Il Manifesto | Autore: Andrea Fabozzi
Regionali. L’analisi del (non) voto di politologi e ricercatori. In Emilia pesa l’aggressione al sindacato. Ma vincere, non importa in che modo, è precisamente il progetto del premier. Che se ne frega della rappresentanza e dice: le urne vuote sono un aspetto secondario
E’ come se l’Emilia tutta fosse rimasta a casa, e ai seggi si fosse presentata solo la Romagna, provincia di Ferrara compresa. Nell’ex cuore rosso d’Italia l’astensione alle regionali ha toccato vertici tali che è più facile contare gli sparuti testimoni del «dovere civico», ormai una minoranza: il 37,7% degli aventi diritto. Da un anno e mezzo in qua, nella regione culla del civismo gli astensionisti raddoppiano a ogni occasione utile. Erano circa 500mila alle elezioni politiche del 2013, un milione alle europee di maggio, due milioni domenica scorsa e anche qualcosa in più: 2.155.561. Praticamente come il totale degli iscritti alle liste elettorali di tutte le province interne: Bologna, Modena, Reggio, Parma e Piacenza. Come se fossero andati a votare — tutti, ma solo — gli elettori delle province adriatiche: Ferrara, Ravenna, Forlì e Rimini.
Al confronto la Calabria è un esempio di attivismo: affluenza comunque bassa — 44,08%, — ma solo un punto meno delle europee. E così la seconda migliore provincia emiliano-romagnola, che è Bologna, non raggiunge le percentuali di voto della peggiore calabrese, Crotone.
«L’Emilia-Romagna è sempre stata ai primi posti in Italia per partecipazione, anche in elezioni più recenti dove l’affluenza è diminuita ovunque», scrive proprio da Bologna l’Istituto Cattaneo in una prima analisi. «Da regione dove si votava di più a regione dove si vota di meno, tutto in un solo turno elettorale», è questo il dato clamoroso di domenica su cui mette l’accento Dario Tuorto, professore di sociologia all’Università di Bologna e ricercatore all’istituto. E fa notare come l’astensionismo sia cresciuto di più nelle province dove più forte era il consenso tradizionale alla sinistra e al Pd, come Reggio e Modena, mentre è cresciuto di meno in una provincia assai meno rossa come Piacenza. È il primo indizio di un’astensione punitiva per il partito di Renzi, che in definitiva ha perso oltre la metà dei voti rispetto alle europee di maggio. Ma la «punizione» è un elemento che il Cattaneo mette accanto ad altri: la fuga delle urne si spiegherebbe altrettanto con l’indignazione popolare per le «spese pazze» regionali o addirittura con la confidenza per una vittoria sicura di Bonaccini. O persino con una rincorsa populista, visto che in una prima analisi dei flussi, limitata alla provincia di Parma, l’istituto registra un piccolo numero di elettori in uscita dal Pd e diretti alla Lega.
Carlo Galli, politologo, professore all’università di Bologna nonché deputato del Pd, tende a ridimensionare il peso dello scandalo regionale: «Il risultato emiliano ha un valore nazionale perché Renzi è venuto a chiudere la campagna elettorale e a compiacersi dei candidati, ma soprattutto perché le ragioni di questo enorme astensionismo sono di valore nazionale: stiamo assistendo alla secessione di un elettorato di sinistra da un partito di centro». Secondo Galli non ha più senso appellarsi alle peculiarità emiliane, «la sinistra era organizzazione, e adesso ce n’è molta meno; sistema di interessi che adesso si sono spappolati; egemonia ormai crollata. Si era naturalmente di sinistra perché era capace di conciliare l’insieme degli interessi sociali, adesso il popolo emiliano si è accorto che a Bologna e a Roma il partito di riferimento non copre più gli interessi della sinistra, è in rotta di collisione con il mondo del lavoro e con la pubblica amministrazione».
«Nei luoghi di tradizionale partecipazione politica, dove sono ancora insediati i partiti di sinistra, dove sono forti le associazioni e tra queste il sindacato, centinaia di migliaia di persone decidono consapevolmente di non andare a votare: è un fenomeno inquietante che retrocede il Pd al livello degli altri. Gli elettori utilizzano l’unica arma di cui dispongono per dire: “siete tutti uguali”», commenta Gianfranco Pasquino, anche lui professore a Bologna e politologo illustre. Secondo Pasquino «essere andati a votare avendo 42 consiglieri su 50 indagati e il presidente della regione condannato in primo grado ha avuto certamente un peso», ma di più ha pesato «l’aggressione del presidente del Consiglio ai sindacati». Penalizzato anche Bonaccini, «auto presentatosi come renziano della prima ora, anche è della seconda: l’eccessiva identificazione con il premier non gli ha fatto bene».
Renzi però non fa una piega, addirittura festeggia i risultati regionali e liquida l’astensione record come «un fatto secondario». Un trucco comunicativo? Per Galli è molto di più: «Punta a vincere, non a rappresentare. Il Pd ha ormai mutato geneticamente la sua base sociale e si fonda su un rapporto tra politica e società che vede la rappresentanza come qualcosa di accessorio, appunto “secondario”. Non vuole più mediare interessi ma emozioni, non sentimenti collettivi ma individuali. Il suo è un populismo diverso da quello novecentesco che puntava sulle masse, preferisce molti individui isolati. Se vanno a votare bene, altrimenti bene lo stesso. Basta avere una legge elettorale che con qualche marchingegno assicuri la vittoria».
Viste così, le urne vuote emiliane somigliano più a un progetto che si realizza che a una luna di miele che si esaurisce. E allora viene da pensare a tutte le volte che Renzi ha attaccato la rappresentanza in generale e quella regionale in particolare (salvo voler scegliere lì dentro i senatori, ma questa è un’altra storia). Va a finire che nei numeri dell’astensione sono precipitati anche i sostenitori del presidente del Consiglio, i tanti che gli si affidano perché gli organismi elettivi sono un intralcio ed è meglio che faccia tutto lui. Possibile? «Dentro un’astensione così alta, da patologia della democrazia, può esserci anche questo — risponde Galli — e allora possiamo dire che ha perso la politica ma anche l’antipolitica. Siamo cioè in piena post-politica dove si afferma il disinteresse verso un’attività considerata ininfluente sulla propria condizione di vita. Io naturalmente non credo affatto che sia così, ma so bene quanto sia diventato difficile convincere le persone ad andare a votare per le regionali. D’altra parte il Pd ha fatto davvero poco sforzo, volutamente viene da pensare».
E poi in giornate come questa c’è sempre chi fa il realista, chi dice che nelle democrazia mature si va a votare in pochi e guardate gli Stati uniti… Pasquino prima corregge: «In tutta Europa si vota attorno al settanta, non al quaranta percento». Poi aggiunge che «bisognerebbe ricordare a Renzi e a tutti noi che all’origine della democrazia c’è la capacità delle persone di associarsi. La democrazia non è un luogo dove ci sono elettori indistinti che guardano il leader alla televisione e poi ogni tanto vanno a votare per lui. È il luogo dove le persone discutono tra loro, si scambiano indicazioni e consigli, cambiano idea. Se cancelliamo tutto questo non diventiamo più moderni, solo meno democratici».
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