giovedì 29 febbraio 2024

La fiducia nelle istituzioni e i dividendi di guerra

‘La morte dell’Occidente non ci ha privato proprio di nulla di vivo e essenziale e la nostalgia è quindi fuori questione.’ (Giorgio Agamben)

 

Fabio Vighi – lafionda.org

Anche se quasi nessuno lo vuole ammettere, il nostro “sistema” è obsoleto, e per questo si sta trasformando in “sistema chiuso”, ovvero totalitario. È altrettanto evidente che i pochi che continuano a trarre vantaggio materiale dal sistema capitalistico – il famigerato 0,1% – sono disposti a tutto pur di prolungarne l’obsoleta esistenza. Alla radice, il capitalismo contemporaneo funziona in modo molto semplice: si emette debito da una porta e lo si riacquista da un’altra grazie all’emissione di nuovo debito; un loop all’apparenza inattaccabile da cui origina la maggior parte dei fenomeni distruttivi con cui ci troviamo a convivere.

Gli esecutori del meccanismo sono una classe di funzionari-profittatori il cui principale tratto psicologico è la psicopatia. Sono talmente devoti al meccanismo da esserne diventati delle estensioni – come automi, lavorano indefessamente per il meccanismo, senza rimorso alcuno per la devastazione di vita umana che dispensa.

La dimensione psicopatica (disinibita, manipolatoria, e criminosamente antisociale) non è però una prerogativa esclusiva della cricca finanziaria transnazionale, ma si estende a macchia d’olio sia sulla casta politico-istituzionale (dai vertici dei governi agli amministratori locali), che sull’apparato cosiddetto intellettuale (esperti, giornalisti, scrittori, filosofi, artisti, nani e ballerine). In altre parole, la mediazione politico-culturale della realtà è oggi interamente mediata dal meccanismo stesso. Chi entra nel sistema non solo deve aprioristicamente accettarne le regole ma, ipso facto, ne assume lo specifico carattere psicopatologico. Così, la folle oggettività capitalistica (il suo spietato congegno riproduttivo) diventa indistinguibile dal soggetto che lo rappresenta.

Proprio in virtù del disturbo della personalità che li contraddistingue, i tecnocrati tendono a sovrastimare la loro capacità di imporre un sistema chiuso e autosufficiente che possa esorcizzare il tramonto della socializzazione capitalistica. La tragica farsa pandemica prima, e ora il vento gelido del warfare permanente, mettono a dura prova la fiducia incondizionata del cittadino medio nelle care vecchie istituzioni rappresentative. Se è stato relativamente facile silenziare dubbi e dissenso a colpi di “lockdown umanitari” e DPCM – grazie ai quali la classe politica più opportunistica della storia moderna si è rifatta una breve verginità – la complicità nel genocidio di Gaza e, in contemporanea, l’affannosa costruzione neomaccartista del “fronte democratico contro il mostro russo”, con annessa corsa al riarmo, cominciano a minare le certezze della silent majority. ‘Produrre armi come i vaccini!’ tuona ora Ursula von der Leyen (involontariamente dicendo il vero sulla funzione di entrambi); mentre a Fantozzi comincia a salire un leggerissimo sospetto.

Nel nuovo totalitarismo in fieri, la realtà non entra nei giornali o in televisione. Prende il suo posto l’iperreale teorizzato da Jean Baudrillard, che non è né reale né finzione, ma il contenitore narrativo che ha sostituito entrambi. Così la pulizia etnica di Gaza avanza a pieno regime nell’iperreale di accorati distinguo e telegeniche perorazioni contro tutti gli estremismi, per poi defluire nelle balle spaziali dell’imminente cyberattacco nucleare russo, condite in salsa piccante dall’omicidio politico del dissidente (xenofobo e ultranazionalista) Alexej Navalny. Senza fare un plissé, chi accusa di complottismo diventa complottista. La centrifuga di informazioni e intrattenimento induce un’ipnosi collettiva che si rivela più efficace della tradizionale censura, poiché elimina ex ante la richiesta di un referente reale, con il suo portato di radicale ambiguità.

