martedì 24 settembre 2019

“Totalitarismo”, triste storia di un non-concetto.


Curiosa perché la distinzione tra fascismo e nazismo è stata fin qui presente solo nel dibattito politico e storiografico italiano, visto che nel panorama mondiale si è sempre parlato normalmente di “fascismo” sia per indicare il regime di Mussolini che quello hitleriano.
Distinzione non innocente, come sappiamo, perché ha permesso di dipingere ex post il fascismo italiano come una “variabile pacioccona” di un regime sanguinario ovunque sia esistito.
Basterebbe vedere la firma sotto la mozione dei parlamentari di Fratelli d’Italia per capire che c’è qualcosa che non va: ma come, gli eredi diretti del Movimento Sociale Italiano (Msi), del boia Almirante e dell’ideologia mussoliniana, accettano di condannare… il nazismo! Opportunamente, e vigliaccamente, il testo della “mozione europea” quasi non nomina affatto il fascismo. Giusto un paio di volte, in fondo, ma solo come generico pericolo associato al razzismo.
Insomma, con un po’ di “condimento” furbesco anche i fascisti nostalgici possono fare la parte dei “democratici europeisti” e scrollarsi di dosso il marchio internazionale dell’infamia.
Per restituire un po’ di senso a un dibattito altrimenti deviato dal revisionismo storico più indecente, ci sembra utile riproporre l’articolo con cui Vladimiro Giacché spiegava qualche anno fa  perché il “totalitarismo” è un concetto inventato, ma utilizzato proprio per equiparare nazismo e comunismo. 
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Totalitarismo”, triste storia di un non-concetto
Come le guerre di Bush, anche il lessico ideologico contemporaneo è animato dalla lotta tra il Bene e il Male. Una lotta sanguinosa che vede contrapposti ai nostri alleati, “Mercato”, “Democrazia” e “Sicurezza”, due nemici mortali: “Terrorismo” e “Totalitarismo” – tra loro complici, e sempre meno distinguibili l’uno dall’altro. Come è logico, l’esecrazione generale circonda questi due tristi figuri. L’appellativo di “Totalitario”, in particolare, è decisamente tra gli insulti più in voga.
Di “atteggiamento totalitario” è stato recentemente accusato il ministro brasiliano per la cultura Gilberto Gil da Caetano Veloso, nel corso di una polemica sulla distribuzione di fondi pubblici. “Tipica di uno stato totalitario” è secondo Vittorio Feltri la (sacrosanta) decisione del Prc di espellere un consigliere comunale che prima ha difeso il diritto di Di Canio di fare il saluto fascista, poi lo ha imitato a beneficio del fotografo di un giornale locale. E “totalitario” è ovviamente anche ogni oppositore di Berlusconi che venga sorpreso a pronunciare con tono di rimprovero le tre parole “conflitto di interessi”.
Si tratta di usi grotteschi del termine, ma a loro modo significativi.
Ancora più significativo è l’uso del termine da parte dell’ex direttore della Cia James Woolsey: il quale ha recentemente affermato che “una stessa guerra” contrappone oggi gli Usa a “tre movimenti totalitari, un po’ come avveniva nel secondo conflitto mondiale”. I tre “movimenti totalitari” sarebbero rappresentati dal baathismo (sunniti iracheni e Siria), dagli “sciti islamisti jihadisti” (appoggiati dall’Iran e legati agli hezbollah libanesi) e dagli “islamisti jihadisti di matrice sunnita” (ossia “i gruppi terroristici come al Qaida”) [intervista a Borsa & Finanza, 5.11.2005]. Un dubbio sorge spontaneo: che cosa diavolo hanno in comune oggi un nazionalista arabo laico, un fondamentalista islamico sciita e uno sunnita?
Praticamente nulla. Eccetto una cosa: il fatto di opporsi agli Stati Uniti.
“Totalitario”, insomma, è chi si oppone all’Occidente, e più precisamente agli Usa.
Niente di nuovo, in verità: le cose stanno così da più di 50 anni. La fortuna del concetto di “totalitarismo” nasce infatti nell’immediato dopoguerra, e si spiega con la necessità politica di accomunare i regimi comunisti, che rappresentavano adesso il nuovo Nemico dell’Occidente, al regime nazista appena sconfitto. A posteriori, non possiamo che constatare il pieno successo di questa operazione. Che però ha conosciuto diverse fasi.

