La
pandemia da Coronavirus non fa eccezione, svelando in modo brutale molte
carte. In questo caso, torna alla ribalta il sistematico sfruttamento nel settore agricolo, apertamente invocato dalla ministra delle politiche agricole Bellanova, dal sindaco di Bergamo Gori e da Confagricoltura.
Apparentemente, Bellanova e compagnia
cantante sembrano mossi da buonsenso: preoccupati da una possibile
penuria di prodotti agricoli e della conseguente scarsità di cibo sulle
nostre tavole, sottolineano le misure restrittive imposte per contenere
la diffusione del virus abbiano prodotto una carenza di lavoratori nei
campi.
Tuttavia, è curioso rilevare che il loro modo di pensare sottende
una visione della società fondata sullo sfruttamento dell’uomo
sull’uomo.
I toni sono fintamente benevoli: se da un lato si segnala
ipocritamente l’impossibilità di procedere al raccolto in queste
condizioni di emergenza, dall’altro la Ministra Bellanova ci ricorda che
abbiamo bisogno degli immigrati: “Basta con le banalizzazioni degli
anni scorsi, gli immigrati non sono nemici. Siamo noi ad aver bisogno di
loro”. Infine, in un sinistro crescendo rossiniano, se proprio i lavoratori dall’estero non possono venire, secondo la Ministra possono essere impiegati i cassaintegrati che percepiscono già il loro 80% di salario senza lavorare.
I lavoratori stagionali stranieri, in
questo caso a seguito delle norme di forte restrizione dei movimenti
delle persone imposte dal distanziamento sociale, non possono entrare in
Italia per prestare la propria manodopera alla nostra agricoltura.
Tuttavia, tale ritornello, tanto in tempi normali quanto in piena
emergenza pandemia, si ripete come da copione. Nulla di nuovo sotto il
sole, infatti: tanto per citare un altro esempio recente, nel marzo 2019
le confederazioni padronali del settore agricolo avevano gridato alla necessità di riaprire i flussi dei lavoratori stagionali.
In quel frangente la raccolta delle derrate primaverili ed estive era
messa a rischio da una linea troppo restrittiva del governo
sull’immigrazione. Va quindi isolato il vero punto che si cela dietro la
vicenda, al netto delle specificità relative ai singoli episodi.
Il nodo centrale è uno: senza i
braccianti agricoli sottopagati, cioè senza manodopera a basso costo da
importare, l’agricoltura italiana non va avanti. I già citati episodi
non fanno quindi che mettere a nudo la realtà del sistema di produzione
agricolo, fatta di salari da fame per lavoratrici e lavoratori, italiani e stranieri.
L’agricoltura si fonda sul sistematico impiego di lavoro precario e
discontinuo, non risparmiando né lavoratori italiani né stranieri. In
particolare, a questi ultimi viene permesso di arrivare per poter essere sfruttati
all’interno della catena produttiva agricola. Questo fenomeno non va
però imputato alla particolare avidità dei capitalisti che operano in
Italia in questo settore. La questione è più generale: interi settori
economici, in particolare quelli a più basso valore aggiunto ed esposti alla concorrenza internazionale,
si sostengono esclusivamente su salari infimi e su prezzi estremamente
bassi, spesso peraltro insostenibili per la piccola produzione
famigliare diretta. Questo avviene perché all’interno del commercio
internazionale i prezzi dei prodotti vengono fissati dalla concorrenza
internazionale. Ciò significa che il prezzo dei prodotti agricoli si
fissa in corrispondenza di un livello di salario bassissimo perché i grandi esportatori di frutta e verdura sono Paesi che hanno un costo del lavoro molto basso.
Ecco che prezzi stracciati consentono al sistema di produzione e
distribuzione di prosperare nella competizione globale e macinare
profitti, carpendo allo stesso tempo una domanda di mercato in Italia e
altrove da parte di milioni di lavoratori a salario basso che non
potrebbero permettersi, a condizioni salariali date, l’acquisto di
prodotti essenziali più cari. Va inoltre aggiunto che, se i prezzi delle
derrate agricole incorporassero salari dignitosi, a parità di profitto,
la concorrenza internazionale spazzerebbe via la produzione italiana.
Tale complesso fenomeno assume, in corrispondenza di episodiche carenze
di manodopera nel settore agricolo, una forma schiettamente visibile a
fronte delle sonore lamentele derivanti dalla mancanza di lavoratori da sfruttare.
Il ragionamento sul funzionamento complessivo del sistema consente di individuarne varie odiose sfaccettature.
Tra le tante, vediamo come il tenore di vita della nostra classe
subalterna dipenda tragicamente dallo sfruttamento ancor più brutale
delle classi subalterne di altri Paesi e dalla rovina dei piccoli
produttori diretti. A livello di politica interna poi, diviene palese la fasulla contraddizione
tra chi da un lato si sbraccia per la (presunta) sicurezza controllando
gli sbarchi e dall’altro però si lamenta se non arriva veramente
nessuno. L’obiettivo ultimo è sempre quello di rendere l’immigrato privo
di ogni diritto: in tal modo può essere sfruttato al massimo, tenendolo
nella strettoia del rigido controllo dei flussi e la sedicente benevola
concessione fattagli nel momento in cui lo si sfrutta.
Lo scenario tuttavia può essere
completamente ribaltato. Fuori dallo schema della concorrenza
internazionale indiscriminata, bisogna lottare per un settore agricolo
con salari molto più alti che si traducano in minori profitti – o
persino in profitti nulli – in un contesto di produzione cooperativa.
Inoltre, se contestualmente aumentassero i salari in tutti i settori
dell’economia, le condizioni di vita dei lavoratori agricoli (italiani o
stranieri che siano) e di tutti gli altri settori migliorerebbero a
discapito dei profitti della grande produzione e della grande
distribuzione. Ciò andrebbe fatto senza ricorrere ad aiuti e sussidi di
Stato, che come siamo abituati a vedere vengono sempre richiesti a gran
voce, ma solo quando servono a sostenere i profitti. In questo contesto, va
inoltre messa da parte qualsiasi velleità di vedere il lavoratore
immigrato come il nemico da contrapporre al lavoratore italiano: ciò che va cambiato è il contesto nel quale ci si muove, senza criminalizzare coloro che in quegli ingranaggi rappresentano le ruote più deboli.
Solo ribaltando il tavolo di un sistema malato che si regge sulla miseria di massa e sulla concorrenza tra poveri
è possibile immaginare davvero un’economia in cui la nostra
sopravvivenza economica non dipende dalla schiavitù altrui. Questo passa
inevitabilmente per una lotta politica tesa in prima istanza a tutelare
adeguatamente i lavoratori (italiani o immigrati che siano) e a
retribuirli con salari più alti, ponendo le basi per poter combattere
anche un sistema che agisce su scala internazionale.
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