global project di Lorenzo Feltrin
21 / 9 / 2019
I climate strikes
sono “veri” scioperi? La risposta a questa domanda dipende dalla nostra
definizione di sciopero, che a sua volta dipende dai nostri obiettivi politici.
La mia proposta è quella di vedere gli scioperi climatici, come anche gli scioperi
transfemministi, come parte del processo chiamato “sciopero sociale”.L’argomentazione si basa su due assunzioni teoriche:
-Una concezione ampliata della composizione di classe. In questo, seguo Alberto Prunetti nell’utilizzo dell’anglicismo “working class”, perché l’espressione italiana “classe operaia” purtroppo ci getta nel vicolo cieco di evocare un’inattuale centralità della fabbrica, reificando la classe come espressione di processi produttivi oggettuali invece che di una relazione sociale di esclusione dai mezzi di produzione. L’inglese working class indica più efficacemente la necessità di vendere la propria forza-lavoro per vivere [1];
-Una concezione degli interessi della classe che comprenda sia la produzione (il “fare merci”, nell’agricoltura e nei servizi come nell’industria) che la riproduzione (il “fare vita”, procreare e crescere figli.e, lavoro domestico, lavoro di cura, etc.).
Uno sciopero accade quando le lavoratrici e i lavoratori ritirano la propria prestazione lavorativa per strappare delle concessioni alla controparte padronale, privata o pubblica. Se consideriamo come lavoro esclusivamente il lavoro salariato, allora lo sciopero avviene solo quando dipendenti salariati effettuano una sospensione della produzione dall’interno del posto di lavoro. Tuttavia, se adottiamo una definizione di lavoro più ampia, che comprende tutte le attività – salariate e non, produttive e riproduttive – manifestamente o surrettiziamente subordinate all’accumulazione di capitale via creazione di profitto, allora esso non è soltanto contenuto nei posti di lavoro formali ma è diffuso attraverso tutta la società. Come hanno mostrato le correnti autonome del Marxismo e del femminismo, si lavora nelle case e nei territori (si pensi a tutte le mansioni domestiche, educative e di cura note come lavoro riproduttivo), si lavora attraverso i mezzi di comunicazione (la produzione di dati, emozioni, entertainment e idee catturati e venduti dai giganti di internet), si lavora nelle scuole (la formazione di una forza-lavoro adeguata alle necessità dell’economia), ecc. Lo sciopero sociale, quindi, si riferisce al ritiro della prestazione lavorativa in ogni sua forma, comprese le forme più socialmente diffuse.
Una tipica rappresentazione caricaturale dello sciopero sociale sta nell’accusa secondo cui, assegnando al lavoro non salariato e a quello riproduttivo la stessa “dignità” tradizionalmente riservata al lavoro salariato e produttivo, esso equivarrebbe a una ritirata dalla lotta di classe sul posto di lavoro. Al contrario, lo sciopero sociale deve mirare a impattare su tutto lo spettro del lavoro. Le controversie su quali tipi di lavoro debbano essere considerati come “primari” non mi sembrano particolarmente utili e hanno come unico esito concreto quello di frammentare le lotte. Dopotutto, il lavoro nella società capitalista non è una questione di dignità, ma di creazione coatta di profitto e controllo sociale, e in quanto tale è una disgrazia. La dignità sta nella resistenza, aperta o sotterranea, dei lavoratori e delle lavoratrici per aumentare il costo del lavoro sui profitti e ridurre il costo del lavoro sulla vita.
La teoria della riproduzione sociale è anche accusata di essere un tentativo di salvare l’apparato concettuale Marxista da un mondo a cui esso ormai non appartiene più, tentando di forzare soggetti e lotte che poco hanno a che vedere con le classi sociali nella camicia di forza dell’analisi di classe. Una prima risposta a questa critica potrebbe essere un semplice: “Guardiamoci attorno!”, le nostre vite sono plasmate da profonde disuguaglianze, crisi economiche e ristrutturazioni, e soprattutto pensiamo a quanto tempo di vita finisce speso in lavoro, pagato e non. Ma andando più in là, anche se il lavoro riproduttivo è da vedersi come interno alla relazione di sfruttamento, c’è molto da guadagnare nell’estendere il concetto di working class non solo oltre il salario ma anche oltre lo sfruttamento stesso. Questo può essere fatto basando la relazione di classe sull’esproprio piuttosto che sullo sfruttamento. Lavoratrici e lavoratori sono tutti gli espropriati da significativi livelli di proprietà e controllo di capitale. Come scriveva il Marxista britannico Simon Clarke: “Tutti gli espropriati sono potenzialmente lavoratori per il capitale e in questo senso sono membri della working class” [2]. Naturalmente, è impossibile stabilire in modo preciso quali livelli di proprietà e controllo di capitale siano da considerarsi come “significativi”, cosa che lascia spazio a un’ampia zona grigia, la cosiddetta classe media, in cui la relazione di classe attraversa singoli individui. In ogni caso, i conteggi quantitativi non sono necessari agli scopi di questo ragionamento. L’essenziale è che la relazione di classe così intesa è quanto mai parte del nostro mondo odierno.
