La questione dei beni comuni è seria, ma ne va evitata la retorica. Per questo occorre mettere da parte il “benicomunismo” di Mattei e appoggiarsi decisamente a quello di Rodotà e Ferrajoli, nel cui solco si inscrive anche il recente libro di Ermanno Vitale, “Contro i beni comuni. Una critica illuminista”.
Abbiamo votato tutti per il referendum sull’acqua pubblica, assistendo poi sgomenti ai vari tentativi di riprivatizzarla. Molti di noi, alle politiche, hanno persino votato una coalizione denominata Italia bene comune, salvo vederla subito implodere alla prova dei fatti, ossia dinanzi all’inciucio con il berlusconismo. Quella dei beni comuni, in effetti, rischia di diventare un’etichetta meramente decorativa, come è avvenuto con l’aggettivo ’sostenibile’, inventato dall’ambientalismo profondo e poi divenuto una qualifica che non si nega neppure all’insostenibile. Per fortuna, di fronte al rischio concreto che quella dei beni comuni diventi l’ennesima retorica, buona per tutti e per nessuno, stanno emergendo due reazioni.
Una reazione in senso stretto, una reazione reazionaria, è il benicomunismo di Ugo Mattei, giurista di Torino, autore di un Manifesto dei beni comuni (2011) che sembra più un vangelo apocrifo, l’incunabolo di una setta eretica, che un libro di diritto e/o di politica. Anche per questo, non userò qui il termine ‘benicomunismo’ che – proprio come Guido Viale sul “Manifesto” dell’11 maggio 2012 – trovo «orribile, ridicolo e neogotico», soprattutto neogotico. Userò invece la locuzione «comunismo dei beni comuni», senz’altro meno maneggevole della precedente ma molto più confacente alla reazione reazionaria di cui sopra.
Una reazione salutare, invece, è quella dei migliori teorici italiani dei beni comuni, come Stefano Rodotà, o piuttosto dei beni pubblici, come Luigi Ferrajoli: i quali, rifuggendo dalle tentazioni dell’escatologia movimentista alla Mattei o alla Hardt & Negri, fanno due cose molto più utili, oltreché molto più da giuristi. Intanto, spiegare cosa diavolo siano, i beni comuni, definendoli e fornendone una lista che comprenda almeno l’acqua, i farmaci salvavita, l’accesso a internet, insomma cose palpabili. Poi, e soprattutto, proporre come si potrebbe concretamente tutelarli, i beni comuni, invece di eleggerli a oggetto di culti (m)isterici da parte di moltitudini invasate e osannanti.
S’inscrive autorevolmente in questa seconda scuola di pensiero il libro di un filosofo politico di scuola bobbiana, Ermanno Vitale, ossia Contro i beni comuni. Una critica illuminista, appena uscito da Laterza: che non è affatto un attacco ai beni comuni, come potrebbe apparire dal titolo, ma una critica devastante al comunismo dei beni comuni e in particolare alle sue declinazioni millenaristiche e misticheggianti, come chiarisce il sottotitolo. Parlandone, non vorrei davvero togliervi il piacere di leggerlo – costa solo dodici euro, se vi interessa io l’ho pagato nove e rotti con lo sconto – o peggio ancora fornirvi un pretesto per non leggerlo. Ma sono persino disposto a correre il rischio che non lo leggiate purché il libro non passi inosservato, travolto come tanti dalla crisi galoppante della saggistica.
Il testo si divide essenzialmente in due parti, secondo il classico schema pars destruens/pars costruens (non è inglese, è latino, lo dico per i miei figli che hanno fatto lo scientifico). La prima parte è una spassosa contro-narrazione della narrazione benicomunista, contro-narrazione particolarmente efficace quando ne colpisce punti nevralgici quali il folklore medievista e l’irenismo comunitarista (mi scuso di tutti questi paroloni, ma mi sono fatto contagiare dalla narrativa benicomunista, che del resto vi consiglio, a volte è meglio della fantascienza). Toglietevi dalla testa, però, che il libro di Vitale sia solo un pamphlet (neppure questo è inglese, lo dico sempre per i miei figli, non certo per il lettore di questa rubrica): ad esempio, leggetevi la parte in cui Vitale rovescia il luogo comune secondo cui Elinor Ostrom sarebbe favorevole ai beni comuni e Garreth Hardin contro, e poi ne riparliamo.
