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(Matteo Villa – ispionline.it) – In Italia e nel mondo il dibattito è già iniziato: cosa fare nella “fase due” dell’emergenza coronavirus? Dopo
aver appiattito la curva epidemica ed evitato il peggio, si tratterà
tra poche settimane di trovare un inedito equilibrio tra la ripresa
delle attività, necessaria per uscire da quella che minaccia di essere
la più profonda crisi economica dal secondo dopoguerra, e le nuove
necessità di distanziamento sociale, igiene e sicurezza.
Non sono in pochi in questi giorni ad aver riflettuto sul ruolo che
potrebbe giocare quel piccolo esercito di persone contagiate, poi
guarite, “negativizzate” (dunque sperabilmente non più contagiose) e che
almeno temporaneamente dovrebbero essere immuni da possibili
reinfezioni. Italia, Germania e Regno Unito discutono già di certificati, patenti o passaporti di immunità.
Di sicuro, prima che questi piani vedano la luce ci saranno due problemi da affrontare.
Innanzitutto, non è chiaro se tutte le persone che guariscono dall’infezione acquisiscano un’immunità, e quanto questa possa durare.
L’esperienza con altri coronavirus suggerisce che un’immunità almeno
parziale possa esserci e che possa durare almeno un anno, ma
evidentemente è un dato cruciale – e per il quale ancora non abbiamo
sufficienti evidenze.
In secondo luogo, non sappiamo se i risultati dei test
sierologici necessari per accertare la presenza degli anticorpi nel
corpo di una persona siano sufficientemente precisi da poter
essere applicati ai singoli individui. O, meglio, sappiamo che
probabilmente non lo sono. In genere questi test si utilizzano per fare
analisi epidemiologiche su gruppi di individui: in quel caso non è
determinante sapere se uno specifico individuo abbia o meno acquisito
l’immunità, perché a interessarci è il valore medio, assieme al
probabile errore che stiamo facendo. Si tratta di qualcosa di molto
diverso dal poter garantire con sufficiente certezza a una persona di
poter uscire di casa senza correre il rischio di potersi infettare (o di
infettare gli altri).
Anche se riuscissimo a sormontare questi due problemi, tuttavia,
sembra che manchi una riflessione a monte. Dovremmo infatti chiederci:
di cosa stiamo parlando? Quanto è grande, a oggi, questo possibile esercito di persone che saranno presto immuni?
Anche sulla scorta del nostro recente lavoro sui contagiati plausibili in Italia, abbiamo dunque deciso di calcolarlo per
un campione di sette paesi: cinque europei (Italia, Germania, Francia,
Spagna e Regno Unito), più gli Stati Uniti e la Cina. I risultati ci
dicono che la proporzione di persone plausibilmente contagiate e, si
spera, presto guarite è significativa ma ancora molto piccola in proporzione alla popolazione totale.
Questi risultati tuttavia cambiano, anche se non completamente, se
scendiamo dal livello nazionale a un livello molto locale. Il calcolo è
relativamente semplice: sappiamo che il tasso di letalità plausibile di
Covid-19 per l’Italia è stimabile in circa l’1,2%, con un intervallo di
confidenza del 95% che varia tra lo 0,5% e lo 1,8%. Dal momento che
Covid-19 colpisce in maniera molto maggiore le classi d’età più avanzate,
questi valori di letalità variano in funzione di quanto “giovane” o
“anziana” sia la popolazione di ciascun paese. Calcoliamo dunque il
valore di letalità plausibile di ciascun paese nel nostro campione, che
varia dallo 0,7% per la Cina all’1,2% per Italia e Germania.
Confrontando questo tasso di letalità plausibile con quello fatto
registrare in ciascun paese al 7 aprile 2020, possiamo avere un’idea di
quanto i conteggi ufficiali sottostimino la diffusione (in gergo, la
prevalenza) dell’epidemia in ciascun paese.
Come mostra il grafico qui sopra, la prevalenza stimata di Covid-19 è a oggi massima in Spagna:
secondo la stima centrale i contagiati sarebbero 1,4 milioni di
persone, ovvero circa il 3% della popolazione, e potrebbero salire fino a
3 milioni (quasi il 7%) nel caso la letalità plausibile di Covid-19
fosse molto bassa. Segue l’Italia, con un numero molto
simile di contagiati plausibili (sempre 1,4 milioni) che equivale a una
prevalenza del 2,4% della popolazione. Tra gli altri paesi analizzati solo Francia e Regno Unito restano sopra l’1% della propria popolazione, mentre Stati Uniti, Germania e Cina sono ben lontano persino dall’1%.
Questi numeri ci dicono due cose importanti. Primo: in nessun paese al mondo si è ancora raggiunta una prevalenza di Covid-19 sufficiente a rallentare l’avanzata dell’epidemia. Se il virus si comporta nel modo atteso a oggi (cioè se il suo tasso netto di riproduzione, R0, fosse intorno a 2,5), per raggiungere l’immunità di gregge le
persone contagiate e poi guarite dovrebbero essere almeno il 60% della
popolazione di un paese. Per un significativo rallentamento delle
infezioni questa quota dovrebbe come minimo superare il 40%. È evidente
che le cifre alle quali ci troviamo oggi non sono lontanamente
paragonabili a quelle necessarie.
