martedì 25 ottobre 2022

Il lavoro non ti ama (e nemmeno noi lo amiamo).

Francesca Coin discute con Sarah Jaffe di lavoro e di scioperi, della ripresa del movimento sindacale negli Stati uniti e del fenomeno delle «grandi dimissioni» di fronte alla scelta tra lo sfruttamento o la vita.


jacobinitalia.it Francesca Coin Sarah Jaffe

Vi proponiamo questo dialogo tra Sarah Jaffe, autrice del libro Il lavoro non ti ama (Minimum Fax, 2022) e Francesca Coin svoltosi il 24 settembre 2022 durante i Dig Awards 2022, un festival di giornalismo investigativo  che ogni anno porta a Modena i migliori interpreti del giornalismo investigativo internazionale. In quell’occasione, Sarah Jaffe e Francesca Coin hanno parlato di lavoro e di scioperi, della ripresa del movimento sindacale negli Usa e di «grandi dimissioni». Di seguito, una parte della loro conversazione.

FC: Quando hai iniziato a occuparti di lavoro?

SJ: Sono figlia di molte diverse crisi. Ho finito l’università nel 2002, cioè immediatamente dopo l’11 settembre. Gli Stati uniti stavano invadendo chiunque fosse possibile invadere, la fase economica era difficile e la mia laurea in Letteratura inglese non mi aveva portato da nessuna parte. Così ho lavorato nei ristoranti per un po’ di anni, poi ho ricominciato a studiare pensando di essere io il problema, di dover prendere un’altra laurea per trovare un lavoro vero.

Ho finito la specializzazione nel 2009. Nel frattempo, mentre studiavo giornalismo, l’economia globale è completamente collassata. Eppure, nonostante fossimo nel mezzo di una crisi occupazionale, nessuno parlava di lavoro. Quando ho letto a metà degli anni 2000 Una paga da fame di Barbara Ehrenreich, scomparsa recentemente, mi sono resa conto che c’era solo lei a trattare questi temi. Così ho pensato che ci fosse spazio per parlarne come giornalista. Le persone in fondo parlavano di lavoro, di lavori persi e di lavori che pensavano di tenersi per tutta la vita. 

FC: Com’è stato iniziare a lavorare da giornalista negli Stati uniti?

SJ: Quando ho lavorato per The Nation sono stata la tirocinante di Jeremy Scahill, un caro amico di Dig come dicevamo ieri. Lui non scrive molto di lavoro ma mi ha incoraggiata moltissimo, ed era un socialista con le mie stesse posizioni politiche. Mi ha aiutata quando ero una freelance, prima di essere assunta da Laura Flanders che aveva un piccolo programma televisivo chiamato Grit TV. Trattava molti argomenti, ma in particolare parlava molto di lavoro: molte di queste cose sono finite nel libro che ho pubblicato dopo la crisi del 2008 e la serie di mobilitazioni che ci sono state. La prima mobilitazione è iniziata in Wisconsin, quando il governo di quello stato ha cercato di togliere ai lavoratori il diritto di avere un sindacato. Poi ovviamente c’è stato il movimento Occupy Wall Street e poi la lotta per il salario minimo a 15 dollari, organizzata dai lavoratori dei fast food e dagli e dalle insegnanti di Chicago, che hanno scioperato nel 2012. È stato lo sciopero più grande degli Stati uniti per almeno un decennio.

Bisognava mettere queste cose per iscritto, perché il governo continuava a ignorare i lavoratori, i sindacati e tutti i tipi di mobilitazioni da decenni. Visto che scrivevo di queste cose, hanno iniziato a chiederlo a me, ed è diventato un circolo virtuoso: più proteste dei lavoratori c’erano, più la stampa cercava qualcuno che effettivamente sapesse quello che stava succedendo.

