giovedì 1 febbraio 2024

Naomi Klein. Abbiamo uno strumento per fermare i crimini di guerra di Israele: il BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

Questa settimana, esattamente 15 anni fa, pubblicai un articolo su The Guardian. Iniziava così: 

 

 

“È ora. Da molto tempo. La miglior strategia per porre fine alla sempre più sanguinosa occupazione è che Israele diventi il bersaglio del tipo di movimento globale che ha posto termine all’apartheid in Sudafrica. Nel luglio 2005 una grande coalizione di organizzazioni palestinesi ha presentato un piano per fare proprio questo.

Hanno chiesto alle persone di coscienza in tutto il mondo di imporre un boicottaggio generale e mettere in atto iniziative di disinvestimento contro Israele simili a quelle applicate al Sudafrica dell’era dell’apartheid. Era nata la campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.”

Nel gennaio 2009 Israele scatenò una nuova fase sconvolgente di omicidi di massa nella Striscia di Gaza, denominando la sua feroce campagna di bombardamenti operazione “Piombo fuso”. Uccise 1.400 palestinesi in 22 giorni; il numero di vittime israeliane fu di 13.

Questa per me fu la goccia che fece traboccare il vaso, e dopo anni di reticenza mi espressi pubblicamente a favore dell’appello guidato dai palestinesi per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele, noto come BDS, finché non rispetterà le leggi internazionali e i principi universali dei diritti umani.

Nonostante il BDS avesse l’appoggio di più di 170 organizzazioni della società civile palestinese, a livello internazionale il movimento era ancora piccolo. Durante l’operazione Piombo fuso iniziò a cambiare, e vi aderì un crescente numero di associazioni studentesche e sindacati fuori dalla Palestina aderirono.

Però molti non lo fecero. Capivo perché questa tattica veniva percepita come problematica. C’è una lunga e penosa storia di attività economiche e istituzioni ebraiche prese di mira da antisemiti.

Gli esperti in comunicazione che fanno pressione a favore di Israele sanno utilizzare questo trauma come arma, quindi etichettano invariabilmente campagne intese a combattere le politiche discriminatorie e violente di Israele come attacchi di odio verso gli ebrei in quanto gruppo identitario.

Per vent’anni il timore diffuso che deriva da questa falsa equazione ha protetto Israele dal dover affrontare tutto il potenziale di un movimento BDS, e ora, mentre la Corte Internazionale di Giustizia può ascoltare la devastante raccolta di prove del Sudafrica sul fatto che Israele sta commettendo il crimine di genocidio a Gaza, è più che sufficiente.

Dal boicottaggio degli autobus al disinvestimento sui combustibili fossili, le tattiche BDS hanno una storia ben documentata come l’arma più efficace dell’arsenale non-violento. Accoglierle e utilizzarle in questo momento di svolta per l’umanità è un obbligo morale.

La responsabilità è particolarmente grave per quanti di noi i cui governi continuano ad aiutare attivamente Israele con armi letali, lucrosi accordi commerciali e veti alle Nazioni Unite. Come ci ricorda il BDS, non dobbiamo consentire che questi accordi fallimentari parlino per noi senza contrastarli.

Gruppi di consumatori organizzati hanno il potere di boicottare imprese che investono nelle colonie illegali o riforniscono Israele di armi. I sindacati possono spingere i loro fondi pensione a disinvestire da queste imprese. Governi locali possono selezionare i fornitori in base a criteri etici che vietano questi rapporti.

Come ci ricorda Omar Barghouti, uno dei fondatori e dirigenti del movimento BDS, “il più profondo obbligo etico in questi tempi è agire per porre fine alla complicità. Solo così possiamo realmente sperare di porre fine all’oppressione e alla violenza.

In questo modo il BDS merita di essere visto come la politica estera del popolo, o la diplomazia dal basso, e se questa è sufficientemente forte obbligherà finalmente i governi ad imporre sanzioni dall’alto, come il Sudafrica sta cercando di fare. Che è chiaramente l’unica forza che può far cambiare rotta a Israele.

