1.
Uno di questi eventi ebbe luogo il 15 agosto del 1971, quando il
governo americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la
convertibilità del dollaro in oro era sospesa. Benché questa
dichiarazione segnasse di fatto la fine di un sistema che aveva
vincolato a lungo il valore della moneta a una base aurea, la notizia,
giunta nel pieno delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di
quanto fosse legittimo aspettarsi. Eppure, a partire da quel momento,
l’iscrizione che
tuttora si legge su molte banconote (per
esempio sulla sterlina e sulla rupia, ma non sull’euro): “Prometto di
pagare al portatore la somma di …” controfirmata dal governatore della
banca centrale, aveva definitivamente perduto il suo senso.
Questa frase
significava ora che, in cambio di quel biglietto, la banca centrale
avrebbe fornito a chi ne avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno
fosse stato così sciocco da richiederlo) non una certa quantità di oro
(per il dollaro, un trentacinquesimo di un’oncia), ma un biglietto
esattamente uguale. Il denaro si era svuotato di ogni valore che non
fosse puramente autoreferenziale. Tanto più stupefacente la facilità con
cui il gesto del sovrano americano, che equivaleva ad annullare il
patrimonio aureo dei possessori di denaro, fu accettato. E, se, come è
stato suggerito, l’esercizio della sovranità monetaria da parte di uno
Stato consiste nella sua capacità di indurre gli attori del mercato a
impiegare i suoi debiti come moneta, ora anche quel debito aveva perduto
ogni consistenza reale, era divenuto puramente cartaceo.
Il processo di smaterializzazione della moneta era cominciato molti
secoli prima, quando le esigenze del mercato indussero ad affiancare
alla moneta metallica, necessariamente scarsa e ingombrante, lettere di
cambio, banconote,
juros,
goldschmith’s notes,
eccetera. Tutte queste monete cartacee sono in realtà titoli di credito e
vengono dette, per questo, monete fiduciarie. La moneta metallica,
invece, valeva – o avrebbe dovuto valere – per il suo contenuto di
metallo pregiato (peraltro, com’è noto, insicuro: il caso limite è
quelle delle monete d’argento coniate da Federico II, che appena usate
lasciavano scorgere il rosso del rame). Tuttavia Schumpeter (che viveva,
è vero, in un’epoca in cui la moneta cartacea aveva ormai
sopraffatto
la moneta metallica) ha potuto affermare non senza ragione che, in
ultima analisi, tutto il denaro è solo credito. Dopo il 15 agosto 1971,
si dovrebbe aggiungere che il denaro è un credito che si fonda soltanto
su se stesso e che non corrisponde altro che a se stesso.
2.
Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti postumi di Benjamin.
Che
il socialismo fosse qualcosa come una religione, è stato notato più
volte (tra l’altro, da Schmitt: “Il socialismo pretende di dar vita a
una nuova religione che per gli uomini del XIX e XX secolo ebbe lo
stesso significato del cristianesimo per gli uomini di due millenni
fa”). Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in
Weber, una secolarizzazione della fede protestante, ma è esso stesso
essenzialmente un fenomeno religioso, che si sviluppa in modo
parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come religione
della modernità, esso è definito da tre caratteri: 1. è una religione
cultuale, forse la più estrema e assoluta che sia mai esistita. Tutto in
essa ha significato solo in riferimento al compimento di un culto, non
rispetto a un dogma o a un’idea. 2. Questo culto è permanente, è “la
celebrazione di un culto sans trève et sans merci”. Non è possibile,
qui, distinguere tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma vi è un
unico, ininterrotto giorno di festa-lavoro, in cui il lavoro coincide
con la celebrazione del culto. 3. Il culto capitalista non è diretto
alla redenzione o all’espiazione di una colpa, ma alla colpa stessa. “Il
capitalismo è forse l’unico caso di un culto non espiante, ma
colpevolizzante… Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce
redenzione si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua
colpa, ma per renderla universale… e per catturare alla fine Dio stesso
nella colpa… Dio non è morto, ma è stato incorporato nel destino
dell’uomo”.
