Il cosiddetto Recovery Fund, noto
anche come Next Generation EU, attribuisce all’Italia 191 miliardi di
euro che saranno trasferiti al Paese tra il 2021 e il 2026, suddivisi in
69 miliardi di euro a fondo perduto e 122 miliardi di euro di prestiti,
da rimborsare alle istituzioni europee. Queste risorse vanno a
finanziare gli interventi raccolti nel Piano Nazionale di Ripresa e
Resilienza (PNRR).
coniarerivolta.org
In un mondo dominato dal denaro si
sente spesso dire che seguendo i soldi – focalizzando l’attenzione sui
soli flussi finanziari – si possono svelare le dinamiche fondamentali
della società. Seguire la traccia dei soldi porterebbe dritti al cuore
delle meccaniche del sistema. Nel caso del PNRR questa massima perde
buona parte della sua credibilità: i soldi del PNRR sono forse la parte
meno rilevante del Piano, e proveremo a dimostrarlo concentrando la
nostra attenzione sulle centinaia di condizioni a cui è stata subordinata l’erogazione dei fondi.
I soldi, insomma, sono solo l’esca, mentre il contenuto politico del
PNRR è racchiuso nelle clausole che vanno rispettate per ottenere quelle
risorse.
Abbiamo già avuto modo di sottolineare
l’assoluta inadeguatezza del finanziamento
messo a disposizione dalla Commissione Europea: quei soldi, nonostante
le apparenze, sono insufficienti a garantire qualsiasi ripresa.
Nel
dibattito pubblico, però, si è fatta strada un’idea di apparente buon
senso: fossero anche pochi, sono comunque un contributo alla crescita
del Paese, ed un contributo finalmente libero dalle condizioni capestro
che, nel decennio passato, hanno messo in ginocchio la Grecia e tutti
gli altri Paesi che si sono imbattuti nei fatidici “aiuti” europei.
Insomma, si dice, il Recovery Fund fornisce finanziamenti
incondizionati: niente austerità, solo soldi, perché avremmo dovuto
rifiutarli?
Semplicemente, perché – come proveremo
a mostrare sulla base della documentazione istituzionale disponibile –
questi soldi portano con sé la vecchia austerità in una forma nuova e
ancora più pervasiva.
Infatti, le risorse del PNRR arriveranno
all’Italia sotto forma di dieci rate semestrali di prestiti e dieci rate
semestrali di contributi a fondo perduto, e l’erogazione di ciascuna
rata è subordinata, da un lato, alla solita disciplina di bilancio (per
l’appunto, la vecchia austerità fatta di tagli alla spesa pubblica e
tasse), e dall’altro ad un dettagliatissimo piano di riforme –
illustrate nel PNRR – che convergono sull’obiettivo di abbattere gli ultimi residui di stato sociale e trasformare il nostro modello economico in una moderna economia di mercato al servizio del profitto privato.
Dunque, ogni euro di PNRR porta con sé decine e decine di euro di tagli alla spesa sociale,
per via delle rigide regole di bilancio europee che impone,
accompagnati a quelle riforme del sistema economico che servono a
ridurre ulteriormente il perimetro dei diritti sociali per favorire
l’espansione, senza limiti, del profitto di pochi.
Dopo circa un anno di dibattito in cui
ci è stato raccontato che il Recovery Fund sarebbe stato un aiuto
incondizionato, ha fatto irruzione la realtà, sotto forma dell’
Allegato
riveduto della Decisione di esecuzione del Consiglio relativa
all’approvazione della valutazione del piano per la ripresa e la
resilienza dell’Italia, un documento che illustra nel dettaglio ben
528 (già, cinquecentoventotto!)
condizioni
negoziate tra Italia e Commissione Europea per l’erogazione delle 20
tranche del finanziamento. Il documento riporta con precisione tutte le
condizioni suddivise per tranche di finanziamento: sappiamo, insomma,
cosa dobbiamo esattamente fare per ricevere ogni sei mesi una parte di
quei 191 miliardi di euro.
L’Italia si è quindi impegnata a
realizzare una serie di riforme nei prossimi sei anni, su un arco
temporale che supera abbondantemente l’orizzonte politico del governo in
carica.
Non importa quali siano i prossimi governi, cosa votino i
cittadini, quali maggioranze parlamentari possano affermarsi: fino a che
l’Italia resta nel campo della compatibilità con la cornice
istituzionale dell’Unione Europea, il Paese ha già tracciato davanti a
sé un programma politico che, passando per le tappe forzate scandite dal
PNRR, eroderà i residui diritti sociali e imporrà, in misura ancora più
pervasiva, l’interesse privato di pochi sul benessere collettivo della
popolazione.
