sabato 29 novembre 2014

Forme di vita come mezzi di produzione. Viva lo sciopero sociale!



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euronomade
L’intuizione, a suo modo paradossale, dello «Sciopero Sociale» ha funzionato. Ha prodotto i suoi primi frutti. Ed ha fatto correttamente di una giornata di lotta, l’occasione della verifica sulle condizioni di un nuovo percorso politico – collettivo, eterogeneo, a suo modo anomalo.
Così, adesso – nella cupezza dei tempi dell’austerity – il paradosso, approfondendosi, sembra esserne subito diventato un altro: un nuovo ciclo di lotte pare volersi fare strada.

Ma cominciamo dal principio. Dall’inizio della crisi. Quindi, inevitabilmente, dallo spazio europeo. Perché è da qui, dalle lotte che hanno attraversato l’Europa, principalmente nel suo bordo meridionale, che è possibile imparare qualcosa in più sulla rilevanza del #14N. E l’angolazione con cui conviene osservare queste lotte, allo scopo di comprenderne la logica interna dello sviluppo, non è solo quella della geografia. C’è un’altra questione, che attende di essere compresa teoricamente, per essere afferrata politicamente: la temporalità a-sincrona delle lotte nello spazio europeo, come motore di accumulazione di sapere, come forma di apprendimento reciproco delle «coalizioni sociali» in lotta.
Dall’inizio della crisi, dicevamo, i paesi dell’Europa del sud sono stati attraversati da numerose lotte sociali. I sindacati tradizionali in più occasioni hanno ricorso allo sciopero generale in Grecia, in Spagna, in Portogallo, nel tentativo di fermare le violenze generate dalle politiche ordoliberali. Le coalizioni sociali di precari, lavoratori dei servizi immateriali, partite iva, disoccupati, studenti, hanno esteso, complessificandola, la portata di questi strumenti di lotta. Modificando, oltre ogni minima capacità delle organizzazioni tradizionali stesse, la composizione sociale delle lotte. Dentro questo ciclo di scioperi, ma in modo radicalmente autonomo, questi movimenti sociali sono stati in grado di sperimentare nuove forme di istituzionalità del comune. E’ accaduto così in Grecia, come in Spagna soprattutto. L’esperienze di nuovo mutualismo, le occupazioni delle case, il recupero e l’autogestione di produzioni dismesse, hanno rappresentato un terreno su cui estendere la lotta sociale. Farla durare, per poi spostarla anche su terreni diversi.
Nel quadro delle lotte sociali nell’Europa meridionale, fino ad allargare lo sguardo a tutto il mediterraneo, l’Italia ha rappresentato in questi ultimi anni un’anomalia. Da qui, quello che è prevalso è stato soprattutto l’impasse dei movimenti. Sia chiaro, questa figura, non corrisponde ad un vuoto di lotte. Quello che si è potuto rilevare in questi ultimi anni, piuttosto che l’assenza, è stata l’incapacità soggettiva di produrre formule espansive di conflitto, dotate di una generale possibilità di attraversamento, di un potenziale di riproducibilità – persino di una radicalità concreta di obiettivi politici e non solo di linguaggio. Mentre accadeva, invece, che nelle metropoli e nei territori della provincia continuavano a diffondersi esperienze di riappropriazione, di sperimentazione neo-istituzionale, di autogoverno. E nei luoghi del lavoro, seppur nella forme problematiche della scomposizione micro-conflittuale, le lotte non sono mai sparite. L’anomalia è poi doppia, se si considera che proprio qui, in questo paese, in anticipo rispetto alle dinamiche europee, si era sviluppato – con l’Onda – il primo movimento di critica alla crisi del capitalismo neoliberale. Non è questa l’occasione per interrogarci sul perché di questo blocco. Conviene, tuttavia, rilevare che soprattutto in questo paese, le centrali sindacali dopo aver operato ordinariamente in funzione del contenimento della mobilitazione studentesca dell’Onda, hanno forzatamente evitato il ricorso allo sciopero generale. Da qui, la gestione manageriale della crisi da parte dei sindacati tradizionali è stata più evidente che altrove. Il loro orizzonte strategico aveva permesso di trasformare l’antica ipotesi della «cinghia di trasmissione» tra sindacato e partito (socialdemocratico o comunista che sia), in una relazione di potere interna alla governance neoliberale. Fatto sta, che questo equilibrio interno ai soggetti della governance è attualmente entrato in crisi. Non sappiamo se momentaneamente o meno, ma di certo, al momento, non è questo che ci interessa. Il sindacato tradizionale – e benché con modi e tempi diversi, la stessa Fiom – arriva tardivamente, con le sue parole d’ordine, allo sciopero generale, mentre silenziosamente, nella pieghe della cooperazione sociale, questo annuncio è stato anticipato dal capillare lavoro di organizzazione dello Sciopero Sociale.