Proprio perché tende con tutte le sue forze non alla
redenzione, ma alla colpa, non alla speranza, ma alla disperazione, il
capitalismo come religione non mira alla trasformazione del mondo, ma
alla sua distruzione. E il suo dominio è nel nostro tempo così totale,
che anche i tre grandi profeti della modernità (Nietzsche, Marx e Freud)
cospirano, secondo Benjamin, con esso, sono solidali, in qualche modo,
con la religione della disperazione. “Questo passaggio del pianeta uomo
attraverso la casa della disperazione nell’assoluta solitudine del suo
percorso è l’ethos che definisce Nietzsche. Quest’uomo è il Superuomo,
cioè il primo uomo che comincia consapevolmente a realizzare la
religione capitalista”. Ma anche la teoria freudiana appartiene al
sacerdozio del culto capitalista: “Il rimosso, la rappresentazione
peccaminosa… è il capitale, su cui l’inferno dell’inconscio paga gli
interessi”. E, in Marx, il capitalismo “con gli interessi semplici e
composti, che sono funzione della colpa… si trasforma immediatamente in
socialismo”.
3.
Proviamo a prendere sul serio e a
svolgere l’ipotesi di Benjamin. Se il capitalismo è una religione, come
possiamo definirlo in termini di fede? In che cosa crede il capitalismo?
E che cosa implica, rispetto a questa fede, la decisione di Nixon?
David
Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – esiste anche
una disciplina con questo strano nome – stava lavorando sulla parola
pistis,
che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per “fede”. Quel
giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto,
alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé
Trapeza tes pisteos.
Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si
rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca:
trapeza tes pisteos significa in greco “banco di credito”. Ecco qual era il senso della parola
pistis, che stava cercando da mesi di capire:
pistis,
“fede” è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la
parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo. Per
questi Paolo può dire in una famosa definizione che “la fede è sostanza
di cose sperate”: essa è ciò che dà realtà e credito a ciò che non
esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo
messo in gioco il nostro credito e la nostra parola.
Creditum è
il participio passato del verbo latino
credere:
è ciò in cui crediamo, in cui mettiamo la nostra fede, nel momento in
cui stabiliamo una relazione fiduciaria con qualcuno prendendolo sotto
la nostra protezione o prestandogli del denaro, affidandoci alla sua
protezione o prendendo in prestito del denaro. Nella
pistis paolina
rivive, cioè, quell’antichissima istituzione indoeuropea che Benveniste
ha ricostruito, la “fedeltà personale”: “Colui che detiene la fides
messa in lui da un uomo tiene quest’uomo in suo potere… Nella sua forma
primitiva, questa relazione implica una reciprocità: mettere la propria
fides in qualcuno procurava, in cambio, la sua garanzia e il suo aiuto”.
Se
questo è vero, allora l’ipotesi di Benjamin di uno stretta relazione
fra capitalismo e cristianesimo riceve una conferma ulteriore: il
capitalismo è una religione interamente fondata sulla fede, è una
religione i cui adepti vivono
sola fide. E come, secondo
Benjamin, il capitalismo è una religione in cui il culto si è emancipato
da ogni oggetto e la colpa da ogni peccato e, quindi, da ogni possibile
redenzione, così, dal punto di vista della fede, il capitalismo non ha
alcun oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel puro credito
(believes in the pure belief) – cioè: nel denaro. Il capitalismo è,
cioè, una religione in cui la fede – il credito – si è sostituita a Dio:
detto altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è una
religione il cui Dio è il denaro.
Ciò significa che la banca, che non
è nient’altro che una macchina per fabbricare e gestire credito
(Braudel, 368), ha preso il posto della chiesa e, governando il credito,
manipola e gestisce la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il
nostro tempo ha ancora in se stesso.
4.