Fase 1: “nazismo = stalinismo” (H. Arendt)

La fortuna di questa identificazione si deve in buona parte a Le origini del totalitarismo [Einaudi, Torino 2004] di Hannah Arendt. In questo libro, uscito in prima edizione nel 1951, la Arendt identifica i “sistemi nazista e staliniano” come due “variazioni dello stesso modello” politico: un modello che tende al “dominio totale” sulle persone, ed al “dominio globale” a livello planetario [pp. LXIV e LXI, 539, 569]. Gli elementi essenziali del totalitarismo sono l'”ideologia”, intesa come una chiave assoluta di
comprensione della storia (razzista nel primo caso, “classista” nel secondo), il “terrore” (vera “essenza del potere totalitario”, che colpisce non soltanto gli oppositori, ma anche gli “innocenti”) ed il “partito unico” (curiosamente, la Arendt non cita invece il potere personale assoluto di un capo).
Il testo della Arendt ha molti lati deboli. È prolisso, ma anche squilibrato nella sua struttura. La documentazione è molto ricca a proposito della Germania nazista, e viceversa estremamente scarna per quanto riguarda l’URSS. Già questo dimostra che l’archetipo del concetto arendtiano di “totalitarismo” è la Germania nazista, a cui si tenta di assimilare l’URSS.
Stabilendo paralleli a dir poco forzati, come l’attribuzione alla Russia di Stalin della medesima tendenza al “dominio globale” della Germania hitleriana: sorvolando sul dato di fatto che durante l’intera durata del periodo staliniano l’Unione Sovietica fu aggredita e minacciata (da ultimo dal riarmo dei paesi Occidentali e dal monopolio dell’arma atomica da parte degli Usa) [ivi, pp. 539, 569]. Connessa a questa bizzarra tesi è la vera e propria assurdità secondo cui il “bolscevismo” dovrebbe “più al panslavismo che a qualsiasi altra ideologia o movimento” [pp. 310, 326].
Più in generale, i critici della Arendt hanno avuto gioco facile nel notare come l'”ideologia” nazista (sempre che si voglia nobilitare con il termine di “ideologia” il delirante patchwork antisemita del Mein Kampf hitleriano) sia distante anni luce da quella comunista: reazionario e tradizionalista il nazismo, rivoluzionario e “erede dell’illuminismo e della rivoluzione francese” il comunismo; irrazionalista il primo, razionalista il secondo; razzista il primo, internazionalista e universalista il secondo; assertore dell’esistenza di una gerarchia naturale (tra razze e individui) il primo, egualitario e “livellatore” il secondo; esplicitamente antidemocratico il primo, assertore di una “democrazia reale” che andasse oltre quella “soltanto formale” il secondo.
Si dirà che una cosa sono i princìpi, un’altra la loro traduzione pratica.
Ma il punto è proprio questo: si può ridurre ad un unico concetto una ideologia e pratica di governo esplicitamente basate sul terrore e sulla violenza ed una teoria (e prassi) di emancipazione che si rovescia in una prassi contraria ai suoi stessi princìpi? Perché una cosa è certa: nel nazismo la corrispondenza tra teoria e prassi è perfetta, anche e soprattutto sotto il profilo del terrore e del “dominio totale”. L’accorata constatazione della “spudorata franchezza del Mein Kampf” è obbligata per chiunque esamini il fenomeno nazista. Il nazismo esalta esplicitamente i concetti di “organicità”, di “organizzazione totale”, il “principio totalitario”. E li mette scientificamente in pratica. La prova più eloquente di ciò è rappresentata dalla lingua tedesca, che fu – a differenza di quella russa – completamente riplasmata e piegata al fine di legittimare e rendere per l’appunto “totale” il dominio nazista [vedi il n. 110].
Anche alla luce di questo, è quantomeno singolare che la Arendt si dimostri incerta nel determinare in quali anni si abbia in Germania un “vero” regime totalitario: a volte sostiene che la Germania di Hitler divenne un regime “scopertamente totalitario” soltanto allo scoppio della seconda guerra mondiale (quindi nel 1939); altrove afferma che “fu soltanto durante la guerra”, e precisamente “dopo le conquiste nell’est europeo” (quindi dal 1941 in poi), che “la Germania fu in grado di instaurare un regime veramente totalitario”; ma si spinge anche a sostenere che “solo se la Germania avesse vinto la guerra avrebbe conosciuto un dominio totalitario completo”[ H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 1964, 2005, p. 76; Le origini …, cit., p. 430]. Se si portano alle estreme conseguenze queste parole, si può concludere che un vero regime totalitario nella Germania nazista non c’è mai stato! Bel risultato: la Arendt crea la categoria di una forma di governo specifica e irriducibile ad ogni altra, la applica a due regimi, per poi scoprire che in quello che ne rappresenta l’archetipo tale categoria non sarebbe in verità mai stata pienamente applicabile!

