domenica 19 maggio 2013

Monika, figlia di nazisti, riuscì a vendicare Che Guevara

Il libro di Schreiber
Amburgo, Germania, ore 9.40 del 1° aprile 1971. Una bella donna elegante, dagli occhi azzurri, entra nell’ufficio del console della Bolivia, al quale ha chiesto un incontro qualche giorno prima, e attende pazientemente di essere ricevuta. Quando entra nell’ufficio nel suo abito scuro, il console Roberto Quintanilla Pereira resta folgorato dalla bellezza dell’ospite “australiana”, che nell’attesa sta osservando i quadri appesi alle pareti. La ragazza lo fissa negli occhi, poi estrae un revolver e gli spara. Tre colpi a freddo, tutti a segno. Nessuna resistenza, nessuna lotta. Nella fuga, la donna si lascia alle spalle una parrucca, la sua borsa, la sua Colt Cobra 38 Special. E un foglio, sul quale si legge: “Victoria o muerte. Eln”. Il console a terra privo di vita è l’ex colonnello responsabile, meno di quattro anni prima, dell’ultimo oltraggio a Ernesto “Che” Guevara: gli amputò le mani, dopo averlo fatto fucilare a La Higuera il 9 ottobre 1967.
Con quella profanazione, scrive Nina Ramon ricordando l’episodio, Quintanilla aveva firmato la sua condanna a morte: da quel giorno, la ragazza “australiana” si era votata a una missione ad altissimo rischio, vendicare il “Che”. Oltre a quel gesto solitario, ha dell’incredibile l’intera biografia della ragazza: Monika Ertl, baravese, si allontana dalla Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale per seguire il padre, cine-operatore di Hitler, lungo la “via dei ratti”, che offre rifugio a molti criminali nazisti in Sudamerica, al riparo dalla giustizia internazionale. La storia di Monika, scrive Nina Ramon in un post su “Conflitti Metropolitani”, ha potuto essere ampiamente raccontata grazie alle ricerche del giornalista investigativo Jürgen Schreiber, autore del libro “La ragazza che vendicò Che Guerava”. Il documentarista Hans Ertl aveva ritratto i Giochi Olimpici di Berlino del 1936 sotto la direzione di Leni Riefenstahl, la regista del regime nazista, ed era considerato “il fotografo diRoberto Quintanilla PereiraHitler” benché l’iconografo ufficiale del Führer sia stato Heinrich Hoffman, delle SS.

Uomo in realtà pacifico e senza nemici, neppure iscritto al partito nazista, dopo la guerra il padre di Monika abbandona la Germania per il Cile, raggiungendo l’arcipelago australe di Juan Fernández, «affascinante paradiso perduto» dove realizza un documentario nel 1950. L’anno seguente raggiunge Chiquitania, a cento chilometri da Santa Cruz, per stabilirsi nelle terre vergini amazzoniche e insediarsi a “La Dolorida”, una proprietà di tremila ettari. Monika, che ha vissuto la sua infanzia nell’effervescenza del nazismo della Germania, in Bolivia apprende l’arte di suo padre, utile poi per lavorare con il documentarista boliviano Jorge Ruiz. La ragazza cresce in una cerchia ristretta e razzista, dominata dal padre e da un sinistro personaggio, lo “Zio Klaus”, presentatole come “imprenditore tedesco di origine ebraica”. Vero nome: Klaus Barbie, alto dirigente della Gestapo, noto come “il boia di La morte del Che in BoliviaLione”. Perfetto, lo “Zio Klaus”, per lavorare sotto falso nome (Altmann) come consulente per svariate dittature fasciste sudamericane.
La vita di Monika, dopo il matrimonio fallito con un giovane tedesco e l’apertura di un ospizio per orfani a La Paz, cambia di colpo con la notizia dell’atroce fine di Ernesto Guevara, l’icona rivoluzionaria di Cuba. «Lo adorava come fosse un dio», confida la sorella, Beatriz. Col padre i rapporti si complicano improvvisamente, nonostante Hans sia legatissimo alla figlia: «Monika fu la sua figlia preferita, mio padre era molto freddo nei nostri confronti e lei sembrava essere l’unica che amasse», racconta la sorella alla Bbc. «Mio padre nacque come risultato di uno stupro, mia nonna non gli dimostrò mai affetto e questo lo segnò per sempre; l’unico affetto che dimostrò fu per Monika». Che, alla morte del “Che”, si separa dal padre e aderisce alla militanza della sinistra Klaus Barbiesudamericana, impugnando le armi con la guerriglia di Ñancahuazú, seguendo le orme del suo eroe, per combattere la disuguaglianza sociale.
«Monika – scrive Nina Ramon – smise di essere quella ragazza appassionata di fotografia per diventare “Imilla la rivoluzionaria”, rifugiata in un accampamento sulle colline boliviane. Man mano che la maggior parte dei suoi compagni cadevano, il suo dolore si trasformò in forza per pretenderegiustizia e lei divenne una figura chiave dell’Eln. Nei quattro anni durante i quali restò nell’accampamento, scrisse a suo padre una sola volta l’anno, per dirgli testualmente “non preoccupatevi per me, sto bene”. Purtroppo, non l’avrebbe mai più rivista, né viva, né morta». Così, nel 1971 Monika attraversa l’Atlantico, torna nella sua Germania e, ad Amburgo, giustiziapersonalmente il console boliviano, il “macellaio” Quintanilla, l’uomo che tutti i guerriglieri sognano di uccidere. Un istante dopo, Monika si trasforma a sua volta in preda, braccata in ogni dove da polizie e servizi segreti. Cade due anni dopo, nel 1973, in Bolivia, vittima di un’imboscata tesale dal mostruoso Barbie, lo “Zio Klaus”. Monika Ertl aveva solo 36 anni. La sua tomba “simbolica” è in un cimitero di La Paz, ma i suoi resti – sepolti chissà dove – non sono mai stati consegnati ai familiari. Barbie le sopravvisse per quasi vent’anni: identificato come criminale nazista ed estradato nell’83 in Francia, morì quattro anni dopo la sentenza del 1987 che lo condannò all’ergastolo.
Monika Ertl«Che Monika avesse un viso d’angelo non significa nulla, e la cronaca nera dei nostri giorni ce lo insegna», scrive l’editore (Nutrimenti) presentando volume di Schreiber, libro-inchiesta che si legge come un noir. «E tuttavia, più leggiamo di lei, della sua famiglia, del suo vissuto, più ci riesce difficile sottrarci al sentimento di simpatia che proviamo nei suoi confronti: come avviene allo stesso Schreiber, che non ha problemi a confessarlo. Perché Monika Ertl è un’assassina che uccide un assassino». Non ci si deve fare giustizia da sé: ma se non ci sono “alternative”? Nata a Monaco di Baviera nel 1937, Monika era cresciuta accanto a persone che non solo non scontavano le loro colpe, ma neppure si riconoscevano colpevoli. Il padre Hans, “fotografo di Hitler”, non aveva mai preso posizione davanti alle atrocità che fissava sulla pellicola. Poi, una volta in Bolivia, aveva dato piena copertura a un criminale del calibro di Barbie: quanto aveva influito, sulle scelte di Monika, il passato nazista dalla famiglia?
(Il libro: Jürgen Schreiber, “La ragazza che vendicò Che Guevara. Storia di Monika Ertl”, Edizioni Nutrimenti, 392 pagine, euro 19,50).

Nessun commento:

Posta un commento