Il risultato più evidente, mentre sul terreno poco si muove, è che gli sponsor di Kiev, anche quelli ormai meno entusiasti, non possono più tirarsi indietro.
sinistrainrete.info Fabio Mini
Sembra la scadenza di una cambiale e in un certo senso lo è, ma non a sei mesi e nemmeno a un anno. La guerra non si misura a mesi, si misura a eventi, fatti importanti, cambiamenti strategici e soprattutto si misura alla fine. Ci sono state guerre di una notte, sei giorni e cento anni. Le celebrazioni o le ricorrenze riguardano le date d’inizio e fine e, in mezzo, le date delle vittorie, delle sconfitte e dei massacri. In Ucraina da tre mesi a questa parte non si è visto nulla di tutto ciò e anche i massacri dovranno essere accertati con riscontri oggettivi e non quelli della propaganda, che è uno strumento di guerra e non una sua finalità. Si sono viste alcune stanche attività sul campo di battaglia e quasi nulla su quello politico-strategico. Le posizioni sono quasi stabilizzate: i russi non premono sull’acceleratore per superare il Dniepr e nemmeno per arrivarci. Si limitano a consolidare le retrovie e le linee dei rifornimenti oltre a istituzionalizzare il controllo della popolazione dei territori occupati. Territori non ancora reclamati dalla Russia, ma appartenenti alle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk.
Gli ucraini non hanno risorse e capacità né per andare avanti né per ritirarsi. Tutti gli sponsor dell’Ucraina si danno da fare, ma con minore energia e determinazione di un mese fa. A chiacchiere, il sostegno americano e della Nato è immutato, nei fatti l’Ucraina non ha ancora i mezzi per nessuna azione decisiva. L’insistenza con la quale negli Usa e nel resto del mondo si enfatizzano i successi ucraini “grazie al ruolo determinante delle armi occidentali” e soprattutto degli Himars Usa è più una dichiarazione di cedimento che di propulsione. Sembra che si voglia mettere in evidenza che l’occidente ha fatto già la sua parte e ora, contrariamente a ciò che dice Zelensky, è l’Ucraina che se la deve sbrigare e non il resto del mondo.
Gli inglesi hanno già addestrato 2 mila dei 10 mila soldati ucraini che dovrebbero essere pronti entro dicembre. Johnson se ne vanta e predice il futuro: la vittoria, ma le sue capacità divinatorie sono scarse almeno per quanto riguarda la parabola politica.
Molto di più stanno facendo la Polonia e altri Paesi Nato, non come tali ovviamente, ma con il giochetto ipocrita degli accordi bilaterali con Kiev. I soldati addestrati in Gran Bretagna saranno più preparati ma è difficile che ritornino al fronte con maggiore entusiasmo. Dagli inglesi hanno imparato che la guerra è un gioco e per questo è bella se dura poco. E invece questa durerà molto. Hanno capito che è meglio farla fare agli altri, ma gli ucraini non hanno “altri”, anzi devono combattere altri ucraini. Hanno imparato dagli inglesi che la guerra possono combatterla i diseredati di qualsiasi nazionalità, ma i quadri, ufficiali e sottufficiali, devono sempre essere inglesi e anche di buona famiglia. Solo così si giustifica l’orgoglio britannico per l’eroismo in battaglia. I soldati ucraini si troveranno al fronte con altri diseredati agli ordini di quadri demotivati, quando va bene, e di facinorosi che dell’Ucraina rappresentano l’estremismo e il razzismo spacciati per nazionalismo, quando va male.
Dagli inglesi avranno appreso che la Gran Bretagna combatte e fa combattere per i propri interessi e lo fa con eroismo quando essi sono in pericolo. E proprio durante l’addestramento si saranno resi conto che in Ucraina anche per la Gran Bretagna non c’è occasione di gloria perché Londra non ha interessi legittimi da difendere e nemmeno un’ideologia di purezza da dimostrare. Altrimenti non avrebbe fatto comunella con gli squadristi di Piazza Maidan, come gli Stati Uniti. Quindi le sole forze che Usa, Gran Bretagna e altri Paesi possono mandare in Ucraina son quelle sotto copertura o falsa bandiera. Che fanno bene il proprio mestiere, ma senza gloria e senza che si venga a sapere.
