lunedì 30 settembre 2019

BRUCIANO MOSTRI IN EFFIGE MENTRE IL MONDO ARDE

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La risoluzione dell'Europarlamento su comunismo e nazismo. Perchè è inacettabile?

30 / 9 / 2019
Ha fatto molto discutere la risoluzione del Parlamento europeo intitolata «Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa», quella che di fatto equipara nazismo e comunismo.
Giustamente molte persone legati agli ideali socialisti o semplicemente intellettualmente oneste si sono indignate e hanno ricordato l'enorme contributo, in termini di sacrifici e risultati militari, dato dall'URSS e dai partiti comunisti alla sconfitta del nazifascismo. Sui social media sono circolati molto l'articolo in cui Primo Levi spiegava la differenza tra lager e gulag e la conferenza in cui l'ottimo professor Alessandro Barbero spiega, con la consueta eloquenza e lucidità, quali e quanto grandi furono le complicità delle potenze «democratiche» con il regime nazista e quindi quale fu  il contesto in cui si arrivò al patto Molotov-Ribentropp.

Ma credo che occorra una riflessione aggiuntiva, credo che occorra fare alla risoluzione del Parlamento Europeo una critica militante che non si limiti a difendere i movimenti rivoluzionari del passato, ma che possa essere utile a quelli attuali.
In Insegnare Auschwitz Enzo Traverso ha scritto che non bisogna insegnare la Shoah per «normalizzare il passato», ma per «de-normalizzare il presente», perché «viviamo nello stesso modo e nello stesso mondo che ha prodotto Auschwitz». Ergo il nazismo e tutti gli orrori del XX secolo, compresi quelli consumati dai regimi del preteso «socialismo reale», non possono essere visti fuori dal loro contesto, non possono essere «mostrificati» ed estrapolati dall'insieme di quella che Ocalan chiama «la modernità capitalista e statalista». 
Come ha scritto il fondatore del Pkk ne Il confederalismo democratico è tutta la storia di questa modernità ad essere una storia di «genocidio culturale e fisico nel nome di una immaginaria società unitaria».
Se guardiamo a quanto accaduto dagli inizi del XVI secolo ci accorgiamo come questa  frase corrisponda a verità. Come è stato possibile creare i pilastri dell'attuale concetto di «modernità», ovvero il sistema di produzione capitalista e lo stato moderno centralizzato? Attraverso quella che Marx chiamava «accumulazione originaria del capitale», vale a dire una gigantesca operazione di esproprio dei beni comuni della società (e spesso delle stesse vite delle persone) da parte del capitale e dello stato. Questo esproprio naturalmente è stato condotto con metodi terroristici e a prezzo di veri e propri genocidi. Mi si può dire che la violenza è una costante della storia umana ed è vero; ma la violenza sistematica sulle persone e sulla natura per consentire la messa a valore di entrambe, il tentativo di ridurre la complessità della realtà entro le regole standard del capitale o dello stato per sancire il loro controllo assoluto sulle forme di vita, ebbene queste sono «conquiste della modernità».
Il saccheggio delle Americhe e lo sterminio dei popoli che le abitavano, la tratta degli schiavi dall'Africa e la sistematica rapina dei beni delle comunità contadine in Europa con le conseguenti repressioni (solo per domare la sollevazione dei contadini tedeschi del 1525 i morti furono circa centomila): ecco le fondamenta del «mondo moderno». 
Già allora le differenze con gli orrori del Novecento erano minime. Già allora si configurava il tentativo di creare «un'immaginaria società unitaria», cioè un totalitarismo. Basti pensare alla persecuzione di «streghe» ed eretici portata avanti sia dai cattolici che dai protestanti.
Quando tra XVIII e XIX secolo il potere venne assunto dalla borghesia «laica» le cose non andarono affatto meglio, anzi. Negli USA una «nobile democrazia» è stata fondata da proprietari di schiavi e massacratori dei nativi; l'Inghilterra liberale ha portato alla morte decine di milioni di indiani e cinesi; la Francia repubblicana ha massacrato prima i contadini della Vandea (che ok, saranno pure stati dei baciapile ma alla fine volevano solo evitare il servizio militare) e poi, meno di un secolo dopo ha affogato nel sangue di un vero e proprio genocidio di classe il sogno della Comune; persino il piccolo Belgio  è riuscito a rendere il Congo l'anticamera dei lager nazisti.