La scomparsa dell’economia nel “totalitarismo” della Arendt

“Tanto rumore per nulla”, verrebbe da dire. Ma quella della Arendt non fu fatica sprecata. Almeno in un senso: con tutte le sue manchevolezze e incongruenze, Le origini del totalitarismo fu un potente strumento di propaganda anticomunista nei primi anni cinquanta (non a caso la Cia ne sovvenzionò generosamente la traduzione in diverse lingue). La categoria di “totalitarismo”, infatti, consentiva – e consente – di conseguire diversi importanti obiettivi ideologici.
Nell’accomunare nazismo a stalinismo si perde la specificità della barbarie nazista, la si relativizza e la si “controbilancia” con una barbarie per così dire eguale e contraria (nei casi più estremi, come il revisionismo storico di Ernst Nolte, si è addirittura tentato di fare del “totalitarismo comunista” il colpevole del sorgere di quello nazista – giustificando quest’ultimo in quanto reazione fisiologica al primo). Non è questo, però, il più importante servigio reso dal concetto di “totalitarismo”. Che è invece rappresentato dal considerare e classificare il regime nazista in base alla sua forma politica anziché nel suo contenuto economico.
In tal modo si “dimentica” che il nazismo condivide con “democrazie liberali” (pre e post-naziste) il fatto di essere un’economia capitalistica. Questa “dimenticanza” rende quasi inspiegabile un fenomeno imbarazzante quale la assoluta continuità delle classi dirigenti economiche (e in casi non marginali anche politiche) tra la Germania “totalitaria” e la “democratica” Germania occidentale. Cosa che sarebbe facile spiegare, se si ammettesse che la dittatura nazista era funzionale al mantenimento dell’ordine economico vigente (allora e oggi) contro il pericolo rivoluzionario.
Anche se la Arendt cerca di esorcizzarlo, il rapporto organico tra il grande capitale tedesco ed il nazismo rappresenta il vero filo rosso della parabola storica della Germania hitleriana, dai suoi albori sino ai campi di sterminio: come dimostrano tra l’altro le decine di migliaia di prigionieri che lavorarono a morte per la I.G. Farben, per la Krupp, la Siemens, ecc.
Il tema è tornato agli onori delle cronache ancora di recente, in relazione alle cause intentate alla Bmw da alcuni superstiti dei campi di concentramento. Né si tratta di casi isolati. Quando, qualche anno fa, si impedì alla Degussa di partecipare ai lavori di costruzione del monumento eretto a Berlino in memoria dello sterminio degli ebrei a motivo della sua compromissione con il nazismo, vi fu chi osservò che, se questo criterio fosse stato applicato in maniera stringente, avrebbero dovuto essere escluse tutte le imprese tedesche.
Anche insistere sulla novità radicale del “totalitarismo” come forma di governo consente di dimenticare – o comunque di porre decisamente in secondo piano – la continuità economica tra il regime nazista e le precedenti “democrazie liberali”. Ma queste linee di continuità non sono soltanto economiche. La stessa Arendt individua nell'”età dell’imperialismo” un importante fattore di incubazione del totalitarismo. E documenta come già i governi “democratici” dei Paesi imperialisti giustificassero con il razzismo le proprie conquiste coloniali ed operassero massacri di massa delle popolazioni indigene. Ricorda che un funzionario britannico propose di far uso di “massacri amministrativi” per la soluzione del problema indiano, e che in Africa altri diligenti funzionari (diligenti come Eichmann) dichiaravano che “non si permetterà che considerazioni etiche come i diritti umani ostacolino” il dominio bianco. E conclude: “sotto il naso di ognuno c’erano già molti degli elementi che, messi assieme, avrebbero potuto creare un governo totalitario su base razzista”.
Ma c’erano anche i suoi strumenti più efferati: “neppure i campi di concentramento sono un’invenzione totalitaria. Essi apparvero per la prima volta durante la guerra boera, all’inizio del secolo, e continuarono ad essere usati in Sudafrica come in India per gli “elementi indesiderabili”; qui troviamo per la prima volta anche il termine “custodia protettiva” che venne in seguito adottato dal Terzo Reich”.
Se questo è vero, qual è la novità radicale del totalitarismo? Ad avviso della Arendt, nell’utilizzo dei
campi di concentramento essa consisterebbe nell’abbandono dei “motivi utilitari” e degli “interessi dei governanti” per entrare nel campo del “tutto è possibile”. Assenza di misura, assolutezza: secondo questa impostazione il totalitarismo è un novum proprio in quanto è il “male radicale”, il “male assoluto, impunibile e imperdonabile”. In questo modo, ovviamente, ogni ricerca delle cause, ogni elemento di continuità storica con le “democrazie liberali” passa in secondo piano: il totalitarismo nazista è confrontabile solo con se stesso – o con il suo presunto “doppio” rappresentato dalla Russia staliniana. In questo modo va semplicemente perduta la possibilità di mettere il naso in quella che è stata definita la fabbrica europea dell’Olocausto. [cfr. conversazione E. Traverso – I. Vantaggiato, il manifesto, 11.11.2005].