Barghouti sottolinea che, proprio come alcuni sudafricani bianchi hanno appoggiato le campagne contro l’apartheid durante quella lunga lotta, gli ebrei israeliani che si oppongono alle sistematiche violazioni del diritto internazionale da parte del loro Paese sono benvenuti nel BDS.

Durante Piombo fuso un gruppo di circa 500 israeliani, molti dei quali importanti artisti e studiosi, fecero proprio questo, chiamando in seguito il loro gruppo Boicottaggio dall’interno.

Nel mio articolo del 2009 citavo la loro prima lettera per fare pressione, che chiedeva “l’adozione di immediate misure restrittive e sanzioni” contro il loro stesso Paese e faceva un parallelo diretto con la lotta sudafricana contro l’apartheid.

Il boicottaggio contro il Sudafrica è stato efficace,” sottolineavano, affermando che aveva contribuito a porre fine alla legalizzazione della discriminazione e ghettizzazione in quel Paese e aggiungendo: “Ma Israele è trattato con i guanti… Questo sostegno internazionale deve finire.”

Ciò era vero 15 anni fa; lo è in modo devastante oggi.

Il prezzo dell’impunità

Leggendo i documenti del BDS dalla metà alla fine degli anni 2000, sono rimasta molto colpita da quanto il contesto politico e umano si sia deteriorato. Negli anni successivi Israele ha costruito più muri, ha eretto più checkpoint, ha scatenato più coloni illegali e lanciato guerre molto più letali. Tutto è peggiorato: il veleno il livore, la rabbia, la convinzione di essere nel giusto, di aver ragione.

Chiaramente l’impunità, il senso di impenetrabilità e intangibilità che è alla base del modo in cui Israele tratta i palestinesi, non è una forza statica. Si comporta piuttosto come una fuoriuscita di petrolio: una volta rilasciata, filtra all’esterno, avvelenando tutto e tutti sul suo cammino. Si allarga e scende in profondità.

Da quando, nel luglio 2005, è stato scritto il primo appello per il BDS il numero di coloni che vivono illegalmente in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, è esploso, raggiungendo il numero stimato di 700.000, vicino a quello dei palestinesi espulsi nella Nakba del 1948.

Come gli avamposti coloniali si sono estesi, così ha fatto la violenza degli attacchi dei coloni contro i palestinesi, tutto ciò mentre l’ideologia della supremazia ebraica e persino il fascismo esplicito si sono posti al centro della cultura politica israeliana.

Quando ho scritto il mio primo articolo sul BDS l’opinione assolutamente predominante era che l’analogia con il Sudafrica fosse scorretta e che la parola “apartheid”, che veniva usata da giuristi, attivisti e organizzazioni per i diritti umani palestinesi, fosse inutilmente provocatoria.

Ora chiunque, da Humar Rights Watch ad Amnesty International, fino alla principale associazione israeliana per i diritti umani, B’Tselem, hanno fatto le loro attente analisi e sono arrivati alla inevitabile conclusione che apartheid è effettivamente il termine giuridico corretto per descrivere le condizioni sotto le quali israeliani e palestinesi conducono vite nettamente diseguali e segregate.

Persino Tamir Pardo, ex-capo dell’agenzia di intelligence, il Mossad, ha ammesso il problema: “Qui c’è uno stato di apartheid,” ha affermato a settembre. “In un territorio in cui due popoli sono giudicati con due sistemi legali diversi, c’è uno stato di apartheid.”

Oltretutto molti adesso comprendono che l’apartheid esiste non solo nei territori occupati, ma all’interno dei confini di Israele del 1948, una questione esposta in un importante rapporto del 2022 dalla coalizione di associazioni palestinesi per i diritti umani riunita da Al-Haq [ong palestinese, ndt.].

È difficile sostenere il contrario quando l’attuale governo israeliano di estrema destra è arrivato al potere con un accordo di coalizione che afferma: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le zone della Terra di Israele…la Galilea, il Negev, il Golan, Giudea e Samaria.” Quando regna l’impunità, tutto cambia e si muove, comprese le frontiere coloniali. Niente rimane statico.

Poi c’è Gaza. All’epoca il numero dei palestinesi uccisi nell’operazione Piombo fuso sembrava inimmaginabile. Abbiamo rapidamente imparato che non si trattava di un caso isolato.