FC: C’è stato un incontro un po’ di tempo fa, nella fabbrica italiana Gkn, in cui il collettivo di fabbrica ha invitato i giornalisti. Di norma ciò che avviene in una situazione di quel tipo è che arriva la stampa per parlare di come un fondo finanziario ha deciso di chiudere da un giorno all’altro una fabbrica in attivo, ma in realtà è stato il collettivo dei lavoratori a chiedere ai giornalisti «Quali sono le vostre condizioni lavorative?». I lavoratori volevano evidenziare che qui in Italia i giornalisti si trovano nelle stesse condizioni di sfruttamento di chi lavora in altri settori. Com’è essere una giornalista negli Stati uniti? 

SJ: Mi guadagno da vivere perché ho scritto due libri di successo e sono 13-14 anni che scrivo. Ciò mi permette di vivere decentemente, ma non è stato semplice – e per molte persone non è sostenibile. Ultimamente abbiamo una crisi del giornalismo: molti giornali locali stanno chiudendo o vengono comprati da grandi società per azioni – che poi licenziano la maggior parte della redazione locale, e i giornalisti che scrivono le storie sono tutti localizzati a Washington DC. Quindi se vivi, per esempio, nella capitale del Missouri, non c’è niente per te. Molti di noi finiscono a lavorare per delle riviste, ma sono generalmente considerate un prodotto di lusso. Se compri una rivista come il New Yorker significa che sei uno forte, un letterato di classe media: queste riviste non sono pensate per essere lette dalle persone di cui io scrivo. E preferirei non dover tradurre la working class in un linguaggio che la borghesia possa capire. Ma questa è gran parte della richiesta. 

Di solito succede così: gli operai sono in mobilitazione e mi chiedono «Perché protestano?». Ovviamente sono arrabbiati perché prendono 7 dollari e 25 centesimi all’ora, e sono dodici anni che il loro salario non aumenta. Non dovrebbe essere così difficile da capire a meno che il tuo mondo non giri solo intorno a persone che sono andate a Harvard o Yale. 

Ad ogni modo la mia situazione personale è migliorata, ma c’è ancora chi mi chiede lunghi reportage per 200 dollari. Il mio affitto a New Orleans è 1.200 dollari al mese, e non ti dico quanto pagavo a New York: non posso vivere scrivendo una storia per 200 dollari. 

FC: Hai accennato al tuo primo libro, Necessary trouble, pubblicato nel 2016, appena prima dell’elezione di Trump.

SJ: Quando è uscito è stato difficile perché tutti erano concentrati sulle elezioni. Poi Trump è stato eletto e improvvisamente il mio libro era in tutte le librerie perché parlava di mobilitazioni e tutti stavano protestando. Mi sembrava di trarre profitto da una guerra. Avevo azzeccato la brutta direzione in cui si stavano muovendo le cose. 

FC: Parliamo del tuo ultimo libro, Il lavoro non ti ama, che è stato invece un successo istantaneo. È uscito nel bel mezzo della pandemia, e l’idea centrale è che ci hanno forzati ad amare il nostro lavoro. Ci hanno detto che se il nostro lavoro ci piace, allora è come se non lavorassimo nemmeno un giorno della nostra vita. Ma poi è arrivata la pandemia e molte persone non sapevano se ne sarebbero uscite vive o morte. 

SJ: Io ho sempre cercato di trovare un lavoro che mi piacesse. Ho finito l’università e ho pensato: faccio la specializzazione e poi trovo un bel lavoro e vivo una bella vita. Ma non funziona così. Dopo l’università ho lavorato in un ristorante e il mio datore di lavoro si aspettava che ogni giorno mi presentassi con un sorriso, anche se prendevo 2 dollari e 13 centesimi all’ora, che è tuttora il salario minimo per chi lavora nel terziario negli Stati uniti. Ed erano vent’anni fa. Avevo l’idea meravigliosamente errata che se fossi tornata all’università e avessi preso un’altra laurea avrei risolto il problema e trovato un lavoro che amavo, ma l’unica cosa che ho ottenuto è prendere giusto qualche soldo in più di quando facevo la cameriera. 

