Bisognava aspettare Vladimir Putin, “il benzinaio con l’atomica” (così Adriano Sofri su il foglio del 28 ottobre 2022) che riforniva e rifornisce di idrocarburi metà della Terra, per sentir deplorare il fatto che la guerra in Ucraina danneggia la lotta contro il cambiamento climatico.
Il corteo promosso sabato 22 ottobre a Bologna dal Collettivo Di Fabbrica – Lavoratori Gkn Firenze, Fridays For Future Italia, NoPassante, CampiAperti – Associazione per la Sovranità Alimentare, Bologna ha attraversato la città: migliaia di persone in strada per ribadire che tutte le lotte sono connesse tra loro. Foto di Extinction Rebellion Italia |
C’è qualcuno di coloro che, schierati senza se e senza ma per l’invio di armi all’Ucraina, cioè per la guerra, abbia anche solo accennato agli effetti negativi di quel conflitto sulla lotta ai cambiamenti climatici? O di coloro che, invocando la pace (parteciperanno anche alla manifestazione del 5 novembre a Roma), affermano senza esitazioni che le condizioni della pace sono il ritiro delle truppe russe da tutti i territori annessi? Cioè la resa di Putin come unica alternativa alla resa di Zelensky? Senza mai prendere in considerazione – anzi irridendo alla eventualità, purtroppo remota – che tra quella due “rese” ci fossero, e ci sono ancora, ampie possibilità di mediazione: a partire dal cessate il fuoco; e poi riprendendo e aggiornando gli accordi di Minsk, traditi da entrambe le parti, ma il cui rispetto avrebbe non solo evitato questa catastrofe all’Ucraina, ma anche dilazionato l’apocalisse climatica che questa guerra sta accelerando. E, soprattutto, senza riflettere sul fatto che la “vittoria” dell’Ucraina, un evento che si insegue senza mai dire in che cosa consisterebbe, avrebbe comunque per prezzo la morte di altre decine di migliaia di esseri umani da entrambe le parti, la devastazione completa del territorio e delle infrastrutture del paese e, sempre più vicino, l’olocausto nucleare. Ma non la caduta di Putin, che, caso mai, sarebbe verosimilmente sostituito da gente ancora più pericolosa, alla Evgenij Prigozin o alla Ramzan Kadirov, e non certo da un’élite più ragionevole e conciliante; ma forse – e sembra questo l’obiettivo di chi punta alla “vittoria” – dalla disgregazione del suo impero, trasformato in una grande Libia in balia delle potenze di tutto il pianeta, fameliche delle sue risorse: dalla Cina alla Nato, dalla Turchia all’Isis. Con il risultato di rendere permanente e incontrollabile lo stato di guerra.