L’iper-mediazione del mondo, in altri termini, ambisce a costituirsi come unico mondo di riferimento. Gli eventi narrati dai media corporativi non vengono più pensati come altro dalla narrazione, perché, nel capovolgimento iperreale, è la narrazione stessa che pensa il soggetto. Così l’informazione massmediatica s’impone come infinito spettacolo autoreferenziale che mira a sterilizzare ogni pensiero critico. Il dibattito ufficiale su Gaza o Ucraina, per esempio, si trasforma in dibattito sul dibattito stesso, gestito da schemi binari confezionati a monte (democrazia/terrorismo, ecc.). Questa tendenza a liquidare il referente dev’essere intesa in senso etimologico come tendenza a renderlo liquido. Essa si è imposta, storicamente, come conseguenza di un processo di virtualizzazione economica basato sulla sostituzione della profittabilità del lavoro salariato (valorizzazione reale) con la profittabilità simulata del capitale speculativo.

Viviamo in un mondo in cui i listini dei mercati azionari di Giappone e Regno Unito raggiungono i massimi storici in concomitanza con l’entrata in recessione ufficiale delle loro economie; mentre gli Stati Uniti salvano le apparenze grazie a un debito monstre protetto dall’egemonia monetaria del dollaro quale riserva globale. Al netto dell’inevitabile tonfo o drastica correzione prossimi venturi, il grande party (con pochi invitati) dei mercati è frutto di giochi di prestigio degni del mago Otelma. È su questo falsopiano che dovremmo collocare l’attuale euforia bellica. Il collasso delle società del lavoro occidentali fa sì che la produzione militare per “impegni di sicurezza a lungo termine” sia ormai supporto imprescindibile di PIL sempre più mosci. Il 64% dei 60.7 miliardi di dollari destinati all’Ucraina nell’ultimo pacchetto di aiuti, per esempio, verranno assorbiti dall’industria militare USA. La fonte non è la TASS ma il Wall Street Journal, che sottolinea inoltre come dall’inizio del conflitto russo-ucraino la produzione industriale statunitense nel settore della difesa sia aumentata del 17,5%.

Ma, soprattutto, l’eccitazione tecno-militar-industriale continua a soffiare nelle vele di un settore finanziario palesemente ipertrofico, gonfiato a dismisura dell’AI mania dell’ultima ora – la frenesia speculativa nel campo dell’intelligenza artificiale. L’attuale bolla dell’S&P 500 (indice che traccia l’andamento delle azioni di 500 tra le più grandi società quotate nelle borse statunitensi) è frutto dalla sopravvalutazione isterica di un pugno di potentati tech, le cosiddette Magnificent Seven (Alphabet, Amazon, Apple, Meta, Microsoft, Nvidia e Tesla; oggi peraltro ridotte a “magnifiche due”, Nvidia e Meta). Questo forte squilibrio ricorda da vicino la bolla tecnologica di fine secolo scorso, quando l’entusiasmo legato all’avvento di internet portò alla sopravvalutazione di Microsoft, Cisco, Amazon, eBay, Qualcomm ecc. Se è vero che queste aziende salvarono la pelle, moltissime start-up furono spazzate via dall’esplosione della bolla dot.com. In breve, il mondo clamorosamente sollevato dalla leva dell’intelligenza artificiale (poco intelligente perché poco artificiale, diceva Baudrillard) farebbe meglio a prepararsi a un botto altrettanto clamoroso.