Diede invece inizio a una nuova politica omicida a cui i comandanti militari israeliani si riferiscono con noncuranza come “tagliare l’erba”: ogni due anni c’è stata una nuova campagna di bombardamenti, con l’uccisione di centinaia di palestinesi o, nel caso dell’operazione Margine protettivo del 2014, più di 2.000, tra cui 526 minori.

Questi dati scioccarono di nuovo e scatenarono un’altra ondata di proteste. Non fu ancora sufficiente a porre fine all’impunità di Israele, che ha continuato ad essere protetto dal solido veto degli USA all’ONU, oltre che dal costante afflusso di armi.

Ancor più distruttivi della mancanza di sanzioni internazionali sono state le ricompense: negli ultimi anni, insieme a tutta questa impunità, Washington ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e poi vi ha spostato l’ambasciata. Ha anche mediato i cosiddetti accordi di Abramo, che hanno avviato intese di normalizzazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan e il Marocco.

È stato Donald Trump che ha iniziato a ricoprire Israele di questi ultimi regali a lungo cercati, ma il processo è continuato allo stesso modo con Joe Biden. Così, alla vigilia del 7 ottobre, Israele e Arabia Saudita stavano per firmare quello che è stato frivolmente acclamato come “l’accordo del secolo”.

Dov’erano i diritti e le aspirazioni dei palestinesi in tutti questi accordi? Assolutamente da nessuna parte. Perché l’altra cosa che è cambiata in questi anni di impunità è stata ogni scusa che Israele intendeva per tornare al tavolo dei negoziati.

L’evidente obiettivo è stato reprimere con la forza, insieme all’isolamento fisico e politico e alla frammentazione, il movimento dei palestinesi per l’autodeterminazione.

Sappiamo come sono andati a finire i successivi capitoli di questa storia. L’orripilante attacco di Hamas il 7 ottobre. La furibonda determinazione israeliana di sfruttare quei crimini per fare quello che alcuni importanti dirigenti del governo volevano fare comunque da molto tempo: spopolare Gaza dei palestinesi, che attualmente sembrano cercare di fare attraverso la combinazione di uccisioni dirette, demolizione massiccia di case (“domicidio”), la diffusione di fame, sete e malattie infettive e infine espulsioni di massa.

Sia chiaro: questo è il risultato di consentire a uno Stato di fare tutto quello che vuole, lasciare che l’impunità regni senza controllo per decenni, utilizzando i veri traumi collettivi patiti dal popolo ebraico come scusa senza fine e storia di copertura.

Un’impunità come questa non inghiottirà solo un Paese, ma ogni Paese con cui è alleato, l’intera architettura del diritto umanitario forgiato tra le fiammo dell’Olocausto nazista. Se lo consentiamo.

Un decennio di attacchi giudiziari contro il BDS

Il che pone un’altra questione che non è rimasta costante nel corso degli ultimi 20 anni: la crescente ossessione israeliana per reprimere il BDS, anche a costo di diritti politici faticosamente conquistati.

Nel 2009 c’erano molti argomenti di chi criticava il BDS sul perché fosse una cattiva idea. Alcuni temevano che il boicottaggio culturale e accademico avrebbe bloccato il necessario dialogo con i progressisti israeliani e che si sarebbe trasformato in censura. Altri sostenevano che misure punitive avrebbero creato una reazione e spostato Israele ancora più a destra.

Quindi, ripensandoci adesso, è sorprendente che queste discussioni iniziali siano sostanzialmente sparite dalla sfera pubblica, e non perché una parte abbia vinto il dibattito. Sono scomparse perché la stessa idea di discuterne è stata sostituita da una strategia totalizzante: utilizzare l’intimidazione giudiziaria e istituzionale per rendere impraticabili le tattiche del BDS e bloccare il movimento.

Secondo Palestine Legal [gruppo di difesa giudiziaria con sede a Chicago, ndt], che ha monitorato da vicino questa impennata, ad oggi negli Stati Uniti sono state istituite in totale 293 leggi anti-BDS in tutto il Paese, e sono state approvate in 38 Stati.

