lunedì 20 maggio 2013

Quando un lavoro non basta più

Hanno un'occupazione fissa e uno stipendio. Eppure non riescono a pagare l'affitto, gli alimenti e le spese di un'auto. Affollano con vergogna le mense gestite dalle associazioni caritatevoli. Sono i nuovi poveri. Un fenomeno in continua crescita, diffuso in tutte le aree del Paese.

l'espresso di Paola Bacchiddu (20 maggio 2013)
Una mensa della Caritas a Milano Qualcuno li chiama "i cartoneros italiani", mutuando la definizione dalla recente storia del collasso finanziario in Argentina. Quando, nei primi anni del Duemila, la crisi spazzò certezze e risparmi della classe media del paese, partorendo nuovi, drammatici fenomeni sociali.  All'epoca, per reinventarsi un lavoro dopo aver perso l'impiego, intere famiglie raccoglievano, per rivenderlo, materiale rinvenuto nei sacchetti dell'immondizia, abbandonati sui marciapiedi di Buenos Aires: cartone, legno, plastica, vetro, metallo.

Oggi il fenomeno italiano non è identico, ma un ibrido forse perfino più preoccupante. Perché da qualche anno, nelle nostre città, vive e si muove, piuttosto in silenzio, una nicchia di povertà di cui gli stessi protagonisti a stento riescono a parlare. Sono i poveri con un lavoro e uno stipendio. A volte fisso, altre volte precario. La fotografia dell'Istat, elaborata in collaborazione con il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, la Caritas e la Federazione italiana organismi per le persone senza fissa dimora, restituisce quote che si aggirano sul 24,5 per cento del totale dei senza tetto, e una fascia d'età compresa tra i 35 e i 45 anni, con un livello d'istruzione media.

Una popolazione che vive in uno "stato di deprivazione": cioè, tecnicamente, nonostante possa contare su una busta paga, non è in grado di sostenere spese impreviste, ha arretrati nei pagamenti quotidiani, non riesce a garantirsi un pasto adeguato almeno ogni due giorni e, in alcuni casi, non è più capace di sostenere le spese per un mutuo o per un affitto.

La casistica più frequente è quella del padre che, in seguito alla separazione, deve garantire l'assegno di mantenimento per la propria famiglia, e una sistemazione dignitosa anche per sé. Secondo l'Eurispes si tratta di 4 milioni di individui, di cui l'80 per cento non riesce a sopravvivere con il proprio stipendio.
Le segnalazioni sono geograficamente trasversali. Provengono dalle grandi città distribuite sull'intero teritorio: Milano, Firenze, Roma, Napoli, Cagliari.
I "poveri con impiego" dormono per strada, negli androni dei palazzi, nei centri di accoglienza, in macchina, da qualcuno che li ospita, perfino sui terrazzi. Si lavano nei bagni dei bar, delle strutture sociali, fanno le docce a casa di amici. E poi si recano regolarmente al lavoro. In silenzio. Perché rivelare la condizione in cui vivono, in questi casi, non è solo una questione di dignità e pudore. Ma si rischia di recidere anche l'ultimo laccio che li tiene miracolosamente collegati al contesto sociale: il lavoro.

Carlo (il nome è di fantasia per rispettarne la privacy) ha 36 anni. Dopo 2 anni di lavoro in Canada è rientrato in Italia. I genitori non gli hanno offerto accoglienza. Ha un lavoro come restauratore e artigiano, ma da 5 mesi vive per strada perché non riesce a pagarsi un affitto. Qualcuno gli ha offerto un locale dove utilizzare un pc e depositare alcune sue cose.

Emilio ha 46 anni. E' un insegnante elementare precario, lavora a Roma. Si è separato dalla moglie e ha due figli che vivono in Calabria. E' sempre riuscito a pagare 500 euro d'affitto per un posto letto, ma quando non gli è stata restituita la caparra da alcuni proprietari delle stanze che occupava, la sua condizione è precipitata. Ha bruciato i pochi risparmi e si è indebitato. Non ha un luogo fisico dove trascorrere la notte.

Sono solo alcuni dei casi registrati nell'ultimo anno dalla Comunità di Sant'Egidio di Roma, che si occupa di offrire assistenza anche ai nuovi "poveri retribuiti".

