mercoledì 28 febbraio 2024

«I manganelli sono l’inizio dei regimi». Intervista a Gustavo Zagrebelsky

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«Questo proliferare di cariche e manganelli, questo clima di repressione per ora tiepida, diffondono un senso di insicurezza. Alle mie figlie e nipoti, se avessero l’età di quei ragazzi di Pisa, sentirei la responsabilità di dire di pensarci due volte prima di scendere in strada. Ma così si comprime un diritto, si diffonde una cattiva aria. Il diritto a manifestare è il primo ad essere colpito nei regimi autoritari. In Russia, in Afghanistan, in Iran, in certi regimi islamici, nei Paesi golpisti del Sud America, la prima repressione si fa nelle strade». Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Consulta, è molto colpito dalle scene di violenza sugli studenti toscani.

«Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento», ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

«Un intervento non consueto. Non ricordo un precedente tanto netto, un tanto chiaro richiamo ai principi della convivenza civile e ai principi costituzionali. Non è un caso di moral suasion, è una presa di posizione ufficiale che, per quel che vale, ha la mia condivisione totale. Mi ha inquietato che abbia dovuto intervenire il presidente della Repubblica».

Si riferisce al silenzio della presidente del Consiglio Meloni?

«Mi sarei aspettato che le prime reazioni indirizzate a ricordare i limiti e la funzione della polizia, venissero dal governo, responsabile della corretta gestione dell’ordine pubblico. Dalla presidente del Consiglio e dai due ministri più strettamente coinvolti, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi».

Piantedosi, nell’occhio del ciclone, rivendica di dover mantenere l’ordine pubblico, sua competenza.

«Competenza e responsabilità. Ma quale ordine pubblico? Una cosa è l’ordine pubblico dei regimi autoritari, che è l’ordine nelle strade. Altra cosa è l’ordine pubblico nella Costituzione, che non è repressione ma garanzia dell’ordinato sviluppo delle libertà costituzionali. Brutto segno che abbia dovuto ricordarglielo il presidente della Repubblica. Mi pare che vari ministri non conoscano la Costituzione e neanche certi prefetti e questori, e spesso neanche i giornalisti che parlano di manifestazioni non autorizzate».

Sta sostenendo che a prevalere è la libertà di scendere in piazza?

«L’articolo 17 della Costituzione dice che tutti i cittadini hanno il diritto di riunirsi, a condizione che la riunione sia pacifica e senz’armi. È sotto il fascismo che occorreva l’autorizzazione dell’autorità pubblica: l’esercizio dei diritti allora era subordinato al beneplacito del governo. La nostra Costituzione non prevede alcuna autorizzazione: delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato semplicemente un preavviso alle autorità. Il preavviso non è la richiesta di un’autorizzazione. Il principio è il diritto, l’eccezione è il divieto che può essere disposto eccezionalmente solo con provvedimento motivato in relazione a “comprovati” motivi di sicurezza o incolumità pubblica».

Il ministro dell’Interno fa sapere che la polizia voleva proteggere la sinagoga a Pisa e il consolato Usa a Firenze, luoghi sensibili. Non è un argomento valido?

«Luogo sensibile può essere qualsiasi cosa, una strada, un cimitero, un’ambasciata, una sede di partito o di sindacato. Ci sono naturalmente luoghi in certe circostanze storiche più esposti alla violenza, come lo sono in questo momento quelli evocativi del conflitto in Medio Oriente. Ma in questi casi si giustifica non il divieto della manifestazione, bensì la disciplina, anche rigorosa, delle modalità di svolgimento: gli organizzatori devono dare un preavviso, che serve all’autorità per predisporre le misure necessarie all’esercizio pacifico del diritto a manifestare. Solo quando ciò non è possibile si può disporre il divieto».

E se gli organizzatori non danno il necessario preavviso?

«La violazione dell’obbligo di preavviso comporta sanzioni soltanto a carico dei promotori e non anche di chi partecipi pacificamente alla manifestazione. Tale partecipazione — cito una sentenza della Corte costituzionale, la n. 90 del 1970 — “si risolve nel concreto esercizio di un diritto costituzionalmente protetto”. E invece non solo questi ragazzi hanno incontrato un abuso del diritto da parte dello Stato, ma sono incorsi direttamente nella sanzione di una manganellata. È stato un episodio poliziesco. L’autorità di pubblica sicurezza non è lì per reprimere ma per garantire l’esercizio di quello che è un diritto, fino a quando in concreto, non ipoteticamente, non trasbordi in violenza».

Come si spiega dunque quelle manganellate agli studenti?

«Non ne capisco la ragione, se non in termini di intimidazione. Finora per nostra fortuna non c’è stato alcun episodio che abbia provocato ferite gravi o addirittura mortali. Ma questa violenza per ora tiepida, ma che può surriscaldarsi, diffonde un senso di inquietudine e insicurezza. Non voglio fare fastidiose citazioni. Ma un grande saggio del passato ha detto che la libertà consiste precisamente nella sicurezza dei propri diritti».

La sicurezza dei diritti è compressa anche dalle identificazioni? Con la polizia che chiede i documenti al loggionista antifascista della Scala o a chi depone fiori per Navalny.

«In sé per sé, l’identificazione può essere un’utile misura di prevenzione e repressione dei reati. Ma diventa un problema quando è ‘mirata’ e suscita il sospetto che serva ad altri fini».

Piantedosi obietta: anche io sono stato identificato.

«Sembra che dica ‘che male c’è?’ Ma, l’identificazione non finisce mica lì. Chi viene identificato è schedato, incasellato in un rapporto di polizia. E la schedatura, che si può fare intercettando le telefonate o controllando gli spostamenti e la partecipazione a manifestazioni pubbliche, accresce, insieme alle manganellate, il clima di apatia che sempre piace a tutti i regimi illiberali».

Insomma, le ragioni di ordine pubblico servono a giustificare la limitazione del dissenso?

«Rendono difficile ciò che la Costituzione vorrebbe fosse facile. E in questo senso si può parlare di limitazione».

Siamo su un crinale pericoloso?

«La domanda che è lecito porsi è: quel che accade è un rigurgito di cose del passato o il preludio a qualcosa del futuro? Nessuno di noi è profeta, ma ciascuno di noi ha la sua parte di responsabilità nei confronti del futuro. Se questi episodi si ripeteranno e se si è in quella parte del popolo italiano, io penso maggioritaria, che vuole evitare di imboccare la strada di involuzioni autoritarie, è buona cosa che ci si mobiliti. Manifestare per poter manifestare. Mi pare che qualcosa stia già accadendo».

Salvini le risponderebbe: “Noi stiamo con i poliziotti”.

«È inquietante il ‘sempre e comunque’ che accompagna queste professioni di fede. Tutti siamo con la polizia quando difende i diritti costituzionali ma, nello stato democratico, esiste la necessità di controllare chi esercita poteri di qualunque tipo essi siano. ‘Sempre e comunque’ ciecamente con qualcuno, mai».

È ancora convinto che la riforma del premierato di Meloni voglia portarci verso il modello Orbán?

«Quella riforma costituzionalizzerebbe un’idea di democrazia del vincitore e del vinto. Il vincitore si può facilmente considerare abilitato a usare tutti gli strumenti della vittoria. Quale più classico del manganello?»

L’articolo è tratto da la Repubblica del 26 febbraio

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