Il concetto di classe può essere definito in molti modi e le definizioni non possono essere verificate o falsificate dall’evidenza empirica. Diverse possibili definizioni di classe devono quindi essere giudicate sulla base della loro efficacia politica e, in questo senso, il feticismo della fabbrica o del salario non è molto utile, non sono certo relazioni sociali da romanticizzare. Un’utile definizione di classe deve indicare un insieme di interessi potenzialmente comuni, in grado di sospingere una certa strategia politica. La comune condizione di esproprio che tutti lavoratori e le lavoratrici condividono punta a un potenziale interesse nella democratizzazione del controllo e della proprietà dei mezzi di produzione [3]. Ciò non significa che tutti gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori possano essere ridotti alla condizione di espropriati, c’è infatti una grande varietà di interessi legati a gerarchie interne alla classe, basati su strutture sessiste e razziste e sullo sfruttamento differenziale. Significa però che anche se gli espropriati sono divisi tra loro sotto molti aspetti, essi possono trovare una piattaforma comune nel superamento della condizione di espropriati. Una condizione cruciale affinché ciò accada è proprio il rafforzamento del potere dei lavoratori e le lavoratrici in fondo alla gerarchia sfruttamento-genere-razza [4].
La tipica argomentazione per una definizione di classe basata solo sullo sfruttamento sta nel potere vulnerante dei lavoratori sfruttati. Sono loro che possono, attraverso lo sciopero, immobilizzare la valorizzazione del capitale. Su questo non c’è dubbio. Tuttavia, ovunque nel mondo lavoratrici e lavoratori hanno dimostrato nei fatti di poter ostacolare la creazione di valore anche dall’esterno dei posti di lavoro formali, tramite blocchi stradali e altre forme di perturbazione. Molto si perde escludendo queste lotte dalla lotta di classe. Essa è un fenomeno molto più ampio delle mobilitazioni collettive e coscienti dei colletti blu (senza nulla togliere a queste ultime). È lotta di classe qualsiasi atto conflittuale – individuale o collettivo, interno o esterno al posto di lavoro, cosciente o meno – da parte degli espropriati che affermano i propri interessi di classe contro quelli dei proprietari o controllori di significative magnitudini di capitale [5].
Venendo alle relazioni tra classe e ambiente, la visione stereotipica mette sotto i riflettori lavoratori che difendono le industrie inquinanti e attivisti di “classe media” che possono permettersi di protestare per l’aria pulita perché non hanno nulla di più urgente di cui preoccuparsi. Quando si parla di proteste territoriali, la variabile di classe scompare nel nulla, come se gli abitanti dei territori colpiti dalle devastazioni ambientali non dovessero, magicamente, lavorare per vivere. Il paradigma della giustizia ambientale ha invece dimostrato che le comunità economicamente svantaggiate hanno ben più probabilità di quelle ricche di venire colpite da pesanti tossicità, rischi e distruzioni ambientali. Tuttavia, sia la narrazione dominante sia molti studi di giustizia ambientale sono basati su una definizione angusta di classe operaia riservata ai lavoratori salariati, o anche solo a quelli industriali, e su una concezione ancora più ristretta di interessi di classe come basati solo sui salari e le condizioni di lavoro. Tale semplificazione non sta in piedi senza la finzione secondo cui i lavoratori svanirebbero nel nulla quando escono dai cancelli della fabbrica, come se non avessero case e comunità alle quali tornare, come se non usufruissero del tempo libero mettendosi in relazione con le ecologie che li circondano, come se non respirassero l’aria all’esterno dei quattro muri del posto di lavoro.