Spiega che alcune leggi prendono di mira i finanziamenti alle università, altre prevedono che chiunque vinca un appalto con uno Stato o lavori per esso firmi un contratto in cui si impegna a non boicottare Israele, e altre ancora “chiedono allo Stato di compilare liste nere pubbliche di organizzazioni che fanno boicottaggio a favore dei diritti dei palestinesi o appoggiano il BDS.

Nel contempo in Germania il sostegno ad ogni forma di BDS è sufficiente perché vengano revocati premi, tolti finanziamenti, spettacoli e conferenze vengano annullati (una cosa che ho potuto sperimentare di persona).

Non sorprende che questa strategia sia ancora più aggressiva all’interno di Israele. Nel 2011 il Paese ha emanato la legge per la Prevenzione dei Danni per lo Stato di Israele attraverso il Boicottaggio, stroncando efficacemente fin dai suoi inizi il nascente movimento “Boicottaggio dall’interno”.

Il centro legale Adalah, un’organizzazione che lavora per i diritti della minoranza araba in Israele, spiega che la legge “vieta la promozione pubblica del boicottaggio accademico, economico o culturale da parte di cittadini e organizzazioni israeliani contro istituzioni israeliane o contro le illegali colonie israeliane in Cisgiordania. Consente di presentare denunce giudiziarie contro chiunque chieda il boicottaggio.

Come le leggi a livello statale negli USA, “proibisce anche a una persona che sostenga il boicottaggio di partecipare a gare di appalto pubbliche.” Nel 2017 Israele ha iniziato a impedire l’ingresso in Israele ad attivisti del BDS; 20 associazioni internazionali, compresa la coraggiosa [organizzazione] contro la guerra Jewish Voice for Peace, sono state messe sulla cosiddetta lista nera BDS.

Nel contempo negli USA lobbisti a favore delle imprese energetiche e dei fabbricanti di armi stanno prendendo spunto dall’offensiva giudiziaria contro il BDS e propugnano leggi fotocopia per limitare campagne di disinvestimento rivolte ai loro clienti.

Ciò spiega perché sia così pericoloso consentire questo tipo di eccezione palestinese alla [libertà di] parola,” ha detto alla rivista Jewish Currents Meera Shah, importante avvocatessa che fa parte di Palestine Legal.

Perché non danneggia solo il movimento per i diritti dei palestinesi, di fatto colpisce anche altri movimenti sociali.” Ancora una volta niente rimane fermo, l’impunità si estende e quando i diritti al boicottaggio e al disinvestimento vengono tolti alla solidarietà per la Palestina, si cancella anche il diritto di utilizzare questi stessi strumenti per sostenere l’attivismo contro i cambiamenti climatici, per il controllo delle armi e per i diritti LGBTQ+.

In un certo senso questo è un vantaggio, perché rappresenta un’opportunità di rafforzare alleanze tra movimenti. Ogni importante organizzazione e sindacato progressista ha interesse a proteggere il diritto al boicottaggio e al disinvestimento come principio fondamentale della libertà di espressione e strumento critico di trasformazione sociale.

La piccola squadra di Palestine Legal ha guidato in modo straordinario l’opposizione negli USA avviando procedimenti giudiziari contro le leggi anti-BDS in quanto anticostituzionali e appoggiando le cause di altri. Meritano un sostegno molto maggiore.

È finalmente il momento del BDS?

C’è un altro motivo per essere fiduciosi: la ragione per cui Israele perseguita il BDS con tanta ferocia è la stessa per cui così tanti attivisti hanno continuato a credere in esso nonostante questi attacchi su più fronti. Perché può funzionare.

Lo abbiamo visto quando imprese multinazionali si ritirarono dal Sudafrica negli anni ‘80. Non fu perché vennero improvvisamente colpite da una rivelazione morale antirazzista. Piuttosto, dato che il movimento era diventato internazionale e le campagne di boicottaggio e disinvestimento iniziavano a influenzare la vendita di auto e i clienti delle banche fuori dal Paese, queste imprese ritennero che a loro sarebbe costato di più rimanere in Sudafrica che andarsene. I governi occidentali iniziarono tardivamente a imporre sanzioni per le stesse ragioni.