Poi ho fatto i miei primi due anni da giornalista e si aspettavano che fossi grata di prendere una miseria. Il giornalismo è un lavoro importante, socialmente necessario, era sicuramente più tollerabile che lavorare al ristorante, ma la paga era più o meno la stessa. Ero felice di fare la giornalista – amo quello che faccio. È l’incipit del mio libro. Ma è comunque lavoro. Merita di essere pagato dignitosamente, e in molti casi le condizioni lavorative sono terribili.

Molti dei lavoratori e lavoratrici che si stavano organizzando con cui ho parlato erano stati presi da versioni diverse della stessa menzogna: «Qui siamo tutti una famiglia, non vi serve un sindacato. Va tutto bene. Potete venire da noi ogni volta che avete un problema. Non possiamo permetterci di darvi un aumento quest’anno, ma vi apprezziamo sul serio. Puoi lamentarti se vuoi, ma ci sono 30 persone là fuori che ucciderebbero per il tuo posto». Quanti di voi hanno sentito queste cose a lavoro? È una storia costante. Così ho iniziato a pensare a come siamo arrivati a questo punto e a quanti cambiamenti ci sono stati rispetto a come la gente lavorava quaranta, cinquanta, sessanta, cento anni fa.

FC: C’è questo sito chiamato antwork su Reddit con una conversazione in corso sulla Great Resignation, le «grandi dimissioni», soprattutto negli Stati uniti. Circa 48 milioni di persone hanno dato le dimissioni dal 2021 e questo dà la misura di quanta insoddisfazione c’è nel mondo del lavoro. Eppure, anche in Italia c’è l’aspettativa che dobbiamo essere appassionati al nostro lavoro, dare tutto, e che parlare di stipendio o di condizioni di lavoro sia secondario. 

SJ: Parlare di «amore per il proprio lavoro» nasconde questo squilibrio, sembra che ogni mattina mi alzo e non vedo l’ora di venire a lavorare per te. Anche se sono motivata a fare un buon lavoro da giornalista, molte delle persone per cui lavoro e ho lavorato fanno tantissimi soldi sulle mie spalle, mentre io devo pensare solo a lavorare. La narrazione dominante dice: «se gli umani non lavorassero che farebbero tutto il giorno»? Come se gli umani avessero inventato l’idea del lavoro salariato perché si annoiavano e hanno pensato che sarebbe stato interessante trasformare l’esistenza in un gioco in cui si può avere un tetto sopra la testa e cibo sufficiente solo facendo un buon lavoro con una serie arbitraria di incarichi. Si tratta di relazioni di potere molto antiche. Ancora ci sediamo in questi magnifici edifici medievali costruiti dai Ducati e dalla Chiesa Cattolica. Le persone che li hanno costruiti hanno probabilmente lavorato in condizioni molto difficili, eppure hanno costruito le fondamenta del mondo in cui siamo ora. 

Mi è piaciuto tantissimo venire in Italia per la prima volta, la scorsa primavera: il Salone del libro di Torino si tiene in quella che una volta era una fabbrica della Fiat. Una volta era una fabbrica di macchine verticalmente integrata, con migliaia di lavoratori e lavoratrici. Ci sono stati scioperi leggendari e per questo mi è piaciuto molto fare una presentazione in quell’edificio. Se lavori alla Fiat, quando ti arriva davanti la macchina nella linea di montaggio non devi sorriderle o chiederle come sta, sei una parte della catena e non cambia niente se devi attaccare la portiera o il manubrio o se devi dipingere qualcosa. Certo devi essere educato con il tuo responsabile, ma non devi sorridere tutto il giorno come fanno i lavoratori di quel centro commerciale dove sono stata. 