Francesca Zuccari, responsabile dei centri d'accoglienza della comunità, parla di una preoccupante impennata di casi simili, negli ultimi tempi: "In 5 anni queste condizioni si sono moltiplicate. La fascia d'età di chi ha un reddito ma non riesce più ad affrontare le spese che comporta una casa è tra i 40 e i 60 anni. Al principio si trattava perlopiù di anziani in situazioni di solitudine. Oggi l'età si è sensibilmente abbassata. A Roma il problema della sofferenza economica è determinato dal costo esoso dell'alloggio. Molti di coloro che hanno un lavoro vivono per strada. Possiamo ospitarne solo alcuni, mentre riusciamo a tamponare quasi interamente, per ora, il problema dei pasti distribuiti in mensa".

Nel 2011 si sono rivolte al centro circa 1500 persone di cui poco più della metà maschi. Coloro che vivono per strada sono il 25 per cento. Di questi gli italiani sono il 18, 5 per cento. E parte di loro hanno un lavoro regolare.

Nel rapporto di Sant'Egidio sulla povertà a Roma e nel Lazio, pubblicato nel 2012, la regione si colloca al terzo posto per numero di sfratti. La sola capitale, nel 2011, ne ha registrati duemila, collocandosi al vertice delle città italiane più colpite dal fenomeno. Nel 24% dei casi la causa è da ascriversi alla perdita del lavoro, mentre nel 21% si tratta di lavoratori che ancora percepiscono un'entrata, sebbene non sufficiente: ad esempio i cassaintegrati.

Anche la Lombardia, che pure rappresenta il traino della produzione del pil nazionale, non fa eccezione. Anzi, nelle città più grandi, come Milano, il costo della vita è così alto che la conseguenza più dolorosa è proprio la perdita della casa.

Don Roberto Davanzo, direttore della Caritas ambrosiana, solleva una preoccupazione che negli ultimi anni si è fatta più pressante: la progressiva incapacità, da parte delle amministrazioni locali, di offrire un aiuto concreto. Un po' per il drastico taglio dei fondi, causato anche da politiche centrali, un po' per il moltiplicarsi dei casi, rispetto al passato: "Bisogna lavorare in sinergia", dichiara all'Espresso. "La rete assistenziale privata, cattolica e laica, sul tessuto lombardo è ancora forte, ma non è più sufficiente. Milano dispone di circa tremila posti letto, tra prima e seconda accoglienza. Ma i senza fissa dimora si aggirano attorno ai 5-6mila casi. Abbiamo fatto richiesta al comune di gestire, almeno in parte, i 2mila appartamenti lastrati (cioè blindati) e sfitti dell'Aler (le case popolari). Potremmo riqualificarli e metterli a disposizione di chi ha necessità. Alcuni li abbiamo già ristrutturati a nostre spese. Il problema è che, ultimamente, sono gli stessi enti pubblici a rimandarci indietro famiglie in difficoltà, perché non riescono più a sostenerne i costi".

Lo slogan concepito dal direttore è "Meno posti letto ma più di qualità". Perché l'obiettivo, proprio per coloro che hanno ancora un lavoro, è di renderli di nuovo autonomi, con meccanismi che li sgancino dalla povertà. "Sa quanti dipendenti del terziario vengono in mensa dall'ufficio, in giacca e cravatta? Alcuni ci chiedono un aiuto economico, altri ricevono mensilmente le borse della spesa dalle parrocchie. Con un solo stipendio, ormai, a Milano non si riesce più a pagare l'affitto, gli alimenti e le spese di un'auto. Il problema è che ci muoviamo sempre nel circuito della logica emergenziale, senza piani lungimiranti. Il welfare del domani, invece, deve ricevere dall'ente pubblico una funzione di regia che non deleghi soltanto, ma interloquisca con noi e altre realtà associative assistenziali dentro meccanismi di co-progettazione. Non vogliamo essere meri esecutori, ma coprogettisti. Questo, spesso, crea un problema alle amministrazioni".

L'ultimo rapporto sull'esclusione sociale in Lombardia, pubblicato da Eupolis (l'istituto superiore lombardo per la ricerca, la statistica e la formazione), fotografa il fenomeno, analizzando i dati del 2011. Si è assistito a un un progressivo incremento della povertà relativa degli italiani (passati dal 33,7% del 2008 al 37,3% del 2011), a causa delle crescenti difficoltà occupazionali derivanti dalla crisi in corso. Il 41, 6 per cento sono adulti, di cui quasi la metà italiani. Tra le maggiori cause di eventi critici che hanno determinato la condizione di indigenza, al primo posto si colloca la perdita del lavoro (34% degli enti sentiti) e al secondo il reddito insufficiente (25%). Il 14 per cento degli asistiti sono "occupati regolari". Il reddito medio di coloro che sono impiegati è di 724 euro: una cifra irrisoria e assolutamente sproporzionata rispetto al costo medio di un alloggio, in Lombardia e a Milano in particolare.