Se consideriamo come interessi di classe solo quelli direttamente legati al posto di lavoro dei salariati, difficilmente sfuggiremo al ricatto occupazionale, al dilemma che mette i diritti dei lavoratori da una parte e la difesa dell’ambiente dall’altra. Gli interessi working class, però, non riguardano solo le condizioni di produzione ma anche quelle di riproduzione. Per dirla con Stefania Barca ed Emanuele Leonardi: “L’ambientalismo working class è quella forma di attivismo che connette produzione e riproduzione” [6]. La lotta di classe non si combatte solo al punto di produzione (il posto di lavoro), ma anche a quello di riproduzione (i territori). L’obiettivo strategico dovrebbe essere quello di unire questi due elementi per spezzare il sistema che ha generato la crisi di riproduzione nella quale viviamo, di essere la crisi del capitale per vivere oltre di esso.
Sarà ormai chiaro che la mia proposta è che gli scioperi climatici, come anche gli scioperi transfemministi, siano in effetti da considerarsi come dei veri scioperi che hanno coinvolto milioni di persone su scala globale. Tuttavia, fino ad ora, essi sono rimasti circoscritti soprattutto alla “forza-lavoro in formazione”, cioè gli studenti. A fianco di questi ultimi, sono scesi in piazza coloro che possono prendersi un po’ di tempo dal lavoro senza bisogno della copertura sindacale. Il fatto che, a causa della divisione razzista del lavoro, coloro che hanno questo tipo di flessibilità siano più che proporzionalmente bianchi probabilmente ha a che vedere con il fatto che la composizione degli scioperi climatici sia stata, finora, più che proporzionalmente bianca. Questi limiti sono noti al movimento ed è una delle ragioni per cui la questione dello sciopero per l’ambiente è stata posta anche ai grandi sindacati.
Il degrado ambientale nella nostra società è sistematico perché il sistema vigente subordina la produzione di valori d’uso a quella di valori di scambio e la riproduzione delle nostre vite alla produzione di profitto. I costi di tale devastazione ambientale sono distribuiti differenziatamente perché siamo differenziatamente espropriati, e di conseguenza non possiamo decidere democraticamente che cosa produrre e come, per soddisfare i nostri bisogni e quelli dell’ambiente di cui siamo parte e da cui dipendiamo per la riproduzione delle nostre vite. Le lotte ambientali non devono essere riconciliate con le lotte di classe perché la lotta ambientale è lotta di classe e viceversa. Quello che ci serve è una politica che faccia emergere le connessioni tra le lotte, contro la frammentazione che le relega a “questioni” separate e in competizione tra loro.
[1] A questo aggiungo che l’espressione “classe lavoratrice”, per farla breve, suona male e difficilmente può far breccia. “Working class” invece fa già parte del nostro vocabolario controculturale.
[2] Simon Clarke, 2002, “Class Struggle and the Working Class: The Problem of Commodity Fetishism”, in The Labour Debate: An Investigation into the Theory and Reality of Capitalist Work a cura di Ana C. Dinerstein e Micheal Neary, Hants: Ashgate Publishing Company.
[3] L’affermazione che qualcosa sia nell’interesse di qualcuno, a differenza della constatazione delle preferenze effettivamente espresse, non è neanch’essa una descrizione empirica dei fatti bensì una proposta politica che dev’essere riconosciuta come tale e, quindi, intesa come un tentativo di convincere e non certo come un’accusa di “falsa coscienza”.
[4] Inoltre, concordo con gli scettici nel dubitare che un’ipotetica abolizione delle classi sarebbe automaticamente accompagnata da un annichilimento di tutte le altre forme d’oppressione, che devono essere affrontate in quanto tali oltre che per i loro effetti sulla relazione di classe.
[5] Ciò non significa che singoli capitalisti non possano “tradire” la propria classe e sostenere le lotte della working class – Engels è il più celebre esempio di questa eventualità. Significa solo che, nella misura in cui essi fanno questa scelta, non agiscono sulla base degli interessi della propria classe.
[6] Stefania Barca ed Emanuele Leonardi, 2018, “Working-class ecology and union politics: a conceptual topology”, Globalizations, 15 (4), pp. 487-503
Credits photo: Tim Maynard
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