Così, il #14N torna ad essere l’occasione per i soggetti sociali di svolgere quella fondamentale funzione anticipatrice, riconfigurando un nuovo campo di conflitto. E non lo fa inserendosi semplicemente nel ciclo di lotte europeo, né tanto meno limitandosi a riempire un vuoto nel nostro paese. Lo compie, con la forza di operare un salto in avanti. Si presenta come una soggettività politica potenzialmente in grado di incarnare il superamento oramai maturo, nei linguaggi, nei metodi e nei programmi, del corporativismo sindacale, anche quando questo si presenta con iniziative «generali». Lo fa esprimendo la forza della «coalizione sociale», come forma organizzativa aperta, irriducibile sia alla somma delle componenti politiche che, al contempo, alle reti di scopo. In secondo luogo, ma non meno rilevante, lo fa aprendosi consustanzialmente ad una dinamica in grado di divenire transnazionale. D’altro canto, le politiche lavorative nello spazio europeo, dove il comando finanziario si traduce in irrigidimento della governance neoliberale, costringono i movimenti a dotarsi di un dispositivo politico de-territorializzante. Lo Strike meeting, prima ancora dello Sciopero Sociale, ha dato vita a un processo virale ripreso da altri gruppi in Europa (Francia, Grecia, Germania, Inghilterra), che sembra voler assumere una dimensione costituente a patto che riesca ad attivare una politica della traduzione delle campagne di opposizione alle politiche di workfare in ambito transnazionale, così come delle reti di forza lavoro migrante all’interna dell’Ue. L’ultimo meeting di Blockupy a Francoforte, ha iniziato una discussione produttiva proprio sull’estensione europea della sperimentazione dello Sciopero Sociale.
Il principio della risonanza delle lotte
La metropoli ha affermato politicamente la sua esistenza. Lo sciopero del #14N, secondo modalità molecolari ed eterogenee di conflitto, ha mostrato la sua dimensione moltitudinaria, come forma della classe che nella metropoli vive e produce. E con essa intrattiene un rapporto di sfruttamento, mentre l’eterogeneità del lavoro vivo viene ricondotta all’unificazione del “meccanismo estrattivo”, trattenuta nel dispositivo di comando culturale e di dominio lavorativo. In oltre 40 città, picchetti, cortei, blocchi della circolazione e molto altro, nell’arco di 24 ore, hanno fornito l’occasione per la presa di parola di decine di migliaia di giovani e meno giovani, studenti e disoccupati, lavoratori autonomi di nuova generazione e Neet. Una classe in sé che va riconoscendosi. Nello spazio della città, lo «sciopero sociale», più che concretizzarsi come una mera evocazione, ha funzionato come dispositivo di moltiplicazione delle pratiche e di implicazione delle soggettività. Questo modello organizzativo molteplice, in grado di mostrare, più di ogni altra cosa, i dispositivi di contropotere che possono essere agiti dal pluri-verso del lavoro precario, è stato la causa principale delle reazioni preoccupate alla diffusione dello sciopero da parte del governo (ministero degli interni, in modo più esplicito), del garante per gli scioperi e persino del Vaticano. Ad impensierire l’establishment politico, sembrano essere stati soprattutto due aspetti. Da un lato, la forma molecolare stessa delle pratiche, che non si presta ad essere controllata dai dispositivi organizzativi –ordinati e rigidi – delle centrali sindacali, sfuggendo quindi ad una loro possibile cattura. Dall’altro, l’invenzione di uno sciopero che si è prodotto, senza mostrare in modo riconoscibile e convenzionale il soggetto stesso dell’organizzazione. Ri-significando, in termini di contropotere, le movenze dello «sciame» di investitori che opera nel mercato finanziario. Ri-contestualizzando anche le antiche pratiche più tradizionali del blocco operaio, ma ricollocandole all’interno di uno schema organizzativo, che punta alla moltiplicazione delle forme di lotta. Questa importante innovazione delle pratiche conflittuali, è il caso di dirlo, mostra al contempo tutti i limiti della cultura dell’«antagonismo identitario», che nel riprodurre costantemente la retorica dello «scontro finale», si mostra paradossalmente come il soggetto più rassicurante per l’establishment, perché più facilmente reprimibile.