“Assoluto”, “mistero”, “follia”: nel momento stesso in cui facciamo uso di queste categorie, rinunciamo a capire. Quando, nell’agosto scorso, Ratzinger ha definito lo sterminio nazista degli ebrei “mysterium iniquitatis“, con ciò stesso ha escluso la possibilità di comprendere quanto accadde, e di nominare tanto i complici quanto i moventi dello sterminio. Allo stesso risultato si approda quando – come fa la Arendt – si adopera la categoria di “follia” come chiave di lettura di quanto accadde [Le origini …,cit., pp. 564-5].

Fase 2: “nazismo = comunismo” (Friedrich/Brzezinsky e altri)

Nonostante i suoi “meriti” ideologici, il “totalitarismo” arendtiano divenne presto inservibile. Dopo la morte di Stalin, infatti, in Unione Sovietica si attenuò e presto venne meno quel “terrore” che per la Arendt era “l’essenza del potere totalitario”. E infatti la stessa Arendt affermò senza mezzi termini: dopo la morte di Stalin “non si può più definire l’Urss totalitaria”. C’era pur sempre l'”ideologia”, ma l’idea di un “dominio totale” fondato soltanto su di essa era piuttosto implausibile. Inoltre, nel testo della Arendt c’erano altri elementi che mal si conciliavano con un anticomunismo assoluto: a cominciare dalla contrapposizione di Lenin a Stalin e dall’affermazione secondo cui una possibile alternativa a Stalin sarebbe stata la prosecuzione della Nuova politica economica (Nep) lanciata da Lenin [ivi, pp. LXXIII e 441-3].
Serviva qualcosa di più forte. E arrivò: nel 1956 Carl J. Friedrich e Zbigniew Brzezinsky (sì, proprio lui.) diedero alle stampe un nuovo libro sul tema, dal titolo Dittatura totalitaria e autocrazia. In questo volume veniva aggiunto, tra i tratti caratterizzanti del totalitarismo, anche il controllo e la direzione centralizzata dell’economia. Si conseguiva così l’obiettivo di includere nell’ambito dei regimi totalitari anche la Russia post-staliniana, la Cina comunista e tutti i paesi dell’est europeo. (Questo d’altra parte complicava le cose per quanto riguarda l’identificazione del regime nazista come totalitario, ma ovviamente non era questa la principale preoccupazione degli autori).
Anche così, il problema della oggettiva scomparsa del “terrore totalitario” dalla stessa Unione Sovietica non era un problema di poco conto. Ad esso si pose rimedio in un modo molto semplice: attenuando l’importanza del “terrore” per il concetto di totalitarismo – ossia cambiando le carte in tavola. Così, nella seconda edizione del volume citato, curata nel 1965 dal solo Friedrich, si può leggere che nel “totalitarismo maturo” il terrore – che prima era stato definito come il “nervo vitale del totalitarismo” – è
presente unicamente nella forma di un “terrore psichico” e di un “consenso generale” [sic!]. E Brzezinsky, che prima riteneva il terrore “la caratteristica più universale del totalitarismo”, in un nuovo libro del 1962 giunge a parlare di un “totalitarismo volontario” [sic!] (Ideologia e potere in Unione Sovietica).
Contemporaneamente, altri autori si incaricano di spingere l’acceleratore sul concetto di “ideologia totalitaria”, ampliandone la portata. Così Talmon, nel suo Le origini della democrazia totalitaria, denuncia come “totalitaria” la “stessa idea di un sistema autonomo dal quale sia stato eliminato ogni male e ogni infelicità”; detto in parole povere: l’idea stessa di una società senza classi è un’aspirazione totalitaria. Già la Arendt, del resto, aveva affermato che “il male radicale nasce quando si spera un bene radicale”.
Un altro politologo americano, W.H. Morris Jones, nel 1954 scrive un saggio, In difesa dell’apatia, in cui sostiene che l’apatia esercita un “effetto benefico sul tono della vita politica”; per contro, “molte delle idee connesse con il tema generale del dovere del voto appartengono propriamente al campo totalitario [!] e sono fuori luogo nel vocabolario di una democrazia liberale”.