Le implicazioni strategico-politiche del coinvolgimento diretto dei quadri stranieri sono più gravi del gioco e rischiano di compromettere la candela. Perciò si stanno limitando a fornire all’Ucraina i soliti contractors, i cosiddetti “istruttori/ consiglieri” e gli specialisti senza uniforme addetti all’intelligence, alle comunicazioni, alla guida dei droni, alle operazioni satellitari, alla propaganda, al funzionamento dei sistemi d’arma aerei, contraerei e missilistici più sofisticati e all’esecuzione di infiltrazioni e sabotaggi. Ovvero i “terminali operativi” dei relativi “servizi” assicurati all’Ucraina da Londra, dal Pentagono e altri centri di comando.
Non è poco ed è vero che tutto ciò è determinante nella guerra contro la Russia. Molto più delle fanterie ucraine e della propaganda di Kiev che sta facendo diventare desueta e stancante perfino la retorica della guerra di liberazione. Ma sono attività che non producono eroismo e nemmeno una paga che valga la pena di una cattura, che comporta sempre complicazioni politiche e di consenso interno, o del rientro in patria in una body bag nera e nessuna bandiera sulla bara. Anche i contractors e i consiglieri “tengono famiglie” che devono sopravvivere e votare.
Il fronte operativo ucraino è tenuto da 4 mesi da una linea sottile di unità regolari mentre in profondità le milizie più o meno neo naziste continuano a controllare il Paese. È in e da questa fascia arretrata che si sviluppano le operazioni eclatanti che disturbano ma non sconfiggono i russi. Ed è in questa fascia che Kiev e gli Usa stanno organizzando la difesa a oltranza tanto voluta dagli sponsor che di fatto intendono indurre la Russia a una reazione tale da giustificare l’intervento diretto della Nato in Ucraina e in Russia. Il che equivale alla guerra aperta e all’apertura del fronte strategico Est-Ovest di cui la prima vittima designata è l’Ucraina e la seconda è tutta l’Europa.
Sul fronte politico-strategico si stanno invece manifestando i segni di una inquietudine generalizzata, in Ucraina, in Russia, in Europa, in America e in Asia. La visita della Pelosi a Taiwan ha dato nuovo vigore alla cooperazione Russia-Cina e alla pressione militare cinese sull’isola. Gli americani si sono convinti di poter combattere e vincere su due fronti contemporaneamente senza muovere un solo uomo.
L’Ucraina e la Nato in Europa e Taiwan, Giappone e Australia in Asia possono fare il lavoro bruto riservando agli Usa la parte strategica e la fornitura di risorse destinate comunque a rientrare con gli interessi nelle casse americane. Cina e Russia si sono convinte che né questa né alcuna altra amministrazione statunitense può cambiare atteggiamento nei loro confronti. Si stanno perciò preparando a sostenere le spallate confidando nella deterrenza nucleare e nell’autodistruzione occidentale con la recessione economica già alle porte.
I falchi russi e statunitensi stanno già tornando alla dottrina del first strike: se guerra deve essere e deve evolvere in nucleare, tanto vale colpire per primi e sperare di neutralizzare o limitare la capacità di reazione avversaria. Le continue allusioni alle armi ipersoniche e agli scenari apocalittici sono funzionali a questa strategia oggi come mezzo secolo fa.
Gli accordi sul grano avevano fatto sperare in una riapertura del dialogo diplomatico. Il ruolo di Erdogan sembrava di mediazione, sbloccando sia le derrate ucraine sia il grano e i fertilizzanti russi. Non era così e non poteva essere diversamente. La Turchia fa i propri interessi da sempre e usa la Nato o i rapporti con gli Usa a proprio esclusivo vantaggio. Schierandosi con l’Ucraina sulla questione della Crimea, sembra fare un favore alla Nato, che non ne aveva bisogno, in realtà tende a ribadire la contrarietà a qualsiasi forma di autodeterminazione dei popoli. Pensa ai curdi di casa propria e a quelli siriani e fa il gioco russo ripensando al Kosovo, alla Cecenia e al Caucaso e ovviamente il gioco della Cina sulle questioni di Taiwan e Xinjiang.
Rimane da vedere cosa ha in serbo la Turchia in merito alla questione del Mar Nero che comunque non può regalare all’Ucraina e sottrarlo alla Russia. L’attentato dinamitardo a Dugin (metodologia tipica dei servizi segreti e delle mafie a essi collegati) ha aperto il fronte del terrorismo di Stato e della violazione del tabù di colpire (direttamente o indirettamente) i leader nemici. Tale implicito divieto non è una misura umanitaria o “di rispetto”, ma il calcolo di non alienarsi gli interlocutori avversari.