Al contrario, le pratiche di sciopero diversificate nell’arco di 24 ore si sono manifestate nel blocco degli ingressi dei luoghi della produzione, nella comunicazione delle strade dello shopping, dinanzi alle catene commerciali, agli snodi aeroportuali e autostradali, presso le istituzioni erogatrici di welfare, nelle scuole e nelle università. Così lo Sciopero Sociale è divenuto il tentativo, ben riuscito, di dotarsi di metodi e di pratiche per porre freno al «bio-potere» della vita, dei corpi, delle forze, muovendosi lungo i punti di intersezione tra la sfera della produzione e quella riproduttiva.
Ma ancora, ciò che ha segnato un elemento notevole di forza, ha riguardato quella specifica possibilità di aprire un terreno in cui le lotte hanno avuto la capacità di «risuonare» tra loro. E’ accaduto che in alcune città, anche in assenza di un Laboratorio dello Sciopero Sociale che ne coordinava le azioni, si sono prodotte ugualmente forme di conflitto, includendo nello spazio dello Sciopero Sociale, soggetti e organizzazioni che non avevano seguito tutto il percorso di mobilitazione. In altre realtà, la costruzione di questo spazio, ha offerto la possibilità anche ad organizzazioni sindacali tradizionali, di operare autonomamente dagli (e in contrasto con) indirizzi delle Camere del Lavoro territoriali. E’ il caso di Genova, ad esempio, dove il porto è stato bloccato per diverse ore, oltre che dai sindacati di base, anche dalla categoria di settore della Cgil.
Il «Bildungsroman» del precariato metropolitano
A Londra, il 28 settembre 1864, duemila uomini e donne di umili condizioni, inglesi, ma anche tedeschi, francesi, spagnoli, russi, polacchi, italiani, diedero vita alla Prima Internazionale, inventando la prima organizzazione proletaria, espressone autonoma degli interessi della classe lavoratrice. Quest’anno ricorrono i 150 anni dalla sua fondazione. Ciò che quella storia ci consegna, e che qui vogliamo mettere in risalto, è quel lungo processo di apprendimento collettivo, fatto di tentativi organizzativi, forme di lotte ed elaborazioni teoriche, attraverso cui la classe operaia industriale è dovuta passare prima di scoprire le proprie forme, i propri metodi e le sue proprie istituzioni in grado di agire con efficacia un rapporto di forza con il capitale industriale. Di fronte al radicale mutamento della natura del capitalismo, altri processi di apprendimento sembrano disporsi verso una nuova sedimentazione. In questo senso, la centralità che ha assunto all’interno della preparazione del Social Strike la problematica organizzativa, il questionamento attorno ai modi più adeguati di intercettare e trasformare politicamente la rinnovata composizione di classe, di ricomporre conflittualmente la dispersione della giornata lavorativa e del Welfare State nella sua estensione metropolitana, più che indicare una qualche soluzione al dilemma, mostra tuttavia la maturità di un accumulo di sapere e di memoria che si è sedimentato negli anni.