Ciò danneggiò il settore commerciale sudafricano, parte del quale mise sotto pressione il governo dell’apartheid perché facesse concessioni ai movimenti per la liberazione dei neri che si erano ribellati per decenni contro l’apartheid con rivolte, scioperi di massa e la resistenza armata. I costi di mantenere il crudele e violento status quo stavano crescendo sempre di più anche per l’élite sudafricana.

Alla fine degli anni ‘80 la tenaglia della pressione dall’esterno e dall’interno crebbe tanto che il presidente F. W. de Klerk fu obbligato a liberare Nelson Mandela dal carcere dopo 27 anni e poi a tenere elezioni democratiche, che portarono Mandela alla presidenza.

Le organizzazioni palestinesi che hanno tenuto viva la fiamma del BDS attraverso alcuni anni molto cupi sperano ancora nel modello sudafricano di pressioni dall’esterno. Infatti, mentre Israele perfeziona l’architettura e la progettazione della ghettizzazione e dell’espulsione, esso potrebbe essere l’unica speranza.

Ciò a causa del fatto che Israele è decisamente meno sensibile alla pressione interna da parte dei palestinesi di quanto lo fossero i sudafricani bianchi sotto l’apartheid, che dipendevano dalla manodopera dei neri per tutto, dal lavoro domestico alle miniere di diamanti. Quando i sudafricani neri si rifiutarono di lavorare o si impegnarono in altre forme di danneggiamento dell’economia, ciò non poté essere ignorato.

Israele ha imparato dalla vulnerabilità del Sudafrica; dagli anni ‘90 si è progressivamente ridotta la sua dipendenza dal lavoro dei palestinesi, soprattutto grazie ai cosiddetti lavoratori ospiti e all’ingresso di circa un milione di ebrei dall’ex Unione Sovietica.

Ciò ha contribuito a rendere possibile per Israele passare dal modello di oppressione dell’occupazione all’attuale modello di ghettizzazione, che cerca di far sparire i palestinesi dietro a imponenti muri con sensori ad alta tecnologia e il molto decantato sistema di difesa aerea israeliana Iron Dome.

Ma questo modello, chiamiamola ‘bolla fortificata’, porta con sé vulnerabilità, e non solo per gli attacchi di Hamas. La vulnerabilità più strutturale deriva dall’estrema dipendenza di Israele dal commercio con l’Europa e il Nord America per tutto, dal suo settore turistico a quello tecnologico per la sorveglianza basato sull’intelligenza artificiale.

Il marchio che Israele ha forgiato per se stesso è quello di un aggressivo, moderno avamposto occidentale nel deserto, una piccola bolla di San Francisco o Berlino che casualmente si è ritrovato nel mondo arabo.

Ciò lo rende straordinariamente suscettibile solamente alle azioni del BDS, compreso il boicottaggio culturale e accademico. Perché quando popstar che vogliono evitare polemiche cancellano le loro date a Tel Aviv, prestigiose università USA interrompono la loro collaborazione con quelle israeliane dopo aver assistito alla distruzione di varie scuole e università palestinesi e il bel mondo non sceglie più Eilat per le proprie vacanze perché i follower su Instagram non ne rimangono impressionati, ciò danneggia tutto il modello economico israeliano e la sua autorappresentazione.

Ciò metterà pressione dove i dirigenti israeliani oggi sono poco sensibili. Se le imprese internazionali di alta tecnologia e di progettazione smetteranno di vendere prodotti e servizi all’esercito israeliano, ciò aumenterà ancor di più la pressione, forse abbastanza da cambiare le dinamiche della politica.

Gli israeliani vogliono disperatamente far parte della comunità mondiale, e se si troveranno improvvisamente isolati molti più elettori potranno iniziare a chiedere alcune delle azioni che gli attuali dirigenti israeliani scartano immediatamente, come negoziare con i palestinesi per una pace duratura radicata nella giustizia e nell’uguaglianza, come definita dalle leggi internazionali, piuttosto che cercare di proteggere la bolla fortificata con fosforo bianco e pulizia etnica.