Aprire il capitolo degli attentati terroristici contro i leader, da qualunque parte avvenga, è la premessa per misure offensive ancor più drastiche. In questo campo, Ucraina e Russia sono alla pari: entrambe da tempo minacciano “risposte eccezionali” e paventano quelle avversarie. Per il momento le prove del coinvolgimento di Kiev nell’attentato sembrano schiaccianti, ma come già accaduto in altri casi, appare incredibile la velocità con la quale sia stata trovata e denunciata la presunta responsabile.
Tuttavia, la sola ipotesi segnala l’inquietudine dell’establishment russo dibattuto fra la tendenza a non esasperare il conflitto e quella di sfruttare l’episodio per coinvolgere la Nato accusandone un membro, l’Estonia, di dar asilo a una terrorista. Di converso, il ricorso al terrorismo dovrebbe esser anche un motivo di preoccupazione per Zelensky. Se è il mandante è anche diventato il prossimo obiettivo della ritorsione russa. Se non lo è, significa che i suoi apparati hanno agito in autonomia e non si fidano di lui, e quindi lui stesso potrebbe esser il loro prossimo obiettivo.
Se nessuno in Ucraina è responsabile dell’attentato bisogna convincere i russi, e non l’Occidente, a non creare il pretesto per provocare il coinvolgimento diretto della Nato. Un compito difficile visto che questo è proprio lo scopo dell’Ucraina. È l’unica “salvezza” che Zelensky cerca di realizzare ben sapendo che si tratta della condanna del suo paese e dell’Europa.
E non è il solo esempio di stato confusionale di Zelensky. Ha aperto alle unioni omosessuali e ha chiamato alle armi gli Lgbt che i suoi protettori e referenti neo nazisti disprezzano. Non riconosce, insieme a tutto il mondo “occidentale” (che rappresenta appena 1/4 delle terre emerse e 1/7 della popolazione mondiale), l’annessione plebiscitaria della Crimea da parte russa. La rivuole indietro con tutti gli altri territori russofoni che i predecessori hanno perseguitato e costretto alla rivolta negando a essi quell’autodeterminazione che rivendica quando celebra l’indipendenza del proprio Paese.
Pretende di salvare il mondo dalla fame vendendo granaglie ammuffite a Paesi europei che possono solo destinarle all’alimentazione “non umana”. Chiede ancora più armi mentre si amplia il traffico clandestino. Dice di difendere Odessa omettendo di ricordare il massacro subito dai suoi cittadini che dimostravano contro il governo instaurato dagli americani. L’Occidente fa bene a non ricordare quanta responsabilità abbia nella genesi e nello sviluppo della guerra, ma non fa bene a dimenticare che ogni parola o atto di Zelensky è una provocazione per la Russia e un insulto all’intelligenza di tutti. A partire dagli stessi ucraini che ricordano bene le sue promesse elettorali del 2019: fine della guerra in Donbass, neutralità ucraina e dialogo con la Russia. Promesse ribadite durante il suo discorso d’insediamento e ritrattate in fretta alla prima minaccia di morte da parte degli estremisti che da allora lo “proteggono”. Della provocazione strategica è anche parte rilevante e inquietante la questione della centrale nucleare di Zaporizhzhia. L’interesse russo è sempre stato quello di metterla in sicurezza e presidiarla sia per ricattare l’Ucraina sia per garantirsi la fonte d’energia principale di tutto il Donbass e la stessa Crimea. Anche in questo caso sono gli attacchi ucraini nei pressi della centrale ad elevare il rischio di disastro nucleare piuttosto che il presidio russo. È addirittura paradossale l’accusa ucraina che i russi stiano facendosi scudo della struttura. Ma sanno di cosa parlano: erano le milizie ucraine a tenere in ostaggio la popolazione di Karkiv, della città di Mariupol, del complesso industriale di Azovstal e di Severodonetsk impedendone l’evacuazione. In realtà il presidio russo, se riesce a evitare gli attacchi ucraini ne garantisce la sicurezza, se non riesce è il primo a essere vittima del disastro e con esso tutta la parte sudorientale dell’Ucraina. Una forza internazionale di sicurezza della centrale potrebbe evitare il disastro, ma toglierebbe a Zelensky e ai suoi sponsor un eccezionale strumento di pressione sulla comunità internazionale. Inoltre, al momento non esiste alcuna forza internazionale, nemmeno dell’Onu, che si possa considerare “sopra le parti”. E forse questo è il più importante risultato di questi sei mesi di guerra: siamo tutti coinvolti, tutti corresponsabili, tutti partigiani e tutti inaffidabili.
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