Ci siamo ritrovati qualche mese fa. In molti
ci siamo anche scelti. Innanzitutto per partecipare alle elezioni
europee. E poi per provare a prolungare questo nostro legame in un
progetto più strutturato di ricostruzione della sinistra
italiana. Un obiettivo che a tutti noi appare indispensabile e
potenzialmente alla nostra portata.
Il Manifesto Sandro Medici
Ora disponiamo anche di una bozza di piattaforma, il nitido ed
elegante documento che ci offre Marco Revelli. Un riordino del nostro
impianto analitico, con annessa un’intelaiatura condivisa di quello
che non osiamo ancora definire un soggetto politico organizzato.
Per mesi, spiega Revelli, abbiamo allevato tra contorsioni e
tormenti un bruco: è ora che diventi una farfalla, per spiegare le
ali e cominciare a volare.
È dunque utile tornare all’impulso originario, a quel punto di partenza che la primavera scorsa ci ha visti protagonisti di un’esperienza entusiasmante. Alla vigilia di una scadenza, l’assemblea di dicembre, che disperatamente vorremmo fosse il passo successivo, ma finalmente fondante, di quel felice tragitto. Se non altro perché ci restituisce, purtroppo, la nostra inadeguatezza nel valorizzarlo quanto dovremmo. Dopo il vano e stucchevole rimbombo dei milioni di parole che ci siamo scambiati o scagliati contro, siamo ancora qui a registrare la crudele sproporzione tra quanto ci proponiamo e quanto poi concretamente facciamo, e solo per appena avvicinarci alla formalizzazione di quella soggettività politica che continuiamo a dichiarare necessarissima.
È vero, non è per niente facile riaprire una stagione di sinistra in questo nostro paese deteriorato, anche fisicamente. Ma quantomeno per provarci, per tentare di riappropriarci di quel ruolo politico che abbiamo smarrito, dovremmo innanzitutto liberarci da tutte quelle scorie che ci appesantiscono. Sfuggire a noi stessi, ecco cosa dovremmo fare: liberarci dal gravame con cui la nostra soggettività esausta continua a nutrirci, esaltando i nostri limiti, coltivando i nostri difetti. Chissà, forse avendo «ucciso» padri e madri (o lasciato che si suicidassero), ci ritroviamo fratelli e sorelle: che per definizione sono (o diventano) fratricidi. Almeno finché non si subentri noi, nei ruoli paterni, per volentieri predisporci a un salvifico martirio.
Se non riusciamo a fare i conti con noi stessi, depurandoci da egemonismi meschini e narcisismi patetici, sarà ancora più difficile aprire una nuova prospettiva. La nostra riconversione soggettiva è insomma la condizione necessaria per aprire quel processo costituente che tutti auspichiamo.
C’è chi, al riguardo, invoca una moratoria disidentitaria («Sciogliamo tutto, sciogliamoci tutti»). Il nostro europarlamentare Curzio Maltese suggerisce di azzerare assetti e gerarchie. Se utile per crearne di nuovi, più condivisi e convincenti, si faccia pure.
Per moltissimi tra noi non sarà traumatico né spiacevole: non ci sentiremo orfani di quelle filiere organizzate che nel tempo si sono trasformate in confraternite di potere.
In ogni caso, se non ci decidiamo a consolidare quanto finora stratificato, non resterebbe che rassegnarsi. Stiamo bene così, recintati nei nostri ridotti, in attesa che passi la nottata. Oppure, limitiamoci a simulare un’unità giustapposta, rassicurante, dove almeno «appendere le nostre stinte bandiere». O ancora, mimetizziamoci se e dove possibile: e non per ridurre i danni, come si riusciva fino a qualche tempo fa, ma per ritagliarsi invano una funzione politica.
La nostra intenzione resta invece quella di riaccendere la sinistra italiana. Sostenuti da più d’una ragione, prima fra tutte ricomporre e riproporre una tensione per l’appunto di sinistra, in un paese che sembra ormai ritenerla superflua e perfino nociva. Non basta avere ragione, diceva il Galileo di Bertolt Brecht: è necessario che la ragione si organizzi in azione politica. Ecco, è questo secondo passaggio che non riusciamo ancora a sviluppare. Mentre intorno a noi la democrazia si svuota e la restaurazione imperversa, la miseria e l’ignoranza crescono, l’insicurezza e la solitudine si diffondono.
Allora, cosa vogliamo fare? Continuare ad avvilirci nella nostra irrilevanza politica? Reiterare fino allo stremo, fino all’esaurimento fisico capricci e dispetti, risentimenti e rancori, per ritrovarci in pochi ma buoni ma soli? Sperare che la mutazione del Pd non sia poi così definitiva per vivacchiare ancora un po’ nei suoi pressi?
Sta affiorando nel paese un’opposizione sociale, un’insofferenza politica, un’inquietudine intellettuale, e in molti casi anche un disincanto profondo che spinge all’indifferenza e all’abbandono. E’ l’insofferente riflesso al ridondante neo-centrismo di Matteo Renzi, che tutto sembra investire e inghiottire ma che, paradossalmente, finisce per aprire spazi di reattività e per nuove, forse inedite, prospettive. Ed è qui che per noi è possibile agire, ritrovando fiducia nei nostri argomenti e nelle nostre proposte, per disegnare quella credibilità politica che finora abbiamo stentato a proiettare. Offrendo così un approdo e forse anche una rappresentanza politica a quella densità critica che di sicuro tenderà ad ampliarsi.