Ovviamente il nodo è che, perché le tattiche non violente del BDS funzionino, le vittorie non possono essere sporadiche o marginali. Devono essere sostanziali e diffuse, almeno quanto la campagna sudafricana, che vide importanti imprese come la General Motors e la banca Barclays ritirare i loro investimenti, mentre artisti molto popolari come Bruce Springsteen e Ringo Starr riunirono il supergruppo per antonomasia degli anni ‘80 per cantare a squarciagola “Non suonerò a Sun City”, un riferimento alla lussuosa e iconica località sudafricana.

Il movimento BDS che prende di mira l’ingiustizia israeliana è sicuramente cresciuto negli ultimi 15 anni. Barghouti stima che “i sindacati dei lavoratori e dei contadini, così come movimenti per la giustizia razziale, di genere e per il clima” che lo appoggiano “insieme rappresentino decine di milioni in tutto il mondo”. Ma il movimento deve ancora raggiungere un punto di svolta di livello sudafricano.

Tutto questo ha avuto un costo. Non c’è bisogno di essere uno storico delle lotte di liberazione per sapere che, quando tattiche con una base etica sono ignorate, emarginate, calunniate e bandite, altre tattiche, slegate da queste preoccupazioni etiche, diventano molto più interessanti per persone alla disperata ricerca di una qualunque speranza di cambiamento.

Non sapremo mai quanto avrebbe potuto essere diverso il presente se molte più persone, organizzazioni e governi avessero dato ascolto all’appello BDS fatto dalla società civile palestinese quando venne lanciato nel 2005.

Qualche giorno fa, quando ho contattato Barghouti, non stava guardando indietro a 20, ma a 75 anni di impunità. Israele, ha detto, “non sarebbe stato in grado di perpetrare il suo continuo genocidio a Gaza mostrato in televisione senza la complicità con il suo sistema di oppressione di Stati, imprese e istituzioni.” La complicità, ha sottolineato, è qualcosa che abbiamo sempre il potere di rifiutare.

Una cosa è certa: le attuali atrocità a Gaza rafforzano drammaticamente la causa del boicottaggio, del disinvestimento e delle sanzioni. Le tattiche nonviolente, che molti hanno cancellato in quanto estremiste o nel timore di essere etichettati come antisemiti, appaiono in modo molto diverso attraverso la fosca luce di vent’anni di massacri, con nuove rovine sulle vecchie, nuovi dolori e traumi scolpiti nella psiche delle nuove generazioni e nuovi abissi di depravazione raggiunti sia a parole che nei fatti.

Domenica scorsa nel suo spettacolo finale su MSNBC [canale televisivo statunitense via cavo di notizie, ndt] Mehdi Hasan ha intervistato il fotogiornalista palestinese di Gaza Motaz Azaiza, che rischia la vita ogni giorno per inviare al mondo le immagini delle uccisioni di massa da parte di Israele.

Il suo messaggio agli spettatori statunitensi è stato netto: “Non definitevi persone libere se non potete fare cambiamenti, se non potete fermare un genocidio che è ancora in corso.”

In un momento come questo siamo quello che facciamo. Molta gente ha fatto più di quanto abbia mai fatto in pricedenza: bloccato l’invio di armi, occupato sedi del governo chiedendo un cessate il fuoco, partecipato a proteste di massa, detto la verità, per quanto difficile.

La combinazione di queste azioni potrebbe aver contribuito allo sviluppo più significativo nella storia del BDS: il ricorso del Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) dell’Aia in cui accusa Israele di commettere un genocidio e chiede misure temporanee per fermare il suo attacco contro Gaza.

Una recente analisi del giornale israeliano Haaretz nota che, se la CIG sentenziasse a favore del Sudafrica, anche se gli USA ponessero il veto alle Nazioni Unite su un intervento militare, “un decreto ingiuntivo potrebbe dare come risultato che Israele e imprese israeliane vengano boicottate e sottoposte a sanzioni imposte da singoli Paesi o da gruppi di Nazioni.

Nel contempo boicottaggi dal basso stanno già iniziando a farsi sentire. A dicembre Puma, uno dei principali bersagli del BDS, ha fatto sapere che porrà fine alla sua controversa sponsorizzazione della squadra nazionale di calcio israeliana. Prima di questo in Italia c’è stato un esodo di artisti da un importante festival del fumetto dopo che si è scoperto che l’ambasciata israeliana era tra gli sponsor.