Quanto all'Italia, nei primi decenni dopo la sua nascita era semplicemente uno stato dove si diceva apertamente che «l'esercito è il filo di ferro che ha cucito insieme la Nazione e che la mantiene insieme» (e lo disse Settembrini che nella nuova classe dirigente era pure uno dei più «liberali»). Difatti il paese era retto da una minoranza di nobili e grossi borghesi che avevano imposto il proprio potere sia ai «vinti» (i cattolici) che ai «traditi» (i rivoluzionari garibaldini, mazziniani e proto-socialisti) del risorgimento. Nel primo trentennio post-unitario avvenne quella che Emilio Sereni definì «distruzione delle basi materiali del mondo contadino» con conseguente emigrazione di milioni di persone e creazione di un proletariato rurale che sopravviveva a stento in condizioni disperate. Sempre Sereni nel suo fondamentale saggio del 1947,  Il capitalismo nelle campagne (1860-1900) illustra le conseguenze durature della messa a valore di quelli che fino a quel momento erano stati beni comuni: nel primo trentennio dell'Italia post-unitaria vennero tagliati più di due milioni e mezzo di ettari di bosco sulle Alpi e gli Appennini, provocando danni all'assetto idrogeologico di lunghissima durata. Un bell'esempio di come la creazione degli stati nazione abbia fatto dal male ai popoli rinchiusi nei loro confini e alla terra su cui abitavano. Infatti la relazione di tipo coloniale non era solo quella che legava l'Europa al resto del mondo, ma in generale quella che lega qualunque apparato dello stato-nazione e dell'economia capitalista a qualunque popolo o territorio.
Nel 1914 con la grande guerra tutto il «di più» di violenza che gli stati europei avevano esportato in giro per il mondo inizia ad essere applicato anche nel vecchio continente e si apre quella «seconda guerra dei trent'anni» che durerà fino al 1945. Ormai su questa definizione la storiografia è abbastanza concorde, ma evidentemente la cosa non sfiora neppure lorsignori e lorsignore assisi nel parlamento europeo. A loro interessa mettere sul banco degli imputati i «regimi totalitari del Novecento». Come se un soldato di qualunque esercito della grande guerra, che veniva sottoposto ad un martellamento propagandistico costante e rischiava di essere ucciso sul posto se si rifiutava di uscire dalla trincea durante un assalto, non vivesse già in un regime totalitario anche se formalmente lo stato che lo mandava al macello era ancora «liberale». Come se il primo genocidio pianificato, quello degli Armeni, non fosse del 1915. Come se nelle fabbriche italiane lo sciopero non fosse stato reato sempre da quell'anno. Come se ad aprire la strada ad Hitler non fossero stati proprio i socialdemocratici tedeschi assassinando Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Come se nelle loro cerimonie pubbliche tutti gli stati europei non continuassero ancora oggi a raccontare retoriche menzogne su quello che è accaduto nel primo conflitto mondiale, negando la colpa collettiva delle classi dirigenti dell'epoca.
In definitiva che cos'era il nazifascismo se non la logica conseguenza di quanto era accaduto fino a quel momento? Cos'era se non il più coerente tentativo di distruggere ogni diversità creando una società perfettamente omogenea e quindi efficiente dal punto di vista capitalistico? Non si spiegherebbe altrimenti il consenso di massa che ricevette, la collaborazione convinta non solo di larghe masse ma anche della quasi totalità della classe dirigente europea.
Quanto allo stalinismo cos'era se non un tentativo di «mettersi al passo» in tempi rapidi (e quindi con metodi particolarmente «duri») rispetto alla «moderna» Europa occidentale, da parte di uno stato che era «rimasto indietro» (e che per questo rischiava la distruzione ed il completo sterminio della sua popolazione, come si vedrà nella seconda guerra mondiale)? Come può un capitalista criticare Stalin per aver fatto in dieci anni ciò che quelli come lui hanno fatto in qualche secolo? Ovvero aver perseguito «lo sviluppo» attraverso la messa a valore di persone e territori senza curarsi dei costi umani e indicando qualche capro espiatorio su cui riversare le tensioni sociali.
La critica al preteso «socialismo-reale» ha un senso solo se, come fa Ocalan, lo si definisce come la «spalla sinistra», su cui la modernità capitalista e statalista ha «appoggiato il fucile», un fucile rivolto sempre e comunque contro i popoli e gli ecosistemi. 
Che sia proprio questa forma di modernità (che non è la «modernità» in assoluto, ma la sua gestione entro un determinato schema ideologico) il problema, ce lo dicono oggi i rischi di apocalisse incombente legati al cambiamento climatico. I massacri del XX secolo rischiano di essere solo un'anticipazione di quello che accadrà all'umanità se non facciamo qualcosa, se non rompiamo lo schema della messa a valore dell'esistente per iniziare a costruire finalmente una modernità democratica e compatibile con tutte le forme di vita. 
Questa è l'urgenza.
Il mondo arde ma il Parlamento Europeo sfoglia l'album delle figurine dell'orrore per trovare qualche «mostro» del passato da bruciare in effige. Se volessero, di mostri con la passione per la propaganda razzista, i fili spinati e i lager, nell'Europa odierna potrebbero trovarne quanti vogliono in carne ed ossa. Se chiedessero a noi potremmo indicargliene a bizzeffe, il problema è stanno quasi tutti proprio tra chi ha votato la risoluzione che stigmatizza i regimi del passato.  
Ma tutto questo estremo tentativo di normalizzare il presente attraverso l'uso strumentale del passato, di fingersi «i buoni» con un'operazione tronfia e superficiale nella sua ignoranza, alla fine non cambia di una virgola realtà. La visione del mondo di lorsignore e lorsignori è comunque destinata a crollare, a noi non resta che lottare per evitare di finire sepolti dalle sue macerie.

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