globalproject Paolo Coceancig
25 / 11 / 2014
Dopo Silvio tocca a Matteo: confortato dalla sua corte di giovani emergenti ossequiosi, è il suo turno di salvare il paese. Le ricette? Quelle di sempre, i soliti proclami prestampati mai caduti in disuso:precarietà e flessibilità, elasticità e abbattimento delle tutele e dei salari, snellimento della spesa pubblica e riduzione delle tasse in cambio di migliaia (milioni?) di nuove opportunità occupazionali.
Tutto già visto, il solito inutile e patetico tentativo di salvare questo sistema in realtà ormai irriformabile, una perdita di tempo oltre che di posti di lavoro. L’economia italiana, a differenza di altre (quella americana per esempio) si è consolidata sul posto fisso, sulla possibilità del lavoratore di progettare un futuro e quindi di costruirsi una casa e dentro quella casa metterci degli oggetti e quegli oggetti di tanto in tanto cambiarli. Lo straordinario sviluppo della piccola e media impresa italiana dal dopoguerra in poi è stato possibile quasi esclusivamente grazie a questa circostanza storica. La grande impresa, FIAT in testa, non ha dato al paese più di quello che ha ricevuto. L’indole di un popolo si forma in decenni di consuetudini di vita, non basta un voto parlamentare per modificarla.
Sull'articolo 18
Non ci si spaventi dunque più di tanto per l’annuncio dell’abolizione dell’articolo 18: il mondo è ormai cambiato, in peggio, da un pezzo e anche l’articolo 18, già ampiamente svilito nei suoi presupposti originari dalla proverbiale lungimiranza legislativa della Formero, oggi serve tutt’al più per ottenere un indennizzo economico una tantum e non certo il reintegro. Tra l’altro, molti di quelli che adesso si ergono a paladini dell’articolo 18, sindacati confederali e vecchi leader PD inclusi, sono gli stessi che in un non lontano passato hanno avuto parte attiva nella demolizione di ogni più misera tutela a difesa dei lavoratori di ogni specie, fossero essi dipendenti, partite IVA o Co.Co.Co. I loro appelli alla resistenza sindacale sono oggi le patetiche urla di chi vuol chiudere la stalla quando i buoi sono già ampiamente scappati. Allo stesso modo il proclama dello sfrontato guascone fiorentino rivela soprattutto la sua incapacità nell’affrontare il problema. Sono più di dieci anni ormai che in questo paese, di fronte alla crisi economica, chiunque non sappia che pesci pigliare, tira in ballo l’abolizione dell’art. 18 come rimedio di tutti i mali. D’altra parte non c’è mica scelta: tutto il resto è stato ampiamente smantellato, l’Art. 18 infatti è rimasto l’unico, ultimo, esile argine a tutela di qualcuno, pochi ormai, l’unico con cui prendersela quando non si hanno argomentazioni serie.
L’occupazione ripartirà grazie all’abolizione dell’articolo 18? Arriveranno oceani d’investimenti dall’estero? Suvvia, ma per chi ci prende signor Renzi? Dall’estero gli investimenti non arrivano perché il nostro paese è un modello mondiale di corruzione, evasione fiscale e inaffidabilità burocratica, altroché art. 18. Più precarietà aiuterà l’occupazione? Ma è dal pacchetto Treu, cioè dall’altro millennio, con il proliferare delle agenzie interinali, passando attraverso la legge 30 del 2003, che il mercato del lavoro nel nostro paese è stato trasformato in un campo da battaglia dove alle grida del fanatismo ultraliberista più precarietà più posti di lavoro! si sono erosi a uno a uno i più elementari diritti per dar giù ai lavoratori, giovani o vecchi che siano, togliendo loro cittadinanza attiva all’interno dei processi produttivi. Nei paesi più evoluti non c’è l’articolo 18? Ma per favore… in Germania un operaio prende tre volte lo stipendio di un italiano e quando viene licenziato lo mantiene inalterato per due anni, dopo di che passa al reddito di cittadinanza mensile. Di cosa stiamo parlando? E’ già qui e non da oggi l’epoca degli esuberi, delle persone che sono di troppo, delle persone inutili per dirla con Bauman.