Teniamo presente che il rischio oggi è infinitamente più alto rispetto a venticinque anni fa. Nel frattempo, infatti, siamo entrati a tutti gli effetti in un contesto globale che è ostaggio della creazione di liquidità dal nulla (e relativi capri espiatori), finalizzata a rifinanziare la massa di debito in essere su cui si reggono deficit statali e bolle speculative popolate da miriadi di aziende zombie. Un crollo dell’azionario di circa l’80%, come quello del dot.com a fine 2000, equivarrebbe ora a una raffica di esplosioni atomiche, metaforiche e non solo. Perché la psicopatia bellica targata USA-NATO-UE è, in ultima istanza, un’estensione della psicopatia finanziaria: la conseguenza reale di un rischio speculativo ormai fuori controllo. Bombe e cannoni sono il cerbero messo a guardia di un capitalismo che nella sua accezione tradizionale, cui ancora tendiamo ingenuamente a far fede (il fantastico mondo del lavoro, del consumo, della crescita, e del progresso), è morto e giace sepolto da almeno un paio di decenni.

Ecco allora che l’obiettivo non dichiarato degli USA (e vassalli) è mantenere l’egemonia militare sia in quanto spina dorsale di quella monetaria (dollaro come riserva globale) che a protezione di un ammasso di debito tossico già virtualmente insostenibile. In questo senso non stupisce affatto che il primo ministro estone, Kaja Kallas, invochi per l’UE la medesima strategia monetaria attuata durante il Covid: l’emissione di 100 miliardi in eurobond (rispetto ai 750 mobilitati per il Coronabond) al fine di rilanciare l’industria militare europea in attesa delle invasioni barbariche. Fare debito per fronteggiare “emergenze apocalittiche,” debitamente impacchettate dai media, è il modello economico da ultima spiaggia del capitalismo di crisi. Il limite interno (collasso del modo di produzione) viene subdolamente denegato attraverso la sua proiezione esterna, incarnata da provvidenziali nemici assetati di sangue democratico. Il war bond, insomma, fa da baluardo fiscale a un “mondo” in piena fase implosiva.

La corsa al finanziamento per il riarmo è iniziata un po’ ovunque. In Gran Bretagna il generale Patrick Sanders, capo dell’esercito di Sua Maestà, invoca un massiccio reclutamento di cittadini da mandare al fronte (ovviamente russo), mentre il nuovo ministro della Difesa, Grant Schapps, non prova neppure a dissimulare l’opportunismo economico legato all’impegno militare:

L’era dei dividendi di pace è finita. Tra cinque anni potremmo trovarci davanti a numerosi teatri di guerra in Russia, Cina, Iran e Corea del Nord. […] Per prima cosa, dobbiamo rendere la nostra industria più resiliente affinché ci permetta di riarmarci, rifornirci e innovare più rapidamente dei nostri nemici. Qui c’è un’enorme opportunità per l’industria britannica. Il Regno Unito è da tempo sinonimo di tecnologie pionieristiche. Abbiamo dato al mondo il radar, il motore a reazione e il world wide web. Non abbiamo perso quella scintilla creativa. Al contrario, oggi il Regno Unito è una delle sole tre economie tecnologiche da mille miliardi di dollari. Ma immaginate cosa potremmo fare se riuscissimo a sfruttare meglio quell’ispirazione, ingegnosità e creatività latenti, per la difesa della nostra nazione?’

Istruiti a puntino come ai tempi del Covid, i tecnocrati EU leggono dallo stesso copione. Come i bambini all’asilo ripetono all’unisono la filastrocca del ‘prepariamoci alla guerra.’ Se GermaniaPolonia e paesi baltici hanno alacremente accelerato la propaganda bellica, persino in Austria (paese fuori dalla NATO) e Svezia (tradizionalmente neutrale) la politica vuole mettere l’elmetto ai cittadini. E per non sentirsi da meno, il ministro Guido Crosetto fa sapere che occorre predisporre un esercito di 10mila riservisti.

