mercoledì 26 novembre 2014

Allarme Cina negli Usa.


Il governo cinese ricorre a «sleali» pra­ti­che com­mer­ciali, sti­mo­lando l’economia e le espor­ta­zioni con incen­tivi sta­tali invece di intra­pren­dere «sostan­ziali riforme eco­no­mi­che»: è que­sta la prima accusa con­te­nuta nel rap­porto pre­sen­tato in novem­bre al Con­gresso degli Stati uniti dalla US-China Eco­no­mic and Secu­rity Review Com­mis­sion .

il manifesto Manlio Dinucci
Nono­stante l’aumento dell’export Usa in Cina, il defi­cit degli Stati uniti negli scambi com­mer­ciali con la Cina è salito nel 2013 a 318,4 miliardi di dol­lari, e con­ti­nua ad aumen­tare. Si tratta del più alto defi­cit regi­stra­tosi, su scala mon­diale, negli scambi com­mer­ciali tra due paesi. Il valore dei pro­dotti «made in China » impor­tati dagli Stati uniti supera di quat­tro volte quello dei pro­dotti made in Usa espor­tati in Cina. Ciò ha con­tri­buito a pro­vo­care un calo del 29%, dal 2001 al 2014, dell’occupazione nel set­tore mani­fat­tu­riero statunitense.
La stessa Com­mis­sione deve però rico­no­scere che ciò è dovuto al fatto che le mul­ti­na­zio­nali Usa hanno delo­ca­liz­zato molte pro­du­zioni in Cina (dove tro­vano mano­do­pera a minor costo e altri van­taggi), rica­van­done note­voli «bene­fici», men­tre sono stati i lavo­ra­tori sta­tu­ni­tensi a subirne le «con­se­guenze nega­tive». Anche se si veri­fica un par­ziale recu­pero di posti di lavoro in seguito agli inve­sti­menti cinesi negli Usa, che hanno supe­rato nel 2014 gli inve­sti­menti sta­tu­ni­tensi in Cina. Società cinesi sono sem­pre più pre­senti, con pro­pri inve­sti­menti, anche in Europa, Asia, Africa e Ame­rica latina, offrendo con­di­zioni di gran lunga più favo­re­voli rispetto a quelle delle mul­ti­na­zio­nali Usa.

In altre parole, con­tra­ria­mente a quanto si pro­po­ne­vano, gli Usa non sono riu­sciti ad assog­get­tare la Cina al pro­prio mec­ca­ni­smo di sfrut­ta­mento neo­co­lo­niale, quale sem­plice fonte di mano­do­pera a basso costo e mer­cato per i pro­pri pro­dotti. Né hanno otte­nuto la com­pleta «libe­ra­liz­za­zione» dell’economia cinese che – sot­to­li­nea la Com­mis­sione – è ancora «domi­nata da imprese di pro­prietà sta­tale»: per que­sto gli Stati uniti «non rico­no­scono alla Cina lo sta­tus di eco­no­mia di mercato».
La Com­mis­sione si dichiara pre­oc­cu­pata anche dalla moder­niz­za­zione delle forze armate cinesi e dal con­se­guente aumento del bilan­cio mili­tare, salito a 131 miliardi di dol­lari nel 2014. Non dice però che gli Stati uniti, con una popo­la­zione quat­tro volte infe­riore a quella cinese, hanno una spesa mili­tare che (com­prese le voci extra bud­get del Pen­ta­gono) sale a quasi 1000 miliardi di dol­lari annui. Né dice che, men­tre gli Stati uniti hanno, secondo i dati uffi­ciali del Pen­ta­gono, 576 basi mili­tari all’estero (più molte altre a dispo­si­zione), le basi mili­tari cinesi si tro­vano sola­mente sul ter­ri­to­rio cinese.
E pro­prio attorno alla Cina si estende una rete di basi Usa.
La Com­mis­sione rac­co­manda al Con­gresso di aumen­tare gli stan­zia­menti così che gli Stati uniti pos­sano accre­scere la loro pre­senza mili­tare nella regione Asia/Pacifico per «con­tro­bi­lan­ciare le cre­scenti capa­cità mili­tari della Cina». Saranno accre­sciute le forze del Comando Usa del Paci­fico, che dispone attual­mente di 360mila mili­tari, 200 navi e 1500 aerei. Secondo i piani del Pen­ta­gono, entro il 2020 sarà con­cen­trato nel Paci­fico il 60% delle navi e delle basi della U.S. Navy. «Gli Stati uniti – sot­to­li­nea il Pen­ta­gono nella Qua­dren­nial Defense Review 2014 – hanno con­tri­buito, in par­ti­co­lare negli ultimi sei decenni, alla pace e pro­spe­rità della regione Asia-Pacifico».
Lo testi­mo­nia il mas­sa­cro di oltre mezzo milione di comu­ni­sti indo­ne­siani nel colpo di stato orga­niz­zato dalla Cia nel 1965, di 2–3 milioni di viet­na­miti nella guerra con­dotta dagli Usa negli anni ’60 e ‘70.

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