Che cosa ha
significato, per questa religione, la decisione di sospendere la
convertibilità in oro? Certamente qualcosa come una chiarificazione del
proprio contenuto teologico paragonabile alla distruzione mosaica del
vitello d’oro o alla fissazione di un dogma conciliare – in ogni caso,
un passo decisivo verso la purificazione e la cristallizzazione della
propria fede. Questa – nella forma del denaro e del credito – si
emancipa ora da ogni referente esterno, cancella il suo nesso idolatrico
con l’oro e si afferma nella sua assolutezza. Il credito è un essere
puramente immateriale, la più perfetta parodia di quella
pistis che non è che “sostanza di cose sperate”. La fede – così recitava la celebre definizione della
Lettera agli ebrei – è sostanza –
ousia,
termine tecnico per eccellenza dell’ontologia greca – delle cose
sperate. Quel che Paolo intende è che colui che ha fede, che ha messo la
sua
pistis in Cristo, prende la parola di Cristo come se fosse
la cosa, l’essere, la sostanza. Ma è proprio questo “come se” che la
parodia della religione capitalista cancella. Il denaro, la nuova
pistis,
è ora immediatamente e senza residui sostanza. Il carattere distruttivo
della religione capitalista, di cui Benjamin parlava, appare qui in
piena evidenza. La “cosa sperata” non c’è più, è stata annientata e deve
esserlo, perché il denaro è l’essenza stessa della cosa, la sua
ousia in
senso tecnico. E, in questo modo, viene tolto di mezzo l’ultimo
ostacolo alla creazione di un mercato della moneta, alla trasformazione
integrale del denaro in merce.
5.
Una società la
cui religione è il credito, che crede soltanto nel credito, è condannata
a vivere a credito. Robert Kurz ha illustrato la
trasformazione
del capitalismo ottocentesco, ancora fondato sulla solvenza e sulla
diffidenza rispetto al credito, nel capitalismo finanziario
contemporaneo. “Per il capitale privato ottocentesco, con i suoi
proprietari personali e con i relativi clan familiari, valevano ancora i
principi della rispettabilità e della solvenza, alla luce dei quali il
sempre maggior ricorso al credito appariva quasi come osceno, come
l’inizio della fine. La letteratura d’appendice dell’epoca è piena di
storie in cui grandi casate vanno in rovina a causa della loro
dipendenza dal credito: in alcuni passi dei
Buddenbrook, Thomas
Mann ne ha fatto addirittura un tema da premio Nobel. Il capitale
produttivo di interessi era naturalmente fin dall’inizio indispensabile
per il sistema che si stava formando, ma non aveva ancora una parte
decisiva nella riproduzione capitalistica complessiva. Gli affari del
capitale ‘fittizio’ erano considerati tipici di un ambiente di
imbroglioni e di gente disonesta, al margine del capitalismo vero e
proprio… Ancora Henry Ford ha rifiutato per parecchio tempo il ricorso
al credito bancario, ostinandosi a voler finanziare i suoi investimenti
solo con il proprio capitale” (R.Kurz,
La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Roma 1997, p.76-77;
Die Himmelfahrt des geldes, in “Krisis”, 16,17, 1995).
Nel corso del XIX secolo, questa concezione patriarcale si è completamente dissolta e il capitale aziendale fa oggi
ricorso
in misura crescente al capitale monetario, preso in prestito dal
sistema bancario. Ciò significa che le aziende, per poter continuare a
produrre, devono per così dire ipotecare anticipamente quantità sempre
maggiori del lavoro e della produzione futura. Il capitale produttore di
merci si alimenta fittiziamente del proprio futuro. La religione
capitalista, coerentemente alle tesi di Benjamin, vive di un continuo
indebitamento, che non può né deve essere estinto. Ma non sono soltanto
le aziende a vivere, in questo senso,
sola fide, a credito (o a
debito). Anche gli individui e le famiglie, che vi ricorrono in maniera
crescente, sono altrettanto religiosamente impegnati
in
questo continuo e generalizzato atto di fede sul futuro. E la Banca è il
sommo sacerdote che amministra ai fedeli l’unico sacramento della
religione capitalista: il credito-debito.
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