La crociata antirussa ci proietta dunque in un’epoca caratterizzata da crescente indebitamento militare per il monopolio sulla violenza nei teatri di guerra che, proprio perché legati alla deriva economico-finanziaria, non devono mai venir meno (come disse Julian Assange nel 2011 in riferimento alla guerra in Afghanistan, ‘l’obiettivo è una guerra senza fine, non una guerra di successo’). Ciò comporta decadenza socioeconomica e culturale, intensificazione del controllo dell’informazione, repressione del dissenso, e manipolazione coercitiva delle plebi impoverite. Plebi, per giunta, costrette a sorbirsi l’esibizione cabarettistica di un ex comico ora “leader della resistenza” che gira mezzo mondo mendicando armi e denaro per spedire al macello una generazione di compatrioti. Ma saremmo degli illusi, oltre che degli idioti, a credere di poter comodamente assistere alla tragicomica messinscena del “nobile impegno militare” come se fosse una serie Netflix, magari lavandoci la coscienza con qualche generico slogan pacifista. Perché più il modello del capitalismo finanziario vacilla, più chi continua a spremerlo non esiterà a sacrificare sotto “bombe giuste” non solo i “dannati della terra e i forzati della fame” di cui scriveva Franz Fanon (popolazioni, come quella palestinese, da tempo relegate a condizione di subumana miseria e sopruso); ma anche i placidi abitanti del mondo di sopra, di cui i potenti hanno una considerazione pari a quella di una mandria di bovini pascolanti con lo smartphone a un dito dal naso.

Per chi insiste a rovistare tra i bidoni di spazzatura in cui è stata esiliata la realtà, unire i puntini diventa un giochetto da ragazzi. L’“all’armi!” permanente (contro Virus, Putin, Hamas, Houti, Iran, alieni, e tutti i cattivi a venire) funziona da disperato oltreché criminale parafulmine per una logica economica fallimentare in balia della propria degenerazione finanziaria; che a sua volta dipende da incessanti somministrazioni di credito partorito dai computer delle Banche Centrali. La drammaturgia emergenziale dev’essere continuamente rilanciata, pena l’esplosione del pallone aerostatico su cui viaggia la logora e sempre più incivile civiltà del profitto. Perché la profittabilità del casinò finanziario, che ha sostituito la profittabilità del lavoro di massa, è in perenne debito d’ossigeno – e questo è il punto dirimente. Chi ancora non ha rinunciato a pensare sa che l’allarme, quello vero, è suonato da tempo.

Finito il metadone monetario garantito dalla psico-pandemia, i nodi stanno nuovamente arrivando al pettine. Gli equilibrismi di politica monetaria (relativi ai tassi di interesse) dei banchieri centrali rischiano un tragicomico flop, specie se, come sembra, a metà marzo verrà meno il combinato di reverse repo della Fed (che drena liquidità e funge da indicatore primario delle riserve bancarie complessive) e il BTFP (Bank Term Funding Program, programma di prestiti emergenziali creato dalla banca centrale USA nel marzo 2023 per far fronte alla crisi bancaria innescata dal fallimento di Silicon Valley Bank). Come nel settembre 2019, a rischiare il bagno di sangue sarebbero in primis i mercati del debito. Qui è d’obbligo far notare che i prestiti delle banche tradizionali allo shadow banking system (il sistema finanziario ombra, poco regolamentato e frequentato da fondi pensione, assicurazioni, hedge funds, asset manager, ecc.) ha recentemente superato la soglia record del trilione di dollari. Le società “a leva finanziaria”, destinatarie dei prestiti, li investono sotto forma di credito a soggetti sempre più rischiosi. Questo aumento del leverage nel sistema ombra, già al centro della crisi del 2008, è, evidentemente, indice di crescente volatilità sistemica. Secondo i dati del Financial Stability Board (Autorità di Vigilanza USA) a oggi gli attivi dello shadow banking sono pari a 218 trilioni di dollari, circa il 50% degli asset finanziari globali. Si tratta principalmente di cartolarizzazioni ad alta leva finanziaria e pronti contro termine (repo). Come anticipato, l’essenza dell’odierno sistema finanziario è proprio la catena di debito strutturato in altro debito: una fuga in avanti di speculazioni a base debitoria prive di sottostante reale. La fragilità di questo meccanismo è intrinseca, perché basta l’insolvenza di un player per far crollare l’intera piramide, innescando poi un contagio su larga scala. Per questo motivo il castello di carta (costruito su una pozza di benzina) è perennemente assetato di liquidità. Ecco allora che la profezia viene facile: in un contesto già dominato da un QT (riduzione del bilancio della banca centrale) sostanzialmente fasullo, perché reso possibile da programmi emergenziali a termine come il BTFT, la Fed (e consorelle) avrà presto bisogno di nuove grandi emergenze per tagliare i tassi d’interesse e iniettare liquidità fresca di conio nel sistema che le gravita attorno.