Non avevo portato i vestiti giusti per venire in Italia, faceva caldissimo e sono dovuta andare a comprare un vestito per non morire di caldo. E mentre camminavo tra i negozi, tutti i lavoratori e le lavoratrici dovevano essere carine con me, sorridere, provare a parlarmi in inglese visto che non so una parola di italiano. Ed è completamente diverso da come sarebbe stato lavorare in quella fabbrica. Senza considerare che quando lavoravano in quella fabbrica gli operai erano parte di un grande sindacato di migliaia di persone. Al contrario ognuna di quelle persone che lavora in quei singoli negozi ha un capo diverso e una società diversa, e probabilmente solo 10 o 12 di loro saranno riusciti a costruire un sindacato. L’intera struttura del lavoro in Italia è completamente cambiata, così come le aspettative su cos’è il lavoro, come deve essere pagato, quanto deve essere stabile, quanto durerà. 

FC: Il tuo libro ha avuto un tempismo perfetto con la pandemia, anche se, in effetti, l’hai scritto prima.

SJ: L’ho consegnato l’ultimo giorno di febbraio 2020, una settimana prima del lockdown. La maggior parte del libro è stata scritta prima dell’esistenza stessa del Covid-19. Poi ho fatto qualche altra intervista, sono tornata dai lavoratori che avevo descritto e ho chiesto come la pandemia avesse cambiato le loro vite.

FC: Nel libro citi molto Silvia Federici che da tempo sostiene che l’idea di amore nel lavoro nasconde spesso una richiesta di lavoro non pagato. Un altro autore che hai usato è Mark Fisher che ha parlato di depressione, salute mentale e dell’impatto che hanno su di essa i processi produttivi. Per certi versi, è come se la pandemia avesse segnato il momento in cui è diventato evidente che c’era un limite alla soglia di sacrificio che tutti potevamo accettare. Sino a qualche tempo fa era accettabile convivere con una situazione di burnout e di sovraccarico per mesi e mesi, ma a un certo punto, durante o dopo  la pandemia, non lo è stato più. Nel tuo libro hai intervistato diverse persone che lavoravano nel lavoro di cura, o nell’istruzione durante la pandemia. Cosa ti hanno detto?

SJ: Ho parlato con persone che facevano il lavoro domestico, pagato e non pagato, con lavoratori di fast food e persone che si stavano organizzando sindacalmente al Museo dell’Arte. I lavoratori dei ristoranti e in generale gli impiegati nel settore dei servizi sono stati forse i più numerosi a morire di Covid-19 negli Usa. E questo anche perché molti di loro sono immigrati, non hanno i documenti, non prendono molti soldi e vivono in case sovraffollate. Poi ci sono le persone che hanno deciso di non tornare a lavoro perché due o tre dei loro colleghi erano morti di Covid-19, e hanno pensato di voler fare qualcosa che non uccide. Molti l’hanno vista come un’opportunità per conquistarsi condizioni lavorative migliori. Ho parlato con una giovane donna che aveva partecipato alla formazione di un sindacato dei lavoratori di un fast food nel North Carolina: lavorava per una catena, Freddy’s, ed è stata assunta da McDonald’s perché erano a corto di personale e le offrivano 16 dollari l’ora. Ma mentre i salari stavano salendo a una velocità inaudita, la Federal Reserve ha deciso che c’era la crisi dell’inflazione a causa di una spirale di aumento dei salari – cosa non vera – e hanno alzato i tassi di interesse per schiacciare la forza contrattuale dei lavoratori.

Ora c’è un’ondata di scioperi negli Stati uniti e in Inghilterra. I sindacati sono tornati a crescere, soprattutto nel settore dei servizi e nelle fasce più basse dei colletti bianchi, per esempio tra chi lavora per il no profit, tra i lavoratori del Museo dell’Arte, nelle università, ecc. C’è una bella energia, si passa dal licenziarsi all’organizzarsi, e questo mi rende molto felice. 

