contropiano
Sappiamo
da sempre che i processi contro i fascisti hanno qualche “difficoltà”
ad arrivare al dunque, specie se riguardano omicidi di compagni.
Quello per l’uccisione di Valerio Verbano a Roma, il 22 febbraio 1980, è quasi un paradigma di questa “abitudine”. Il pubblico ministero della Procura di Roma, Erminio Amelio, ha infatti chiesto l’archiviazione per il fascicolo d’indagine. In pratica, non si saprà mai chi l’ha ucciso e nessuno lo cercherà più, se non verranno prodotte nuove ipotesi di prova.
E dopo 39 anni, nel corso dei quali è morta anche la madre Carla (il 5 giugno del 2012),
vera roccia che aveva continuato fino alla fine dei suoi giorni a
chiedere verità, appare difficile che si faccia avanti qualche “pentito”
desideroso di scaricarsi la coscienza.
Già una volta le indagini erano state chiuse. La riapertura, ad opera del pm Amelio, era avvenuta nel 2011, suscitando qualche speranza.
Valerio
Verbano era un militante comunista decisamente serio, nonostante la
giovanissima età; ma questo era un tratto comune a moltissimi compagni
di quella generazione. A 19 anni era stato arrestato e imprigionato
mentre fabbricava bottiglie molotov in un casale abbandonato di San
Basilio (anche questa era una “pratica” assolutamente “normale” in
quegli anni).
Nel
corso della perquisizione, in casa sua, fu ritrovato un dossier sui
fascisti della zona tra Montesacro (dove viveva) e la zona allora “nera”
formata dai quartieri Trieste ed Africano (viale Somalia, ecc). Zona
dove gravitavano i “duri” di Terza Posizione, parte dei quali diedro poi
vita a i Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar), guidati da Giusva
Fioravanti, Francesca Mambro e Gilberto Cavallini. Altri, come Roberto
Fiore, ora a capo di Forza Nuova, fuggirono all’estero (c’è chi dice con
la “cassa” del gruppo).
Una
volta scarcerato fu protagonista di uno scontro con quegli stessi
fascisti, nel corso del quale perse il borsello con i documenti (e
quindi i fasci conobbero con certezza l’indirizzo di casa).
E proprio in casa, in via Monte Bianco 114,
irruppero tra fascisti dei Nar, bloccando e legando i genitori, che
rimasero in attesa del suo rientro da scuola (era ancora uno studente di
liceo, all’Archimede). Valerio però si battè come un leone, riuscendo
anche a disarmare uno dei due attentatori dietro la porta, ma fu
raggiunto dai colpi sparati dal terzo, che era rimasto nelle camera da
letto a sorvegliare i genitori immobilizzati.
Poi
fuggirono, lasciando all’interno dell’appartamento un paio di occhiali
da vista su cui, anni dopo, diventò possibile effettuare gli esami del
dna. A quel punto venero riaperte le indagini, iscritti due nomi nel
registro degli indagati, ma – ora è ufficiale – senza alcuna conclusione
certa.
L’infamia
dei fascisti è a tutti nota, ma in quel caso raggiunsero livelli
impossibili da quantificare. Non paghi di aver ucciso un ragazzo in casa
sua, davanti a padre e madre, diffusero una falsa rivendicazione a nome
di un inesistente “Gruppo Proletario Organizzato Armato”, con l’esplicita intenzione di indirizzare le indagini verso la galassia dei gruppi armati di sinistra.
La
“linea politica ufficiale” dei Nar, che predicavano per l’appunto una
“terza posizione” e cercava di invitare a fare “fronte comune contro il
sistema” (una vecchissima “fissa” dei fascisti che si credono
“rivoluzionari”), era inoltre pienamente compatibile con il tentativo di
depistaggio (“spariamo ai comunisti, ma facciamo credree che sia un
regolamento di conti tra loro”). Ma non tutti i “neri” erano d’accordo
con questa mossa…
Arrivarono quindi altre due rivendicazioni, questa volta a nome dei Nar. Nella prima si rendevano noti particolari non pubblicati dai giornali e che solo gli autori materiali potevano conoscere:
“Abbiamo giustiziato Valerio Verbano mandante dell’omicidio Cecchetti.
Il colpo che l’ha ucciso è un calibro 38. Abbiamo lasciato
nell’appartamento una calibro 7.65. La polizia l’ha nascosta”.
Nella seconda, a firma dei “comandi Thor, Balder e Tir”, si parlava del “martello di Thor che ha colpito a Montesacro”.
Mitologie
nibelungiche a parte, era ed è chiarissimo che il ristretto gruppo dei
Nar aveva avuto una seria discussione interna per decidere come “gestire
l’incidente” (sembra abbastanza chiaro che l’intenzione primaria
dell’irruzione fosse quella di “interrogare” Valerio, magari per
conoscere le sue “fonti” sui gruppi fascisti locali).
Ma
soprattutto che buona parte dei “dirigenti” dei Nar sapesse esattamente
chi fossero i tre autori dell’omicidio. Ma nessuno di loro, neanche i
“pentiti” (come Cristiano, il fratello di Fioravanti), ha mai fatto i nomi.
Sull’omicidio di Valerio sono stati scritti diversi libri, il più accurato dei quali (Valerio Verbano. Chi l’ha ucciso, come perché,
Valerio Lazzaretti, Odradek) ricostruisce nei dettagli “la scena
fascista” romana di quegli anni e aiuta a capire che la “rosa dei
sospetti” non era poi troppo vasta. Con un po’ di acribia in più,
probabilmente, anche la magistratura – che dispone di poteri
“persuasivi” piuttosto energici – avrebbe potuto raggiungere risultati
concreti, o comunque migliori dell’archiviazione.
Se non è avvenuto, ci deve essere una ragione.
Indicibile, a quanto pare.
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