Se queste posizioni appaiono esplicitamente ispirate da posizioni politiche di destra, lo stesso non si può dire di un diverso e successivo filone di “cacciatori di totalitarismi”: si tratta dei teorici del post-moderno. I quali, a partire da Jean-François Lyotard, hanno posto sotto tiro le “grandi narrazioni”, ossia le teorie della storia, ed in particolare della storia come emancipazione progressiva dell’umanità. In questo caso il “sogno totalitario” sarebbe rappresentato dall’idea stessa di poter dare una lettura razionale e complessiva degli eventi storici: la qual cosa sarebbe sfociata in un “modello totalizzante” e nei suoi “effetti totalitari, sotto il nome stesso del marxismo, nei paesi comunisti”.

Fase 3: “totalitarismo = comunismo”

Con il crollo dell’Urss e la caduta del Muro di Berlino avviene l’incredibile: il “Totalitarismo” sovietico, questo orribile Leviatano del XX secolo, implode senza il minimo spargimento di sangue (ben più cruenti sarebbero stati di lì a poco i conflitti “etnici” esplosi in tutto l’est europeo in disgregazione).
La presunta terribilità demoniaca del “totalitarismo comunista” si muta in una patetica farsa, ben simboleggiata dal “colpo di stato”-burletta dell’estate del 1991 in Russia (il “democratico” Eltsin, invece, di lì a non molto non esiterà a prendere a cannonate il parlamento). Ci si aspetterebbe riflessioni equilibrate sull’argomento.
Accade il contrario. Adesso non soltanto l’intera storia dei paesi comunisti viene ricompresa sotto la categoria di “totalitarismo”, ma il campo semantico di questo concetto si amplia senza alcun rispetto non diremo del senso storico, ma neppure di quello del ridicolo. Sino ad includere letteralmente di tutto: dall’intero movimento comunista alla stessa rivoluzione francese (il Terrore, perbacco!); dagli stati superstiti del defunto “blocco socialista” ai movimenti di liberazione del Terzo Mondo che si battono contro la privatizzazione delle risorse di base dei rispettivi paesi, e così via.
Secondo questa concezione “allargata” del concetto, tendenze “totalitarie” nutre – magari inconsapevolmente – chiunque si batta per forme di regolazione dell’economia diverse dal modello liberista della “libera volpe in libero pollaio”; lo stesso modello europeo di welfare (a partire dalla cosiddetta “economia sociale di mercato” inventata dalla Cdu tedesca) diviene sospetto: niente da fare, la puzza di zolfo bolscevico alligna anche lì.
Ma “sogni totalitari” coltiva anche chiunque ritenga possibile comprendere le dinamiche storiche con l’ausilio della ragione, chi studia le filosofie sistematiche senza aborrirle, chi difende i progressi della scienza e della ragione (già il fatto di adoperare quest’ultimo termine al singolare, del resto, denuncia senza equivoco la mentalità intollerante e poliziesca di chi ne fa uso).
Con un singolare rovesciamento di prospettiva, quell’irrazionalismo che aveva rappresentato il fertile humus del nazismo, e che oggi si ama ridipingere come “denuncia dei limiti della ragione”, è invece considerato espressione di una mentalità (post-)moderna, aperta e tollerante. Con lui tornano a trovarci, malamente imbellettati, tutti gli elementi dell'”ideologia” nazista: razzismo (“consapevolezza della propria identità etnica”), xenofobia (“orgoglio” e “autodifesa dell’Occidente”), miti di sangue e suolo (“attaccamento alle proprie radici”); e, su tutti, l’anticomunismo viscerale: che oggi assume appunto il volto “democratico” della “ferma denuncia dell’ideologia totalitaria”.
Siamo alla terza fase della poco edificante storia del concetto di totalitarismo: ormai esso designa in primo luogo, se non esclusivamente, il comunismo. Si tenta di far prendere al “comunismo” il posto occupato nell’immaginario collettivo dal nazismo quale archetipo del potere totalitario. La stessa denuncia, apparentemente salomonica, dei “totalitarismi” del novecento, serve in realtà per colpire il comunismo, laddove l’esecrazione che circonda il nazismo si fa sempre più generica e rituale. E per distinguere nettamente da entrambi il fascismo italiano [oltreché quelli ungherese, romeno, estone, lettone, lituano, portoghese, spagnolo, greco .], benevolmente considerato come un “banale” autoritarismo, non si sa se più bonario o pasticcione. Singolare ironia della storia, se si pensa che Mussolini vedeva la novità storica del fascismo nella capacità di “guidare totalitariamente la nazione” e adoperava volentieri l’espressione di “stato totalitario” – oltreché i gas in Africa, e il tribunale speciale e le leggi razziali in Italia … [cfr. G. Gentile, B. Mussolini, “Fascismo”, in Enciclopedia Italiana (1932)].