FC: Uno dei pezzi che hai scritto per il New York Review of Books si intitola «The great ungrieving» – in italiano potremmo tradurlo come «la grande rimozione del lutto». Negli ultimi mesi ho intervistato diverse persone che hanno lasciato il proprio lavoro in Italia, e quello che dicono, anzitutto nella sanità, è che hanno lasciato il lavoro per sopravvivere. In generale nel discorso sulle «grandi dimissioni» in Italia ciò che viene trascurato è quanto rischio, quanta sofferenza e quanta rabbia le persone abbiano dovuto digerire prima di dire che ne avevano avuto abbastanza. Per certi versi è come se le «grandi dimissioni» evidenziassero un punto di non ritorno a partire dal quale per molti decidere di non andare più avanti così è una questione di vita o di morte.

SJ: Sì, ciò che è successo durante la pandemia a tante persone è che si sono rese conto che al loro capo non importa niente se muoiono – letteralmente. Ho parlato con lavoratori e lavoratrici di un deposito nel New Jersey che avevano visto due dei loro colleghi prendere il Covid e morire. E i loro datori di lavoro gli hanno solo detto di tornare a lavorare, anche al fratello di uno dei morti. Gli hanno chiesto, «perché non sei tornato a lavoro?». Ho parlato con lavoratori e lavoratrici della sanità che, oltre ad essersi ammalati più di una volta, hanno dovuto guardare molte persone morire. Durante la pandemia la gente si è sentita impotente, si è resa conto di non ricevere alcun supporto dalla direzione dell’ospedale. Negli Stati uniti c’è stata una vera crisi, e penso anche qui in Italia in una certa misura.

Le infermiere mi hanno spiegato che non c’erano molte mascherine – erano fortunate se ne avevano una per un turno; dovevano usare sacchi dell’immondizia al posto dei camici perché non ce ne erano abbastanza. Insomma, venivano loro deliberatamente negate le cose di cui avevano bisogno per trattare il Covid, perché a nessuno interessava di rifornire il materiale necessario in caso di pandemia, come se fosse impossibile che una cosa del genere potesse accadere. 

Per cui, l’esaurimento, la stanchezza e poi la sensazione di esser stati lasciati a morire è molto intensa. È una cosa che segna, non si può pensare di poter semplicemente tornare a dedicarsi completamente a un lavoro perché lo ami. Non si può più pensare al lavoro allo stesso modo. 

FC: Per me questo è il punto centrale. Quando si arriva al punto di dire «Al mio capo non importa se vivo o muoio», scoppia quella specie di bugia che il neoliberalismo ha utilizzato per convincerci che tutti i nostri problemi a lavoro dipendevano dal fatto che non ci mettevamo abbastanza impegno o passione. Oggi la violenza del capitalismo non è più nascosta. È come se questa cosa che un tempo chiamavamo lotta di classe, e che è rimasta per cinque o sei decenni lontana dall’attenzione pubblica, fosse tornata al centro delle nostre vite.

SJ: Una delle cose che ti aiuta ad andare avanti lavorando in un ospedale in condizioni orribili è che tutti intorno a te si impegnano perché l’ospedale funzioni. Lavorando alla mia nuova inchiesta ho incontrato il Segretario Generale dei minatori. In Inghilterra ci sono nel sindacato molti più minatori in pensione che attivi. Quindi ormai molto di quello che il sindacato fa è prendersi cura dei pensionati in vario modo. Ho intervistato un minatore, ed era un ragazzo di 16 anni, e gli ho chiesto come fosse la situazione nelle miniere. Mi ha detto che dipendevano l’uno dall’altro, perché una singola mossa sbagliata può farti crollare addosso un muro mentre sei un chilometro sotto terra. Il fatto che contassero l’uno sull’altro è proprio ciò che ha spinto i minatori a formare un sindacato, e ha reso il sindacato così forte e attento. La stessa cosa si può vedere adesso con i sindacati delle infermiere. 