Manovre e rigore
L’idea alla base della nuova manovra economica del governo, plasmata per compiacere i tecnocrati europei, è ancora quella che il mercato si autogoverni da solo e che sia dunque capace di promuovere politiche di sviluppo e di rigore simultaneamente, in sostanza pura utopia. Persino gli Stati Uniti di Obama hanno dovuto nazionalizzare l’industria automobilistica evitando in tempo lo sfascio definitivo del sistema e la Spagna, se oggi può vantare una timida ripresa dell’economia, è solo ed esclusivamente per gli investimenti pubblici che il governo di Madrid sta mettendo in atto. Altroché ridurre il debito, non si rilancia un bel niente togliendo risorse a un’economia già a pezzi, non può esserci crescita finché non ripartono i consumi e i consumi non ripartono senza le buste paga della gente. Ovviamente chi si oppone alle politiche del governo è un rottame ideologico, un patetico nostalgico che non vuole la crescita del bel paese. Perché fare muro contro questa fantastica modernità che per condurci fuori dalla palude ideologica degli anni settanta di fatto ci vuole riportare all’ottocento? O forse il luminoso futuro, per come lo intende il nostro premier, è quello della Cina desindacalizzata e del partito unico? Nell’attacco sistematico ai diritti si manifesta in tutta la sua crudeltà la crisi delle democrazie occidentali: oggi per sopravvivere devono eliminare ciò che le aveva rese tali, ciò che le aveva permesso per più di mezzo secolo di esibire boriose la loro superiorità valoriale sul resto del mondo, i diritti appunto. Sono riusciti a convincerci che i diritti sono privilegi. E che sopravviveremo - in qualche modo - solo diminuendo quelli altrui ha scritto di recente sul suo blog il giornalista Alessandro Gilioli. Noi lavoratori del sociale lo sappiamo bene, ogni taglio alwelfare porta con sé necessariamente la scomparsa di un diritto.
Il partito liquido
La pretesa egemonica del partito liquido del premier di azzerare ogni conflitto di conseguenza è semplicemente irricevibile. Senza conflitto non c’è progresso, non c’è evoluzione sociale: la storia non riporta, tranne rare eccezioni, che si siano fatte concessioni da parte dei più ricchi agli strati deboli della popolazione senza che questi ultimi le rivendicassero oppure sotto l’influenza del timore di perdere molto di più di quanto costasse riconoscere dette richieste (se non altro, a questo è servito agitare per quasi un secolo “lo spettro del socialismo”). E’ roba vecchia l’articolo 18? Certo. E allora le leggi a tutela del lavoro minorile, quelle sulle ferie e la malattia pagate, tutte datate ben prima, cosa sono? Vecchi arnesi, da rottamare anche questi? Anche a quei tempi i “padroni del vapore” gridavano al catastrofismo dicendo che la concessione di quei diritti avrebbe bloccato la crescita economica. Proprio come ora. Per non parlare del tatcherismo, che abolendo le parole “classe” e “società”, aveva sancito il trionfo dell’individualismo metodologico. La parabola politica renziana si pone decisamente su questa scia, altroché modernità. Sull’attualità di questo governo in tema di diritti poi, meglio stendere un velo pietoso: parla da sola la recente circolare del ministro Alfano ai prefetti per esortarli a impedire la trascrizione delle unioni di fatto abbozzate da qualche comune particolarmente sensibile al tema. Per noi non esistono diritti di serie A e diritti di serie B: il diritto al posto di lavoro vale quello di un migrante ad avere il permesso di soggiorno, quello di una donna a non essere molestata quando cammina per strada, di una coppia omosessuale di potersi sposare e via dicendo. Va da sé dunque che il progresso per una persona di sinistra, come amava ricordare il mio amico Peppino, ha senso solo se declinato insieme alla parola diritti. Oggi più di sempre e domani ancor di più, ovviamente se crediamo di meritarci ancora l’esistenza di un domani.
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