La seconda parte, invece, ossia la pars costruens (che, detto per Enrico, si pronuncia com’è scritta) è un’ottima sintesi delle ragioni per cui la sinistra del Duemila (la sinistra-sinistra: o qualcuno pensa ancora che ce ne sia un’altra?) dovrebbe darsi una politica dei beni comuni, beninteso nel senso intelligibile di Rodotà o di Ferrajoli e non in quello inintelligibile di Mattei, che rimette la definizione stessa di bene comune alla pratica rivoluzionaria dei movimenti, sicché qualsiasi scalmanato che occupa un bene, pubblico o privato, lo definisce per ciò stesso come bene comune.
La parte migliore del libro, secondo me, è quella sorta di decalogo che si trova fra pp. 105 e 122, e che costituisce poco meno di un programma politico: un programma politico di governo, sottolineo, e non di opposizione alla Fiat iustitia, pereat mundus (per Beniamino: non è la pubblicità di un’utilitaria), perché con tutto il mio disgusto per la dirigenza del Pd io non mi sono mai rassegnato all’idea che la sinistra non possa o non debba governare. Per carità, nel decalogo di Vitale non c’è nulla di inaudito, molto si trova in autori come Tony Judt e Luciano Gallino, David Harvey e Pierfranco Pellizzetti: ma insomma, ce ne fossero.
Per non suscitare il legittimo sospetto che tutto ciò sia solo una sviolinata per Ermanno o peggio ancora il frutto di un complotto delle multinazionali per riprivatizzare il teatro Valle, come qualcuno infallibilmente denuncerà, non basta segnalare gli inevitabili difetti del libro: come quella frase sulle dure repliche della storia, ripetuta troppe volte e che personalmente ho sempre trovato odiosa. Non occorre neppure aggiungere che la letteratura sui beni comuni cresce ogni giorno: penso alla bella discussione fra Mattei e Pivetti, l’economista non la show girl, sull’ultimo numero di “Micromega”, al dibattito ospitato recentemente da “Notizie di Politeia”, alla voce omonima di Ulderico Pomarici in un manuale di filosofia del diritto fresco di stampa, ma anche – la pubblicità è l’anima del commercio – al numero di “Ragion pratica” curato da Giulio Itzcovich e dal sottoscritto in uscita a fine anno, nel quale Mattei certamente metterà con le spalle al muro i suoi critici, spero non per fucilarli.
Piuttosto, bisognerebbe dire che il mondo è finito, nel senso che non è infinito e che non disponiamo di un pianeta di riserva: sicché torna di stretta attualità il Lockean Proviso di Roberto Nozick, l’idea che il mondo non è indefinitamente appropriabile e che la sua appropriazione incontra sempre il limite che restino abbastanza risorse per chi dall’appropriazione è escluso. Su questo bisogna lavorare: non sulle mitologie di chi abita i promontori della storia, stranamente situati tutti nelle valli attorno a Torino, ma semmai su un costituzionalismo di diritto privato alla Ferrajoli; non sulle fiabe della decrescita felice propalate sul web, e destinate a scontrarsi con la realtà di nuove guerre fra poveri, ma su una critica anche economica dello sviluppo senza limiti, ultimo hurrà della vulgata neoliberista.
Mauro Barberis studioso di Teoria del diritto e Storia delle idee politiche, autore di una ventina di volumi scientifici come Libertà (1999), Etica per giuristi (2006) ed Europa del diritto (2008) e condirettore di riviste come “Materiali per una storia della cultura giuridica” e “Ragion pratica”.
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