Seppure questo processo si sia presentato come una discontinuità nello scenario politico del nostro paese, non va dimenticato quanto esso si sia nutrito di una sotterranea continuità nell’elaborazione dei movimenti sociali italiani. Questa linea di sviluppo è quella che ha nel tempo maggiormente insistito sul superamento della forma-centro-sociale come base dell’identità politica (sia nelle versioni antagoniste che in quelle aperte alla cosiddetta «società civile») puntando invece alle connessioni con le esperienze e i primi tentativi di auto-organizzazione sociale dei precari e dei lavoratori cognitivi. Questo processo è passato per il mayday process, così come per gli esperimenti di guerrilla comunicativa e l’internità ai movimenti studenteschi degli ultimi 15 anni.
Il collettivo Euronomade aveva proposto mesi fa proprio su queste tematiche la discussione attorno al tema del «sindacalismo sociale»: il problema che ci eravamo posti era come ripensare, nella situazione attuale e in relazione alle esperienze di conflitto che si sono dispiegate in Europa durante la crisi, la forma-movimento dal punto di vista dell’organizzazione e delle pratiche di negoziazione. Il problema è stato, attraverso una sorta di astrazione teorica, provare a pensare la proliferazione dei dispositivi di conflitto e di messa in tensione dei rapporti di potere nell’epoca della finanziarizzazione dei diritti sociali e dell’austerità permanente, come delle forme organizzative «emergenti». In questo quadro, l’esperienza del #14N e il lavoro di costruzione del Social Strike, per quanto ancora molto embrionali, ci pare che si intersechino e rilancino in avanti quello stesso cantiere di ricerca, il quale conta oggi però su una serie di nuovi punti di aggancio e un insieme di nuove questioni da rimettere al centro della discussione collettiva. I laboratori dello sciopero sociale, i loro possibili sviluppi e connessioni, possono forse proporsi come luoghi privilegiati di questa sperimentazione in corso.
Oltre il 14N, le sfide sul tappeto
Nonostante l’inaspettato successo del 14N, lo sciopero sociale lascia sul tappeto alcune rilevanti sfide. La prima, ovviamente, è quella di tenere aperta la contesa sull’approvazione del Jobs Act ed in generale sui provvedimenti che il governo intende approvare nei prossimi mesi. Tuttavia, crediamo che il processo di elaborazione e sperimentazione avviato in questi mesi apra ad una discussione più ampia sulla capacità dei movimenti sociali di innescare dei processi di trasformazione. Con tutta evidenza, ci troviamo in Europa di fronte ad una conclamata crisi della democrazia rappresentativa. In particolare è la dialettica tra lotte, movimenti sociali e mutamento istituzionale ad essersi interrotta. Il blocco delle pratiche negoziali agite dai movimenti europei pone questo problema in tutta la sua urgenza. Riteniamo tuttavia che sia proprio questo il luogo in cui è corretto porre la questione. Non è infatti né attraverso la pura evocazione della rottura né pensando al «momento politico» come un momento separato, per così dire in seconda battuta, che si possa risolvere il dilemma. Il problema della democrazia deve esser posto all’interno dei e a partire dai processi di organizzazione della composizione di classe, dai tentativi di modificazione dei rapporti sociali e in coincidenza con il lavoro di organizzazione delle soggettività. È qui che la dimensione politica e costituente dello sciopero e delle coalizioni sociali deve essere interrogata. Questo salto in avanti della riflessione, su cui si era concentrato il seminario di Passignano, si nutre di solide basi che affondano nella nuova composizione sociale del lavoro.
La distanza che la tradizione del movimento operaio ha pensato tra le lotte economiche e le lotte politiche, in questo contesto mutato, qui si riduce drasticamente. Come ha avuto modo di sottolineare Michael Hardt su questo sito, questo rapporto da «esterno» può divenire «interno», nel momento in cui i «mezzi di produzione» si confondono con le stesse «forme di vita». Quando si assume lo spazio metropolitano come lo spazio di organizzazione della composizione di classe, noi possiamo vedere che le lotte per migliori condizioni di lavoro, per il salario e per il reddito, per la riappropriazione democratica del welfare, puntano immediatamente alla rivendicazione di un’organizzazione comune delle nostre esistenze. L’invenzione di nuove istituzioni non può essere che la base per immaginare una nuova democrazia del comune.


Pubblicato su Euronomade

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