Il documento più significativo di questa fase è il progetto di risoluzione sulla “Necessità di una condanna internazionale dei crimini del comunismo” presentato nel 2005 al Consiglio d’Europa. In questo singolare documento il termine “comunista” è accompagnato regolarmente dall’appellativo di “totalitario” (la formulazione preferita è “regimi totalitari comunisti”, che nella mozione compare 24 volte); il nazismo è presentato, en passant, come “un altro regime totalitario del 20° secolo”.
In questo testo – a dir poco confuso – si afferma, a proposito dello stesso Consiglio d’Europa, che “la tutela dei diritti dell’uomo e lo Stato di diritto sono i valori fondamentali che esso difende”; e a conferma di ciò .si deplora che i partiti comunisti siano “legali ed ancora attivi in alcuni paesi”. Si spera che la propria posizione incoraggi “gli storici del mondo intero” a “stabilire e verificare obiettivamente lo svolgimento dei fatti”; poi, per incoraggiare la libertà di ricerca e di insegnamento, si chiede. “la revisione dei manuali scolastici”.
Ma cosa motiva la necessità di questo pronunciamento? Al di là dei motivi dichiarati (decisamente paradossale quello di “favorire la riconciliazione”), qua e là trapelano quelli veri: “sembrerebbe che un tipo di nostalgia del comunismo sia ancora presente in alcuni paesi, di qui il pericolo che i comunisti riprendano il potere nell’uno o nell’altro di questi paesi”; e soprattutto: “elementi dell’ideologia comunista, come l’uguaglianza o la giustizia sociale, continuano a sedurre numerosi membri della classe politica”. Eccoci al punto: insoddisfazione per lo stato di cose presente e aspirazione all’eguaglianza e alla giustizia sociale. I veri nemici dei “cacciatori di comunisti totalitari” sono questi. Oggi come ieri.
Ieri con la scusa dei regimi comunisti esistenti, oggi con la scusa dei regimi comunisti che non ci sono più.

Un concetto senza oggetto e il “Nemico tra noi”

Ma ovviamente il fatto che il sistema dei regimi comunisti non esista più non è irrilevante neppure ai fini della sorte del concetto di “totalitarismo”. Il fatto di aver perduto il proprio oggetto non è cosa da poco: ormai al concetto di “totalitarismo” manca un referente. Per un concetto senza oggetto la vita non è facile. Per non restare disoccupato è costretto a cercarselo. È pur vero che l’ampliamento semantico del termine, a suo tempo operato in funzione anticomunista, facilita la ricerca di oggetti sostitutivi.
Ormai “totalitario” è tutto e il contrario di tutto: viviamo sotto il giogo del “totalitarismo pubblicitario”, ma è totalitaria anche la proibizione della pubblicità delle sigarette. È totalitaria la repressione sessuale degli islamici wahabiti, ma non è meno insidioso il “totalitarismo del godimento” imposto dalle società capitalistiche occidentali agli individui atomizzati. Qui però sorge un problema: quando un concetto significa tutto, non significa più niente. La perdita di qualsivoglia ancoraggio semantico significa la morte di un concetto. E questa è probabilmente la sorte che presto o tardi spetterà al “totalitarismo”.
Per il momento, però, un residuo di significato gli resta appiccicato, ed è l’incubo del “dominio totale”. L’incubo del potere inostacolato, della violenza selvaggia ma organizzata, del linguaggio asservito al potere che stravolge e rovescia la realtà, cancellando ogni distinzione tra vero e falso. Qui risiede la perdurante efficacia propagandistica del concetto. Ma qui, ironicamente, il “totalitarismo” può renderci un estremo servigio: quello di aiutarci a dare un nome ai sintomi del “dominio totale” nel nostro mondo. Vediamo.
La violenza selvaggia ma organizzata tipica del potere totalitario lascia le sue tracce inconfondibili nell’odierno linguaggio dei Signori della Guerra statunitensi. Che trova un’espressione emblematica nelle parole di quel neoconservatore Usa che – alla vigilia dell’attacco sferrato dalle truppe statunitensi contro Fallujah – collocava l’obiettivo di “Sbriciolare Fallujah” al primo posto di un programma politico; il fatto che lo facesse in un articolo intitolato “Valori per tutto il mondo” non è soltanto un tributo all’humour nero, ma una spia: che segnala l’adozione di una lingua che, come già quella dei nazisti, inverte sistematicamente il significato dei termini [cfr. F. Gaffney, articolo sulla National Re-view, novembre 2004].
Quando poi – a cose fatte – il generale dei marines John Sattler ha affermato che l’offensiva contro Fallujah “ha spezzato le reni agli insorti”, non per caso ha utilizzato esattamente le stesse parole adoperate da Mussolini a proposito della Grecia: ecco un bell’esempio di invariante
totalitaria (oltretutto di buon auspicio.).
