalla sfiducia verso qualcuno: un genitore, un dottore, un amico, voi stessi. In questo momento invece dobbiamo avere più fiducia. Le persone che prima vi spaventavano, anche loro si sono riscoperte più vulnerabili. Anche loro stanno capendo che siamo tutti fragili”. Gloria aggiunge un ulteriore motivo di preoccupazione: “Comunque dicono che quando finirà, la ripresa sarà durissima. Come faremo, come si farà?”. “Si farà abituandosi a un mondo nuovo”, risponde lo psichiatra. “Vi ricordate quanto è stato difficile all’inizio stare lontani gli uni dagli altri, indossare le mascherine, lavarsi più spesso le mani? Eppure ce l’abbiamo fatta. Approfittate della quarantena per individuare le vostre risorse e per sfruttarle. Chiedetevi cosa potete fare voi per modificare la vostra vita, senza avere troppa sfiducia e senza incolpare sempre gli altri”.
Prima di sciogliersi, l’assemblea si dà dei compiti. C’è chi pulirà la sala dove si mangia, chi i corridoi e chi i giardini. Poi, prima di pranzo, ci si riunirà in piccoli gruppi terapeutici dove si discuterà ancora più a fondo delle proprie emozioni.
I più giovani
Dall’altra
parte del giardino, a pochi metri dall’ingresso di Villa Letizia, c’è
quello di Villa madre Chiara Ricci, che ospita 19 minorenni. Le due
strutture sono separate anche se condividono alcuni medici e
specialisti. Ad accompagnarmi nella seconda è la psicoterapeuta Maria
Rita Ludovici. Occhiali da vista sul naso e mascherina sulla bocca,
Ludovici spiega che ragazze e ragazzi sono quasi tutti di Roma o del
Lazio. Il più giovane ha 14 anni, ma ci sono anche diversi maggiorenni.
“Tecnicamente potrebbero stare solo fino ai 18 anni, ma se c’è un
progetto scolastico in corso, allora restano fino al diploma”. Mentre saliamo le scale dell’edificio, la dottoressa racconta che la maggioranza di loro è passata per l’uso di marijuana e che tutti hanno famiglie più o meno disfunzionali. “Tanti genitori non riescono o non vogliono riconoscere che i figli hanno delle patologie”, dice Ludovici, “oppure che spacciano o che stanno abusando di certe sostanze. In questi casi, le asl segnalano al tribunale che c’è qualcosa che non va e un giudice dopo vari inviti a intervenire può decidere di sospendere la patria potestà”.
Dopo
due rampe di scale incontriamo un paio di ragazze. Il primo piano è la
parte dell’edificio riservata a loro. Ognuna ha una camera con bagno e
fino a poco tempo fa poteva condividere un divano con le altre per
guardare la tv. Ora se vogliono farlo devono sedersi a distanza su delle
sedie. Qui i ragazzi non possono entrare, il loro piano è il secondo. È
lì che ne incontriamo tre che giocano alla Playstation. “L’hanno avuta a
grande richiesta, una concessione per la quarantena”, dice la
psicoterapeuta. Su un terrazzino, un gruppetto di ragazze e ragazzi si
gode il sole, qualcuno abbracciato, qualcuno sdraiato su qualcun altro.
“Ci proviamo a dirgli di stare attenti e di mantenere le distanze di
sicurezza, ma con i più giovani non è così semplice”, dice Ludovici. “E
del resto, con loro buona parte del lavoro che facevamo prima
dell’emergenza era incentrato sull’importanza del gruppo, della
vicinanza, mentre ora non possiamo fare più niente del genere, compresi i
laboratori di teatro o di musica, oppure le due uscite settimanali
durante le quali cercavamo di capire come se la cavavano da soli”.
Tutto
questo non è stato indolore. “Ragazze e ragazzi ribollono, la loro
impulsività è aumentata”, dice Ludovici. Molti vanno nel cortile esterno
a sfogarsi, qualcuno urla, qualcuno crolla. Due all’inizio
dell’emergenza sono scappati per provare a passare la quarantena a casa.
“Quando sono tornati abbiamo dovuto metterli in isolamento in camera
loro”, racconta la dottoressa. Una ragazza ha tentato il suicidio due
volte. “Quando è stata ricoverata al Bambino Gesù l’ha visitata un
medico che poi è stato trovato positivo al covid-19, ma per fortuna le
hanno fatto il tampone ed è risultato negativo”.
Non passa giorno che qualcuno non chieda quando finirà tutto questo, quando si potrà tornare a scuola, a uscire, a vedere i propri genitori.