E questo mese Chris Kempczinski, amministratore delegato di McDonald, ha scritto che quella che ha chiamato “disinformazione” stava avendo “un importante impatto economico” su alcune delle sue vendite in “vari mercati mediorientali e altri fuori dalla regione”.

Si è trattato di un riferimento a un’ondata di indignazione scatenata dalla notizia secondo cui McDonald Israel aveva donato migliaia di pasti ai soldati israeliani. Kempczinski ha cercato di distanziare la marca internazionale da “gestori locali,” ma poche persone del movimento BDS sono state convinte da questa distinzione.

Mentre la spinta a favore del BDS continua ad aumentare, sarà fondamentale essere ben consapevoli che siamo nel bel mezzo di un’allarmante e concreta impennata di crimini d’odio, molti dei quali contro palestinesi e musulmani, ma anche contro attività economiche e istituzioni ebraiche solo per il fatto che sono tali. Questo è antisemitismo, non attivismo politico.

Il BDS è un movimento serio e non violento, con un modello organizzativo consolidato. Pur lasciando autonomia ai militanti locali per definire quali campagne funzioneranno nei loro territori, il Comitato Nazionale del BDS (BNC) stabilisce i principi guida del movimento e seleziona con cura come obiettivo un piccolo gruppo di imprese scelte “in base alla complicità da loro dimostrata con le violazioni dei diritti umani dei palestinesi da parte di Israele.

Il BNC ha anche ben chiaro che non chiede il boicottaggio dei singoli israeliani in quanto tali, affermando di “rifiutare per principio il boicottaggio di singole persone in base alle loro opinioni o identità (come la cittadinanza, la razza, il genere o la religione)”. In altre parole i bersagli sono le istituzioni complici dei sistemi di oppressione, non le persone.

Nessun movimento è perfetto. Ogni movimento farà passi falsi. Ora tuttavia la questione più pressante ha poco a che vedere con la perfezione. È semplicemente questa: cosa ha maggiori possibilità di cambiare uno status quo moralmente intollerabile, fermando nel contempo ulteriore spargimento di sangue? 

Gideon Levy, indomito giornalista di Haaretz, non si fa illusioni su quello che ci vorrà. Recentemente ha detto ad Owen Jones [editorialista inglese di sinistra, ndt]: “La chiave è la comunità internazionale, intendo dire che Israele non cambierà da solo… La formula è molto semplice: finché gli israeliani non pagheranno e non verranno puniti per l’occupazione, non saranno chiamati a rendere conto di essa e non lo sentiranno nel quotidiano, non cambierà niente.”

È tardi

Nel luglio 2009, pochi mesi dopo che il mio primo articolo sul BDS era stato pubblicato, viaggiai a Gaza e in Cisgiordania. A Ramallah tenni una conferenza sulla mia decisione di appoggiare il BDS. Includeva scuse per non aver aggiunto prima la mia voce, cosa che confessai derivare dalla paura che la tattica fosse troppo estremista in quanto diretta contro uno Stato fondato sul trauma ebraico; paura che sarei stata accusata di tradire il mio popolo. Timori che ho ancora.

Meglio tardi che mai,” mi disse un membro del gentile pubblico dopo il discorso.

Allora era tardi; lo è ancora adesso. Ma non troppo tardi. Non troppo tardi perché tutti noi creiamo la nostra politica estera dal basso, che intervenga nella cultura e nell’economia in modo intelligente e strategico, che offra una speranza tangibile che finalmente siano finiti i decenni di impunità senza controllo di Israele.

Come ha chiesto la scorsa settimana il comitato nazionale del BDS: “Se non ora, quando? Il movimento sudafricano contro l’apartheid si organizzò per decenni per conquistare un vasto appoggio internazionale che portò alla caduta dell’apartheid, e l’apartheid crollò. La libertà è inevitabile. Ora è tempo di attivarsi per unirsi al movimento per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza in Palestina.”

Basta. È il momento di un boicottaggio.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

* da Zeitun

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