Ma veniamo al linguaggio asservito al potere. Il testo classico a questo proposito è il violento pamphlet anticomunista 1984, [Mondadori, Milano 2005] scritto dal giornalista inglese George Orwell e pubblicato nel 1949 (anche in questo caso, con cospicui finanziamenti della Cia; del resto, lo stesso Orwell era una spia inglese). Come ha messo in rilievo Maria Turchetto, riletto oggi è un romanzo di sorprendente attualità. Certo, oggi non esiste un “Ministero della Verità” come quello dell’Oceania di Orwell.
Possiamo però sempre consolarci con il “Sottosegretariato per la democrazia e gli affari globali” del Dipartimento di stato Usa. In Oceania “il nemico contingente incarnava sempre il male assoluto: ne conseguiva che qualsiasi intesa con lui era impossibile, tanto nel passato che nel futuro”. E così è stato per bin Laden, poi per Saddam: entrambi prima ottimi alleati, poi Nemici assoluti dell’Occidente. Ma questa circostanza fa sì che le passate alleanze con essi vengano occultate, negate e smentite. Da questo punto di vista, anche “la mutabilità del passato” di Orwell è già tra noi.
Non meno presente è il “bipensiero”: lo slogan orwelliano secondo cui “la guerra è pace” è a ben vedere uno degli slogan fondamentali di Bush a proposito dell’aggressione all’Irak; nel suo piccolo, anche Fini, allorché ha affermato che i soldati italiani in Irak sono “morti per la pace”, ha dato mostra di averlo ben assimilato. Ancora: in Orwell lo slogan del partito recita testualmente: “chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”. Chi nutrisse dubbi circa l’applicabilità di questo slogan al nostro presente è caldamente rinviato alle polemiche revisionistiche sulla resistenza.
Certo, va pur detto che le masse nel libro di Orwell erano tenute a bada con strumenti lontanissimi da quelli oggi in uso. Basti pensare che nel Ministero della Verità “un’intera catena di dipartimenti autonomi si occupava di letteratura, musica, teatro, e divertimenti in genere per il proletariato. Vi si producevano giornali-spazzatura che contenevano solo sport, fatti di cronaca nera, oroscopi, romanzetti rosa, film stracolmi di sesso e canzonette sentimentali” – tutte uguali – “composte da una specie di caleidoscopio detto “versificatore”.
Non mancava un’intera sottosezione impegnata nella produzione di materiale pornografico della specie più infima”. In generale, i proletari descritti da Orwell se la passavano molto peggio dei nostri: infatti “il lavoro pesante, la cura della casa e dei bambini, le futili beghe coi vicini, il cinema, il calcio, la birra e soprattutto le scommesse, limitavano il loro orizzonte”. Inoltre “i proletari ai quali la politica non interessava granché, cadevano periodicamente in balia di attacchi di patriottismo”, ingenerati da bombe che cadevano sulle città; anche se non mancava chi riteneva – ma si trattava di un’ovvia assurdità – che fosse lo stesso governo a lanciare queste bombe, “per mantenere la gente nella paura” [pp. 29, 37, 46-7, 76, 156, 160].
Il tema della menzogna del nemico esterno è un classico della letteratura antitotalitaria, da Orwell in poi. Il biografo di Hitler, Joachim Fest, ha recentemente affermato (a proposito della Russia di Stalin) che “un regime totalitario ha sempre bisogno di un nemico”. Sull’uso di “immaginarie congiure mondiali” come strumento di mobilitazione e di consenso per i regimi totalitari aveva insistito anche Hannah Arendt. Più in generale, il tema della menzogna in politica continuò ad interessarla anche dopo la sua opera sul totalitarismo. E la spinse ad un ulteriore passo, di cui forse non intese le implicazioni.
Nelle Origini del totalitarismo aveva esaminato come i regimi totalitari riescano a sostituire, attraverso la menzogna sistematica, un vero e proprio mondo fittizio a quello reale. In opere successive esaminò il ruolo della “politica d’immagine”, con riferimento in particolare a quella degli Stati Uniti in relazione alla guerra del Vietnam: l’immagine”, costruita artatamente attraverso i mass media, è rivolta all’opinione pubblica di un paese e opera come un sostituto della realtà; grazie alla potenza dei mezzi di comunicazione di massa, essa può ricevere una tale evidenza da risultare molto più in vista (cioè più “reale”) della realtà che intende sostituire [cfr. Le origini …, cit., pp. 519-520, 597ss.; Politica e menzogna, Sugarco, Milano 1985, p. 98].
Ora, è evidente che tra questa sostituzione della realtà e quella che viene operata nei “regimi totalitari” non sussiste alcuna differenza strutturale (vi è al massimo una differenza di grado: se il controllo dei mezzi di comunicazione non è completo l’operazione di sostituzione può fallire, o non riuscire completamente). Anche per questa via, quindi, salta lo schema della irriducibilità dei fenomeni totalitari.