Alternative
In
un mondo che si è fermato per cercare di contenere il contagio del
nuovo coronavirus, il rumore che copriva ogni cosa è diminuito ed è
emerso con più chiarezza lo stridore di tanti meccanismi inceppati o
rotti. La pandemia, com’è successo in altri casi, ha reso più evidenti
le debolezze anche nel perimetro della salute mentale. “Arriviamo a
questa situazione dopo anni di tagli,
che hanno depotenziato i centri di salute mentale, i centri diurni, le
asl”, spiega Santo Rullo. “Questi servizi in psichiatria sono
fondamentali, perché sono sentinelle sul territorio. Da un lato
dovrebbero intercettare le situazioni di crisi e dall’altro fornire dei
progetti per accogliere chi le ha superate”. Non ce la fanno perché
tanti hanno poco budget e poco personale, e così non riescono a
immaginare niente che non sia la sopravvivenza quotidiana.
“Faccio un esempio che ci riguarda”, dice lo psichiatra di Villa Letizia. “Per noi undici dei nostri pazienti, undici su venticinque, potrebbero uscire, ma non c’è nessun progetto per loro fuori”. Negli anni, Rullo e i suoi collaboratori sono riusciti a costruire qualcosa per qualcuno. Una coppia ora vive in maniera autonoma a pochi passi dal centro, mentre “Karim e Mario, due ragazzi che hanno sofferto per anni, stanno a un chilometro da qui, e prima della quarantena venivano solo per qualche attività diurna”. E poi c’è la storia di Daniele, che da ragazzo era esploso in alcuni episodi di violenza in famiglia. Era arrivato a Villa Letizia molto giovane e ora è uno degli operatori.
Non passa giorno che qualcuno non chieda quando finirà tutto questo, quando si potrà tornare a scuola, a uscire, a vedere i propri genitori.
Alternative
In
un mondo che si è fermato per cercare di contenere il contagio del
nuovo coronavirus, il rumore che copriva ogni cosa è diminuito ed è
emerso con più chiarezza lo stridore di tanti meccanismi inceppati o
rotti. La pandemia, com’è successo in altri casi, ha reso più evidenti
le debolezze anche nel perimetro della salute mentale. “Arriviamo a
questa situazione dopo anni di tagli,
che hanno depotenziato i centri di salute mentale, i centri diurni, le
asl”, spiega Santo Rullo. “Questi servizi in psichiatria sono
fondamentali, perché sono sentinelle sul territorio. Da un lato
dovrebbero intercettare le situazioni di crisi e dall’altro fornire dei
progetti per accogliere chi le ha superate”. Non ce la fanno perché
tanti hanno poco budget e poco personale, e così non riescono a
immaginare niente che non sia la sopravvivenza quotidiana. “Faccio un esempio che ci riguarda”, dice lo psichiatra di Villa Letizia. “Per noi undici dei nostri pazienti, undici su venticinque, potrebbero uscire, ma non c’è nessun progetto per loro fuori”. Negli anni, Rullo e i suoi collaboratori sono riusciti a costruire qualcosa per qualcuno. Una coppia ora vive in maniera autonoma a pochi passi dal centro, mentre “Karim e Mario, due ragazzi che hanno sofferto per anni, stanno a un chilometro da qui, e prima della quarantena venivano solo per qualche attività diurna”. E poi c’è la storia di Daniele, che da ragazzo era esploso in alcuni episodi di violenza in famiglia. Era arrivato a Villa Letizia molto giovane e ora è uno degli operatori.
“Costruire
delle alternative aiuta le strutture a reagire meglio in momenti di
emergenza come quello attuale”, dice Rullo. “Per molti nostri pazienti
Villa Letizia è come una casa, ma succede che nei momenti di difficoltà,
di chiusura, di alternative ridotte a zero come quelli che stiamo
vivendo, qualcuno pensi che sia un manicomio e si chieda perché debba
stare qui per anni senza avere diritto ad altro”.
La
speranza di Rullo è che dopo la pandemia si esca da questo vicolo
cieco. “La politica dovrebbe rendersi conto che privare di aiuto o
alternative una persona che soffre di problemi psichici spesso significa
lasciarla scivolare nell’imbuto dei reati, fatti gravi ma anche
ridicoli”, dice lo psichiatra. Fatti che in mancanza di ascolto, aiuto e
alternative, portano chi soffre negli unici due luoghi che per loro
restano sempre aperti, ovvero le aule giudiziarie e le carceri.
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