La seconda cosa, altrettanto importante per pianificare la “fase
due”, è che i cinque paesi europei nel nostro campione raggiungono
insieme solo 4 milioni di contagiati rispetto a una
popolazione complessiva di 257 milioni di abitanti. Se anche fosse
possibile produrre “patenti d’immunità” per il ritorno alla produzione,
queste riguarderebbero una quota esigua di abitanti e, dunque, della forza lavoro.
Dunque quella delle patenti d’immunità è, a oggi, un’idea da scartare? Non necessariamente.
Se infatti è vero che a livello nazionale la prevalenza di Covid-19 è
ancora troppo bassa per fare la differenza, non è detto che lo sia a livello regionale o locale.
In tutti i paesi, infatti, il contagio è partito da una serie di
focolai e sembra, a oggi, essere rimasto concentrato in alcune regioni
specifiche. Per analizzare come cambia la situazione quando si passa
dalla scala nazionale a quella locale, abbiamo scelto di concentrarci sull’Italia.
Il grafico qui sopra mostra la prevalenza di Covid-19 stimata a livello regionale.
Come si può notare, il dato del 2,4% a livello nazionale varia in
maniera molto netta. Se in 13 Regioni su 20 la stima centrale non supera
il 2%, in Lombardia la miglior stima della prevalenza della malattia a
oggi è dell’8%, oltre tre volte rispetto alla media nazionale. Seguono
la Valle d’Aosta (6%) e l’Emilia-Romagna (4%). Addirittura, in caso di
letalità della malattia nella fascia bassa del valore atteso, la
prevalenza in Lombardia potrebbe raggiungere il 17%, e superare il 9%
anche in Emilia-Romagna.
Le cose cambiano ulteriormente se si scende ancora più nel dettaglio e stimiamo la prevalenza a livello provinciale.
Prendiamo come punto di riferimento proprio la Lombardia che, come
detto, ha i livelli di prevalenza stimati di Covid-19 massimi in Italia.
Quest’ultimo grafico mostra la prevalenza stimata di Covid-19 in tutte le province lombarde.
Partendo dai valori più bassi, notiamo innanzitutto che solo la
provincia di Varese avrebbe una prevalenza di Covid-19 inferiore alla
media nazionale (1,6% contro 2,4%). Tra i valori più alti, invece, le
province di Bergamo e Lodi avrebbero (o avrebbero avuto) un numero
totale di persone contagiate di poco inferiore al 20% dei loro abitanti,
seguite da Cremona (17%), Brescia (12%) e Pavia (9%). Per quanto
riguarda Bergamo e Lodi, il limite superiore dell’intervallo di
confidenza supera addirittura il 40%.
Se assieme a questo si considera che i recenti dati sulla mortalità diffusi da ISTAT attestano
che, nei comuni e nelle province più fortemente colpite dal virus, il
numero ufficiale di decessi di sospetti contagiati da Covid-19 potrebbe
essere un multiplo di quelli ufficiali, è probabile che la prevalenza
delle persone infettate sia persino superiore. La probabile forte prevalenza del
virus in quelle province significherebbe che tra alcune settimane, una
volta guarita la maggior parte delle persone, il virus troverebbe più
ostacoli e la sua diffusione rallenterebbe.
In questo senso, la tragica avanzata dell’epidemia nelle zone più
colpite d’Italia porterebbe oggi a individuare proprio nei cittadini di
quelle zone i candidati ideali per i primi test di
sieroprevalenza. Quel piccolo esercito di lavoratori già immuni sarebbe
infatti molto probabilmente più grande che altrove, e le persone
immunizzate sarebbero più facili da trovare, massimizzando il valore di
ogni singolo test.
Ciò ovviamente non significa che si potrebbe ripartire come se niente fosse.
Una forte prevalenza locale può rallentare il virus solo se si riducono
notevolmente i contatti tra zone diverse del paese, e soprattutto se le
persone sane di una provincia non ne escono, magari proprio per lavoro:
se un bergamasco non ancora immune lavora a Milano, non potrà godere
della “protezione” fornitagli dall’alto numero di persone guarite e
immunizzate che abitano e lavorano nella sua provincia. Inoltre anche le
persone immuni potrebbero diffondere il virus per contatto.
Occorrerebbe dunque molta prudenza, ma sarebbe di certo un passo avanti rispetto a un momento in cui l’intera popolazione corre il rischio di ammalarsi.
In conclusione, in questo momento la prevalenza del virus a livello nazionale è ancora troppo bassa per
poter permettere ai paesi di pensare di riaprire le attività economiche
basandosi unicamente sui test di sieroprevalenza. Ma sperimentazioni a livello locale dovrebbero
essere incoraggiate. Riflettere sulla “fase due” in questo momento è
fondamentale; basarsi su dati e stime realistici ci può aiutare a
comprendere il contributo che potrà giungere dalle singole proposte.
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