Due gradi in più rispetto alla temperatura dell’era pre-industriale: è il limite indicato per evitare danni irreparabili dovuti al cambiamento climatico. Non è un valore puntuale, ma è ciò che serve per tenere le fila dei negoziati internazionali.
Lavoce.info Watchdog della politica economica italiana Stefania Migliavacca
Un limite all’aumento della temperatura
A New York è iniziato il summit Onu sul clima: politici, settore privato, società civile e organizzazioni internazionali sono invitati a proporre piani concreti per accelerare la riduzione delle emissioni.
Sicuramente, il punto di riferimento sarà l’ormai famoso obiettivo di mantenere sotto i 2°C l’aumento della temperatura globale.
Ma da dove arriva questo numero magico del clima?
Chi lo ha stabilito e in che modo è divenuto un punto di riferimento per i negoziati internazionali?
Tutto sommato, come scrive Michael Oppenheimer, “nel contesto del cambiamento climatico, la genesi di un’idea è importante”.
Sembra proprio che il primo a indicare (più o meno consapevolmente) l’idea di una soglia di due gradi sia stato un economista premio Nobel nel 2018, William Nordhaus. In un lavoro del 1975 afferma “se avessimo temperature globali superiori di 2 o 3°C a quella attuale media, ciò porterebbe il clima al di fuori della serie di osservazioni che sono state fatte nel corso delle ultime centinaia di migliaia di anni”. Nell’articolo, un aumento medio di 2 gradi è associato a un raddoppio della concentrazione di carbonio in atmosfera, specificando però che “possiamo solo giustificare i limiti qui stabiliti come ipotesi approssimative”. Nel 1977, Nordhaus riprende questa affermazione, accompagnandola con un grafico piuttosto eloquente (figura 1).
Per quasi 15 anni nessuno pensa più a quei 2°C finché, nel 1990, un report dello Stockholm Environment Institute (Sei) suggerisce come obiettivo quantitativo per le politiche ambientali tre possibilità: l’innalzamento dei mari, la concentrazione di CO2 in atmosfera e l’aumento della temperatura. Per quest’ultimo indicatore, sono proposti due limiti, cui sono associati differenti livelli di rischio: 1°C oppure 2°C. Andare oltre 1°C significherebbe innescare reazioni dannose per l’ecosistema rapide, imprevedibili e non lineari: non si tratta quindi di una zona priva di rischio. Tuttavia, secondo il Sei, è impensabile non superare questa soglia visto il livello attuale delle emissioni. Oltre i 2°C si prevede che il rischio dei danni irreversibili aumenti esponenzialmente.
Nel 1992 viene sottoscritta la United Nations Framework Convention on Climate Change, con cui i leader mondiali si impegnano a stabilizzare la concentrazione di gas serra a un livello che eviti pericolose interferenze sul clima (articolo 2), senza però dare una dimensione quantitativa a quel “pericolo”.
Il primo riconoscimento politico dei 2°C arriva dall’Ue nel 1996: “Dato il grave rischio (…) il Consiglio ritiene che le temperature medie globali non debbano superare i 2° sopra il livello preindustriale”.
L’anno successivo viene firmato il Protocollo di Kyoto: nonostante nel testo non vi sia nessun riferimento ai 2°C, i media dell’epoca iniziano a diffondere questa soglia come punto di riferimento (The New York Times).
Solo nel 2010, la Cop 16 (Conferenza delle parti) promulga i Cancun Agreements, in cui i governi si impegnano “a mantenere l’incremento della temperatura media globale al di sotto di 2°C in più rispetto al livello pre-industriale”.
La forza della semplicità
Chiunque abbia un po’ di familiarità con modelli previsivi può intuire quanto sia arbitrario sintetizzarne i risultati in un valore puntuale: i modelli non dicono che se la temperatura salirà di 1,9 saremo tutti salvi mentre a 2,1 siamo tutti spacciati. La temperatura media del pianeta è già salita di 1°C rispetto al periodo pre-industriale e gli effetti sono sotto gli occhi di tutti.
L’indicazione 2°C è più simile a un limite di velocità: si può fare una stima dei rischi di incidente in base alla velocità, ma questo non ci indicherà il limite ideale, come pure rimanere entro il limite non ci garantisce che non faremo un incidente. Un limite di 50 chilometri orari potrebbe rendere più sicure le strade, ma gli spostamenti diventerebbero interminabili. Un limite di 150 chilometri orari ci permette spostamenti più rapidi ma più pericolosi. Nessun modello matematico può indicare la scelta corretta tra i due estremi, soprattutto considerando che qualcuno guida una Ferrari e altri guidano la Panda (il tema dell’equità è cruciale nei negoziati del clima).
Il riferimento dei 2°C, nonostante la genesi quasi casuale, è il miglior compromesso tra costi, benefici e rischi del cambiamento climatico. Una soglia più alta non trasmetterebbe un adeguato livello di urgenza. Un livello più basso sarebbe considerato irrealizzabile e renderebbe impossibile il già difficile percorso dei negoziati internazionali.
In breve, la forza dei 2°C sta nella semplicità: è pragmatico, diretto e facile da comunicare, tutti elementi importanti quando occorre riportare risultati scientifici nell’ambito della politica. Non sarà perfetto, ma è ciò che serve ora per tenere le fila dei negoziati internazionali.
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