martedì 27 febbraio 2024

Rovesciare i rapporti di forza? Riappropriamoci intanto di un sapere critico, della capacità di leggere il presente senza subire la fascinazione del nemico di classe.

 

Il sindacato responsabile è fautore della nostra sconfitta culturale, politica e sociale. L’incapacità di leggere i processi in atto è, invece, risultato della subalternità ideologica e culturale al capitale.

futurasocieta.com Federico Giusti 

È singolare che siano stati proprio i governi di centrosinistra a introdurre le normative più involutive in materia di lavoro, singolare fino a un certo punto, semmai la conferma degli interessi materiali rappresentati dal Partito democratico la cui nascita andrebbe letta non come fatto accidentale o risultato dei processi di democratizzazione delle realtà comuniste. Dopo anni di compromessi storici, ombrelli della Nato e capitalismo dal volto umano nelle sembianze cooperative, la presenza di un Partito comunista era solo impedimento per la svolta liberalista della sinistra italiana. Dalla fine degli anni Ottanta ai nostri giorni i rapporti di forza tra capitale e lavoro sono profondamente cambiati, i salariati hanno perso potere di acquisto e di contrattazione, il capitale ha acquisito crescente forza, il sindacato sperava nella concertazione mentre andava trasformandosi da strumento conflittuale a un vasto agglomerato di interessi come dimostrato da Caf, patronati, assicurazioni, pensioni e sanità integrative.

Sul finire degli anni Ottanta, insieme al dio mercato, ha acquistato spazio e potere un insieme di concetti e di pratiche sociali e produttive elevate nel tempo al rango di un pensiero forte e dominante. Stiamo parlando di meritocrazia, produttività, flessibilità, precarizzazione del lavoro.

Il rapporto tra flessibilità e precariato, tra delocalizzazioni produttive e bassi salari dovrebbe indurci a rivedere anche il tradizionale linguaggio ormai introiettato dalla classe lavoratrice, capita sovente imbatterci in sindacalisti subalterni alla meritocrazia e all’idea che a governare il salario debbano essere i parametri imposti dalla produttività. 

Per anni, la sinistra ha raccontato ai lavoratori che la Costituzione avrebbe impedito la distruzione dello Stato sociale e la partecipazione alle guerre, e sarebbe stata un ostacolo insormontabile per le politiche antioperaie.

La storia dimostra, invece, l’esatto contrario, anzi oggi a sinistra troviamo i fautori dell’autonomia differenziata come ieri erano sostenitori del pareggio di bilancio in Costituzione.

Anche i famosi giuslavoristi di sinistra, nel tempo, si sono dimostrati delle tigri di carta finendo spesso sul libro paga di governi e fondazioni padronali o hanno offerto direttamente al capitale i loro servigi trasformando la critica ai processi in atto in cieca obbedienza o prassi giustificatrice.

In questi scenari la nascita della Ue ha giocato un ruolo determinante di cui non si è mai parlato a sufficienza preferendo assumere posizioni, spesso astratte, a favore o contro la moneta unica senza mai prendere in esame l’impianto generale dell’Unione Europea, delle scelte operate dalla stessa in ambito economico e finanziario.

Sono lontani i tempi nei quali ci si opponeva, correva l’anno 1997, contro il c.d. pacchetto Treu (legge delega n. 196/1997) che dette il via al lavoro interinale e alla collaborazione coordinata e continuativa. 

A distanza di quasi 40 anni dal divieto di intermediazione nel mercato del lavoro, agli albori degli anni Sessanta del secolo scorso, quella battaglia storica del movimento sindacale veniva archiviata in un batter d’occhio.

Poi è arrivato il decreto legislativo n. 368/2001 con la liberalizzazione del contratto a termine, questa volta una decisione comunitaria recepita da un governo di centrodestra, stesso esecutivo che nel 2003 darà vita alla legge Biagi, il decreto legislativo n. 276/2003, dilatando definitivamente i confini della precarietà ma allo stesso tempo riducendo gli spazi di manovra per l’impugnazione di contratti a termine nei cambi di appalto.

Non vogliamo fare la storia di 30 anni di controriforme ma serve almeno ricordare la revisione dello Statuto dei lavoratori, la fine della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, anno 2012 con il governo Monti che licenzia anche la legge (Fornero) con cui viene innalzata l’età pensionabile. 

Forse, il colpo decisivo viene assegnato nel 2015 con il Jobs Act (d.lgs. n. 81/2015) che annovera tra le sue novità anche il famigerato addebito delle spese legali in caso di soccombenza in giudizio del lavoratore, insomma se fai causa e la perdi vieni condannato al pagamento delle spese legali e in questo modo vengono scoraggiati i ricorsi.

Questo breve excursus sugli ultimi 30 anni deve aiutarci a prendere consapevolezza che i processi di ristrutturazione sono lunghi ma tra loro in perfetta armonia e continuità.

Senza l’interinale non avremmo avuto le norme della precarietà contenute nella legge Biagi, senza la fine della scala mobile non sarebbero arrivati i successivi e ulteriori attacchi al salario e al potere di acquisto, senza la concertazione il sindacato non si sarebbe trasformato in strumento lontano anni luce dal conflitto nei luoghi di lavoro e nella società.

Il legislatore aveva idee molto chiare al contrario della classe lavoratrice e di quanti l’hanno rappresentata in ambito sindacale e politico, il susseguirsi delle controriforme definisce il piano strategico del capitale contro i salariati; alla fine, ci ritroviamo attaccati da ogni parte avendo perso tutele collettive, diritti sociali, salario, potere di acquisto e di contrattazione, lavorando più del passato anche se in prospettiva percepiremo pensioni da fame.

Riconquistare consapevolezza e coscienza non è un esercizio astratto o teorico, a forza di cedimenti culturali e sindacali siamo arrivati all’attuale condizione di arretratezza e subalternità, non percepiamo neanche la pericolosità del linguaggio assunto dal nemico di classe ogni qual volta parla di meritocrazia e produttività. 

Ma, oltre alla consapevolezza, abbiamo urgenza di rivedere il fatidico rapporto tra teoria e prassi: se il sindacato si riduce a rivendicazioni astratte e non a percorsi conflittuali, viene meno al suo compito storico e il sindacato di cui parliamo non potrà essere quello che ha barattato la rappresentanza e la rappresentatività con la débâcle assoluta dei salariati.

Riappropriamoci, allora, delle nostre intelligenze e forze collettive, facciamolo prima che sia troppo tardi perché il tempo perduto a colpi di controriforme in materia di welfare e lavoro non ci verrà restituito, anzi, gioca come premessa per ulteriori e future iniziative che mirano direttamente a distruggere le residue conquiste del dopoguerra.

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