venerdì 24 aprile 2020

Coronavirus, uno studio ‘troppo drammatico’ è stato secretato per evitare il panico. Sicuri che sia giusto così?

Il Fatto Quotidiano

Il direttore generale del Ministero della Salute, Andrea Urbani, ha riferito al Corriere della Sera dell’esistenza di uno studio epidemiologico italiano sul Covid-19 che “contiene tre scenari per l’Italia, uno dei quali troppo drammatico per essere divulgato senza scatenare il panico tra i cittadini. Per questo il piano è stato secretato“. Questa affermazione, se vera, è a mio parere molto grave. In primo luogo nascondere l’informazione ai cittadini, anche a fin di bene, sa di totalitarismo. In secondo luogo, anziché controllare il panico, la mancanza di informazione lo ha aumentato. In Inghilterra, dove di democrazia evidentemente si ha una tradizione più solida della nostra, sono stati resi accessibili alla popolazione vari studi epidemiologici, anche abbastanza drammatici.
Di fronte alle candide ammissioni del Ministero della Salute si pongono due problemi, uno di sostanza e uno di metodo. Nella sostanza, ormai, il documento è superato: abbiamo letto gli studi degli inglesi, e poiché la popolazione del Regno Unito è solo leggermente superiore a quella italiana, le cifre dovrebbero essere simili. Lo studio della London School of Hygiene prevede che l’epidemia, in assenza di misure di contenimento, possa causare nel Regno Unito circa 370mila decessi, e analizza il possibile effetto di varie misure di contenimento che possono giungere a dimezzare questa cifra o anche più che dimezzarla, però con costi sociali gravosi.
Il numero di decessi va posto in relazione con il tasso di mortalità “normale” della popolazione che per il Regno Unito ammonta a circa 700mila decessi ogni anno: in pratica nell’anno dell’epidemia si potrebbe osservare, in assenza di misure di contenimento e nella peggiore delle ipotesi, un tasso grezzo di mortalità di circa l’1,5% invece dell’1% usuale.

La mortalità dovuta all’epidemia è una tantum: l’epidemia finisce quando la maggioranza della popolazione è diventata immune, e questo in assenza di un vaccino accade perché ha contratto la malattia e ne è guarita. Poi per un certo tempo la popolazione risulta in larga misura immune dal virus, a meno di sue mutazioni. A conferma di questo sta l’efficacia terapeutica della trasfusione di plasma di sangue prelevato dai soggetti guariti.
Si stima che attualmente potrebbe essersi immunizzato circa il 5% della popolazione italiana, e che per far cessare l’epidemia sia necessario il 70%. Può darsi che fenomeni di resistenza genetica al contagio possano far bastare una proporzione inferiore di immuni, forse anche soltanto il 50%; ma in ogni caso siamo ben lontani da questi valori.
Il problema di metodo è più grave. Poiché gli studi inglesi o di altre nazioni in Italia non sono stati divulgati al pubblico e quello italiano è stato secretato, ciascuno ha costruito nella sua mente scenari più o meno fantasiosi e apparentemente in molti casi irrealistici. Non si spiegherebbe altrimenti perché il paese sembri ripiombare nel Medioevo, con la malattia trasformata in colpa, la paura degli untori, le violenze e le delazioni all’autorità costituita. L’aspettativa che una quarantena solidamente mantenuta arresti l’epidemia, e che il proseguire dell’epidemia sia colpa di chi porta a spasso il cane o va a fare una corsa intorno a casa sua, è il frutto di un panico reso incontrollato dalla mancanza di informazione autorevole, ed è paradossale che l’intenzione di chi ha sottratto l’informazione al cittadino fosse quella di prevenirlo.
E’ importante dire chiaramente che lo scopo del lockdown è rallentare il decorso dell’epidemia e controllare, se possibile, il sovraccarico delle strutture sanitarie; rallentare significa però prolungare, non fermare, l’epidemia. Poiché questo risultato si ottiene a prezzo di enormi costi, sia in termini economici sia in termini di danno delle relazioni sociali, è necessario da una parte scegliere il migliore possibile compromesso tra le esigenze della salute e quelle della sopravvivenza economica del paese e dei cittadini, e dall’altra fornire ai cittadini tutte le informazioni necessarie a renderli consapevoli del compromesso scelto.

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