Anche la Toscana non si sottrae al fenomeno. Il Cesvot, Centro Servizi Volontariato Toscana, è gestito da 29 realtà regionali di volontariato. Prezioso è il suo lavoro di ricerca, documentazione e informazione per oltre 3mila associazioni toscane. Nell'ultimo rapporto sulla crisi economica e la vulnerabilità sociale, pubblicato nel 2012, emerge anche un fenomeno collaterale alla perdita della casa di famiglie o singoli che dispongono ancora di un reddito e di un'occupazione: il ricorso all'indebitamento, spesso causato dall' affidarsi a figure che praticano l'usura. A volte si tratta di famiglie in cui entrambi i coniugi lavoravano e uno dei due ha perso l'impiego che riusciva a coprire il costo di un mutuo o di un affitto. In altri casi chi viene strangolato nelle maglie degli strozzini è un padre separato che non è più in grado di corrispondere l'assegno di mantenimento familiare e, al contempo, di sostenere le proprie spese. E' schizzata persino la percentuale delle imprese artigiane o commerciali che, per proseguire l'attività, è annegata nell'indebitamento folle: dal 5 per cento del 2000 fino al 40 per cento di oggi. Spesso si tratta di artigiani che lavorano nei tomaifici o nel settore calzaturiero.
L'allarme è soprattutto nei confronti della classe media, che costituisce un'utenza nuova per le strutture di assistenzialismo. Da casi episodici si è infatti passati a una certa regolare frequenza che potrebbe aggravarsi con il perpetrarsi della crisi, come denuncia il report. "A Lucca – racconta il segretario del vescovo nel report – alcuni antiquari che risiedono in abitazioni antiche e di prestigio, all'interno delle mura (zona residenziale alta), hanno accusato l'arresto quasi totale dell'attività. Alcuni di essi non sono più in grado di pagare le bollette e le spese di mantenimento di appartamenti così costosi. E' un fenomeno del tutto nuovo e assai preoccupante perché non colpisce la classe operaia, ma il ceto benestante". Se ne parla di rado, riferisce il parrocco, perché la condizione psicologica di chi è colpito è di estremo imbarazzo. Spesso, secondo quanto riporta il centro d'ascolto della Caritas locale, si chiede alla Chiesa se sia possibile un aiuto per trovare un'occupazione per sé o per la propria moglie, che non ha mai lavorato.

L'associazione Misericordia di Firenze, uno dei più antichi enti assistenziali cattolici che opera in sinergia col comune, registra un incremento, da fine 2011, di richieste di contributi sul pagamento delle bollette. I nuclei familiari assistiti sono circa 500 e spesso in essi almeno uno dei due coniugi ha un lavoro fisso. L'ente distribuisce pacchi di generi alimentari sulla base di un paniere o tramite l'attribuzione di tessere a punti che consente ai titolari di effettuare una spesa agevolata in uno dei punti alimentari convenzionati con la Misericordia.

Soluzioni tampone, che tentano di arginare l'emorragia sociale sempre più forte. Ma è possibile uscire dalla logica emergenziale e predisporre dei piani assistenziali più strutturati? Il rapporto lombardo di Eupolis sembra dare una risposta in questo senso e fornisce un primo indirizzo nelle misure da adottare per contrastare la "nuova povertà". "La moltiplicazione delle occasioni lavorative attraverso processi di formazione e riqualificazione; il sostegno al reddito mediante bonus, voucher, erogazioni liberali, microcredito; l'avvio di forme di sostegno anti-usura; la messa a disposizione di alloggi economici temporanei o di lunga durata".

Il reale ostacolo, però, come sottolineava il direttore di Caristas Ambrosiana Roberto Davanzo, è l'eterogeneità delle sfide - tanto più difficili da gestire quanto più compromessa è la situazione di partenza. E' impossibile per un singolo ente non profit effettuare interventi risolutivi (in questo senso, anche i dati statistici scoraggiano). La soluzione sarebbe proprio quella, per una volta, di unire gli sforzi con altri partner pubblici o privati.

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