A questo punto, chiunque ponga mente alla cortina fumogena di bugie e depistaggi posti in essere – con l’attiva complicità dei media – dagli Stati Uniti e dai loro “volenterosi” alleati prima e durante l’aggressione all’Irak, difficilmente potrà rifiutare con sdegno la tagliente definizione che il sociologo americano Sheldon Wolin ha dato degli Usa: “Inverted Totalitarianism” – un totalitarismo di fatto, coperto da un linguaggio democratico. A questa definizione si potrebbe semmai eccepire che proprio il linguaggio di copertura “democratico” rappresenta un’ulteriore caratteristica totalitaria.
Con tutto ciò, sarebbe fuori strada chi individuasse in uno stato – e sia pure un super-stato in piena deriva autoritaria come gli Stati Uniti – il nuovo soggetto del “dominio totale”. Il potere inostacolato oggi risiede altrove. Su questo è tempo di rompere decisamente con le elaborazioni novecentesche sul potere (inclusa quella foucaultiana), tutte ipnotizzate dallo stato. Il potere inostacolato, almeno tendenzialmente, e sempre più spesso ormai de facto, è oggi quello delle grandi imprese monopolistiche transnazionali: le corporations.
Sono loro a rappresentare oggi l'”istituzione totalitaria” per eccellenza. Sia verso l’interno che verso l’esterno. All’interno la tendenza al “dominio totale” si esprime nell’autoritarismo, nel controllo sempre più totale su tempi e processi di lavoro. All’esterno si traduce ormai non soltanto nella persuasione pubblicitaria, ma direttamente nella costruzione dell’individuo-consumatore (nei negozi di una catena di supermercati Usa che vendono giocattoli i bambini spingono minuscoli carrelli con su scritto: “Cliente di “Toys ‘R Us” in addestramento”); e anche nella più completa subordinazione di ogni istanza sociale, culturale ed ambientale al profitto dell’impresa. Ci sono singole imprese transnazionali che evidenziano con chiarezza tutte assieme queste caratteristiche “totalitarie”. Prendiamo Wal-Mart, la catena mondiale di supermercati basata negli Usa.
Soltanto negli ultimi mesi, sul fronte interno, è emerso quanto segue:
proibizione dell’attività sindacale nei supermercati del gruppo, (migliaia di) infrazioni alla normativa sul lavoro, discriminazioni nei confronti dei dipendenti donne, sfruttamento degli immigrati clandestini, sfruttamento dei minori (e colpo di spugna sulla cosa grazie ad un accordo segreto con il ministero del lavoro Usa), straordinari non pagati, proposta di introdurre mansioni fisiche anche per i cassieri (per selezionare gli impiegati in buona salute), proibizione di flirt sul luogo di lavoro.
Sul fronte esterno, il potere di monopolio di Wal-Mart, che perciò può fissare i prezzi pagati per i fornitori, è tra le cause del fallimento di numerosissime imprese fornitrici, ma anche dei bassi salari in Cina (il 10% delle importazioni cinesi in Usa, pari a 12 miliardi di dollari, è diretto ai suoi supermercati); per quanto riguarda il rispetto delle tradizioni culturali, ha destato scandalo la costruzione di un supermercato nel bel mezzo della zona archeologica di Teotihuacan in Messico (dove Wal Mart ha già 657 supermercati).
Le grandi corporations sono oggi il vero luogo d’origine e il vero soggetto del “dominio totale”. In attesa che i “cacciatori di totalitarismi” se ne accorgano, molti scrittori lo hanno già fatto. Negli ultimi anni sono usciti diversi romanzi su questo argomento: tra gli altri 99 Francs di F. Beigbeder, Profit di R. Morgan, Globalia di J. C. Rufin, Logoland di M. Barry, Il capitale di S. Osmont. In una recensione collettiva di alcuni di questi libri, comparsa sull’insospettabile Handelsblatt, si legge fra l’altro: “Questi libri sono accomunati da una visione terrificante della realtà. La politica ha abdicato. Al posto dello stato è subentrato il potere delle grandi multinazionali, tanto inesorabile quanto totalitario”.
È nelle grandi corporations che oggi si incarna quel “potere totale del capitale” di cui Horkheimer e Adorno parlavano in una famosa pagina della Dialettica dell’illuminismo [Einaudi, Torino 1966, p. 126]. La criminalizzazione, con l’accusa di “totalitarismo”, delle posizioni di critica sociale e dei rapporti di proprietà serve per l’appunto a rafforzare e perpetuare questo potere.
da: LA CONTRADDIZIONE, no. 112gennaio – febbraio 2006

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