Ma tutto ciò solo se saremo capaci di scrostarci di dosso le nostre patologiche manchevolezze, quelle ruggini consolatorie, quelle ingannevoli sicurezze che offuscano lo sguardo e appesantiscono il respiro.
È dunque utile tornare all’impulso originario, a quel punto di partenza che la primavera scorsa ci ha visti protagonisti di un’esperienza entusiasmante. Alla vigilia di una scadenza, l’assemblea di dicembre, che disperatamente vorremmo fosse il passo successivo, ma finalmente fondante, di quel felice tragitto. Se non altro perché ci restituisce, purtroppo, la nostra inadeguatezza nel valorizzarlo quanto dovremmo. Dopo il vano e stucchevole rimbombo dei milioni di parole che ci siamo scambiati o scagliati contro, siamo ancora qui a registrare la crudele sproporzione tra quanto ci proponiamo e quanto poi concretamente facciamo, e solo per appena avvicinarci alla formalizzazione di quella soggettività politica che continuiamo a dichiarare necessarissima.
È vero, non è per niente facile riaprire una stagione di sinistra in questo nostro paese deteriorato, anche fisicamente. Ma quantomeno per provarci, per tentare di riappropriarci di quel ruolo politico che abbiamo smarrito, dovremmo innanzitutto liberarci da tutte quelle scorie che ci appesantiscono. Sfuggire a noi stessi, ecco cosa dovremmo fare: liberarci dal gravame con cui la nostra soggettività esausta continua a nutrirci, esaltando i nostri limiti, coltivando i nostri difetti. Chissà, forse avendo «ucciso» padri e madri (o lasciato che si suicidassero), ci ritroviamo fratelli e sorelle: che per definizione sono (o diventano) fratricidi. Almeno finché non si subentri noi, nei ruoli paterni, per volentieri predisporci a un salvifico martirio.
Se non riusciamo a fare i conti con noi stessi, depurandoci da egemonismi meschini e narcisismi patetici, sarà ancora più difficile aprire una nuova prospettiva. La nostra riconversione soggettiva è insomma la condizione necessaria per aprire quel processo costituente che tutti auspichiamo.
C’è chi, al riguardo, invoca una moratoria disidentitaria («Sciogliamo tutto, sciogliamoci tutti»). Il nostro europarlamentare Curzio Maltese suggerisce di azzerare assetti e gerarchie. Se utile per crearne di nuovi, più condivisi e convincenti, si faccia pure.
Per moltissimi tra noi non sarà traumatico né spiacevole: non ci sentiremo orfani di quelle filiere organizzate che nel tempo si sono trasformate in confraternite di potere.
In ogni caso, se non ci decidiamo a consolidare quanto finora stratificato, non resterebbe che rassegnarsi. Stiamo bene così, recintati nei nostri ridotti, in attesa che passi la nottata. Oppure, limitiamoci a simulare un’unità giustapposta, rassicurante, dove almeno «appendere le nostre stinte bandiere». O ancora, mimetizziamoci se e dove possibile: e non per ridurre i danni, come si riusciva fino a qualche tempo fa, ma per ritagliarsi invano una funzione politica.
La nostra intenzione resta invece quella di riaccendere la sinistra italiana. Sostenuti da più d’una ragione, prima fra tutte ricomporre e riproporre una tensione per l’appunto di sinistra, in un paese che sembra ormai ritenerla superflua e perfino nociva. Non basta avere ragione, diceva il Galileo di Bertolt Brecht: è necessario che la ragione si organizzi in azione politica. Ecco, è questo secondo passaggio che non riusciamo ancora a sviluppare. Mentre intorno a noi la democrazia si svuota e la restaurazione imperversa, la miseria e l’ignoranza crescono, l’insicurezza e la solitudine si diffondono.
Allora, cosa vogliamo fare? Continuare ad avvilirci nella nostra irrilevanza politica? Reiterare fino allo stremo, fino all’esaurimento fisico capricci e dispetti, risentimenti e rancori, per ritrovarci in pochi ma buoni ma soli? Sperare che la mutazione del Pd non sia poi così definitiva per vivacchiare ancora un po’ nei suoi pressi?
Sta affiorando nel paese un’opposizione sociale, un’insofferenza politica, un’inquietudine intellettuale, e in molti casi anche un disincanto profondo che spinge all’indifferenza e all’abbandono. E’ l’insofferente riflesso al ridondante neo-centrismo di Matteo Renzi, che tutto sembra investire e inghiottire ma che, paradossalmente, finisce per aprire spazi di reattività e per nuove, forse inedite, prospettive. Ed è qui che per noi è possibile agire, ritrovando fiducia nei nostri argomenti e nelle nostre proposte, per disegnare quella credibilità politica che finora abbiamo stentato a proiettare. Offrendo così un approdo e forse anche una rappresentanza politica a quella densità critica che di sicuro tenderà ad ampliarsi.
Ma tutto ciò solo se saremo capaci di scrostarci di dosso le nostre patologiche manchevolezze, quelle ruggini consolatorie, quelle ingannevoli sicurezze che offuscano lo sguardo e appesantiscono il respiro.
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