Ho scritto sugli scioperi di 10 mesi delle infermiere e infermieri in Massachusetts, e ovviamente siamo negli Usa, quindi l’ospedale è privato. Hanno lavorato durante la prima ondata di Covid e poi nella seconda, e i loro datori di lavoro volevano fare di più con meno salario e personale. Ma le infermiere ne avevano avuto abbastanza e hanno scioperato per 10 mesi, e alla fine hanno ottenuto tutte le loro richieste. C’è di nuovo questa determinazione, l’idea che bisogna supportarsi a vicenda, comportarsi correttamente con i pazienti, e che il capo e Texas Forest che lucra sull’ospedale può andare all’inferno.

FC: Per chiudere ci parli un po’ degli scioperi negli Stati uniti e in Inghilterra? Mi sembra che molti di questi siano stati scioperi di lavori «essenziali». È così?

L’ondata di scioperi negli Stati uniti ha colpito molte industrie di produzione alimentare. Nabisco, Frito-Lay, Kellogg’s, ecc. I profitti di tutte queste compagnie erano alle stelle, da record. Mentre noi eravamo a casa, loro andavano a lavorare malati o lavoravano col personale dimezzato perché la gente continuava a prendere il Covid. E gli straordinari forzati stavano diventando un problema serio – a un certo punto ne hanno avuto abbastanza. Sapevano leggere il bilancio dei profitti come chiunque altro, e sapevano che i datori di lavoro dicevano cazzate quando giuravano di non poter assumere altre persone e di non poter dar loro un aumento.

L’ondata di scioperi che ha colpito l’Inghilterra si è invece concentrata principalmente nell’industria nazionale privatizzata: le ferrovie, il servizio postale, British Telecom e i porti. Si tratta delle industrie che fino a non molto tempo fa erano controllate dal governo, fino a che non è arrivata Margaret Thatcher. Le lavoratrici e i lavoratori hanno visto il modo in cui questi servizi stanno andando a rotoli e si sono stancate. E poi, di nuovo, hanno lavorato durante la pandemia, e sanno benissimo che non è vero che non ci sono i soldi per dar loro un aumento. In Inghilterra nello specifico, devono gestire anche un tasso d’inflazione assurdo. Per questo chiedono e in molti casi ottengono aumenti che superano il costo della vita. In questo momento i lavoratori del porto di Liverpool sono in sciopero. E quando quei porti sono chiusi, il 60% del traffico navale della Gran Bretagna è interrotto. Hanno un grande potere in mano. 

C’è anche un rinnovato interesse per rivendicazioni come la settimana lavorativa più breve e il reddito universale di base, è un modo per ricordarci che possiamo cambiare le cose in meglio, soprattutto adesso. La settimana lavorativa di 40 ore non è naturale. Non è che degli scienziati hanno studiato per capire quale fosse la quantità giusta di tempo che un umano deve spendere lavorando per un salario. È solo il punto in cui i sindacati si sono fermati nella lotta per una settimana lavorativa più breve. Prima hanno lottato per la giornata lavorativa di 12 ore, poi 10, poi 8, e poi per un giorno libero e poi due. Il fatto che almeno alcuni sindacati stiano pensando di lottare per una settimana lavorativa più breve dipende anche dall’ondata di scioperi dell’anno scorso. Abbiamo sopportato gli straordinari eccessivi e anche gli orari imprevedibili, ma ora possiamo prendere in considerazione una nuova lotta per il nostro tempo, e ricordarci che questo tempo lo possiamo gestire noi.

*Francesca Coin, sociologa all’Università di Lancaster, si occupa di lavoro e diseguaglianze sociali. Sarah Jaffe è una giornalista statunitense. Si occupa di lavoro, movimenti sociali, questioni di genere e cultura pop. Suoi articoli sono usciti su New York Times, The Nation, Guardian, Washington Post e Atlantic. Oltre a Il lavoro non ti ama (Minimum Fax, 2022) ha scritto Necessary trouble: Americans in revolt (Nation Books 2016). Questo dialogo è stato tradotto da Valentina Menicacci e rivisto redazionalmente da Francesca Coin.

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