È interessante osservare come le istituzioni governative occidentali, anche quando aspramente criticate per scarsa propensione deontologica, vengano raffigurate dai media come in un quadro dell’alto medioevo: senza contesto. Esistono eo ipso, in una sorta di cornice metafisica autoreferenziale che le immunizza dal rapporto con la realtà. Se singolarmente i politici possono essere esposti al pubblico ludibrio, l’istituzione in quanto tale (teoricamente preposta allo svolgimento di compiti di interesse pubblico) è intoccabile, essendo manifestazione del vertice assoluto nella scala dei “migliori mondi possibili”. Eppure, oggi basta collegare i proverbiali due neuroni per capire che il carattere quasi sacrale conferito all’istituzione liberal-democratica ha come unico scopo offuscare la sua totale dipendenza dai movimenti sussultori del capitale finanziario.     

La classe media occidentale è prigioniera del proprio passato, convinta che il capitalismo social-liberal-democratico del dopoguerra sia un modello di organizzazione sociale non solo fondamentalmente giusto, ma anche eterno e inscalfibile. Questa illusione ottica, che ha fin qui comportato una fiducia pressoché incondizionata nelle istituzioni (anche quando aspramente criticate), è comprensibile: la classe media occidentale, o aspirante tale (piccola borghesia, proletariato socialdemocratico, ecc.), è stata per qualche decennio oggetto delle più amorevoli attenzioni del grande capitale organizzato attorno al lavoro e al consumo di massa. I capitali privati hanno plasmato e insieme sfruttato un mondo del lavoro fabbricato sullo “standard ideale” (medio, appunto) del consumatore gratificato dal sogno dell’arrampicata sociale, che si è illuso di essere ontologicamente rilevante ma che in realtà è stato comprato da quattro lire peraltro insanguinate (perché il boom del dopoguerra fu figlio della “distruzione creativa” di due guerre mondiali). Ma il punto è che quel mondo – o, se si preferisce, l’illusione di quel mondo – è durato una trentina d’anni (e solo per l’Occidente), che sono il battito d’ali di un colibrì rispetto alla storia secolare di un modo di produzione che, per dirla con Marx, ‘viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro’.

La nebbia di guerra in cui ora ci siamo nuovamente persi nasconde alla vista il reale oggetto del contendere: non il nemico da combattere ma la dipendenza tossica dal pusher che mantiene in vita artificiale l’illusione madre di tutta la modernità: l’illusione, cioè, che il capitale (l’ossessione per il profitto come irragionevole “ragione di vita”) ingeneri spontaneamente un legame sociale civilizzatore. La civiltà cui mi riferisco è la stessa che oggi giustifica lo sterminio dei palestinesi; sterminio tanto più atroce quanto più conforme alla matrice razzistica di un “modello di sviluppo” che ha costruito i suoi nobili valori sulla distruzione di chi non vi si conforma – in specie, la figura del povero, che da sempre testimonia, con la sua dolorosa diversità, il fallimento della stessa socializzazione capitalistica. Le nostre nobili istituzioni sono quelle che, agendo come psicotici sicari per conto del grande capitale, partecipano allo sterminio degli “animali umani” palestinesi. È ancora possibile averne fiducia?

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