Il principio che si afferma con il PNRR è chiaro: la politica economica del nostro Paese viene esplicitamente determinata all’infuori del processo democratico.
Non più solamente per quanto riguarda i livelli di spesa pubblica,
limitati entro i vincoli di bilancio imposti da Maastricht in poi, ma
anche il suo contenuto e tutte le riforme che fanno da contorno al
processo di deregolamentazione dei mercati in favore dei profitti
privati.
Le 528 condizioni si suddividono in
214 traguardi da raggiungere e
314 obiettivi quantitativi da conseguire
per il tramite di
63 riforme e
151 investimenti.
Per avere un’idea di
quello che significa aver accettato il ricatto del PNRR, basta
soffermarsi sulla prima tranche da 24 miliardi che sarà erogata entro il
31 dicembre 2021, suddivisa in una rata di prestiti (12,6 miliardi) ed
una rata di contributo a fondo perduto (11,4 miliardi) che saranno
erogati solo subordinatamente al rispetto di ben 51 condizioni,
puntualmente definite nel documento citato.
Cosa ci siamo impegnati a
fare entro la fine dell’anno per ottenere questi 24 miliardi di euro?
Un primo pacchetto di condizioni riguarda alcune riforme di contesto, in primis
semplificazione delle procedure amministrative, appalti pubblici e
concessioni e giustizia. Rientra in tale ambito il Dl 77/2021,
recentemente approvato dal Parlamento e che deregolamenta pesantemente
le procedure di appalto, derogando ad una serie di prescrizioni poste a
tutela dell’ambiente e della legalità delle procedure. La parola
d’ordine, come si può leggere nel PNRR, è velocizzare le procedure. Ma
questo che cosa significa, concretamente?
Ce lo dice l’art. 44 del Dl
77/2021, scritto apposta per onorare questo impegno con l’Europa:
significa eliminare una serie di controlli e verifiche preliminari della
fattibilità tecnica, ambientale e archeologica dei lavori pubblici, in
modo tale da consentire quel selvaggio sviluppo urbano che insegue le
speculazioni edilizie – servendo aree deserte con stazioni della
metropolitana – a discapito del patrimonio pubblico fatto di ambiente,
paesaggio e cultura, tutti beni sacrificabili sull’altare del PNRR.
Dunque, per arrivare a questi miliardi promessi dell’Europa abbiamo
smontato di fatto le norme che limitano il sub-appalto – una tutela
contro la criminalità organizzata e in difesa della sicurezza sul lavoro
– e quelle che impongono le Valutazioni di Impatto Ambientale (VIA)
degli investimenti, aprendo la strada alla sistematica distruzione
dell’ambiente da parte della speculazione.
Si potrebbero velocizzare i
lavori moltiplicando gli sforzi per garantire che le opere pubbliche
rispettino i vincoli paesaggistici, archeologici, ambientali ed
urbanistici, sviluppando ad esempio una rete di trasporto pubblico
locale in armonia con il tessuto urbano.
Ma perché spendere tante
risorse per il bene comune, se si possono velocizzare le procedure
tagliando controlli e verifiche di sicurezza, ovvero quei lacci che
spesso rallentano la corsa alla speculazione?
In tema di giustizia, le istituzioni
europee hanno preteso una riforma lampo del processo civile e del
processo penale: per accelerare i tempi della giustizia, tempi
oggettivamente troppo dilatati, si è scelta la via della mera
semplificazione delle procedure, una scelta tutta politica che
favorisce, puntualmente, la parte più forte.
Per esempio, la riduzione
dei termini di durata dei processi penali consentirà, a chi ha le
risorse per organizzare al meglio la propria difesa, di cavarsela
trascinando il processo per le lunghe.
Alla stessa maniera,
l’accelerazione delle procedure per l’esecuzione immobiliare consentirà
alle banche e ai palazzinari di realizzare molto più rapidamente i
pignoramenti delle case dei debitori che – spesso per difficoltà
lavorative – perdono la capacità di onorare un mutuo: ridurre i tempi
per il pignoramento e lo sfratto dei nuclei famigliari insolventi
significa erodere le possibilità che queste famiglie recuperino una
fonte di reddito.
Ma non possiamo certo perdere tempo dietro
all’emergenza abitativa delle famiglie povere, vogliamo la prossima rata
del Recovery Fund!
La realizzazione delle centinaia di
progetti contenuti nel PNRR da parte delle amministrazioni pubbliche,
inclusi gli enti locali, imponeva una qualche forma di rafforzamento
della loro capacità amministrativa: forze fresche per gestire il piano
nel rispetto dei tempi stabiliti con l’Europa.
Poteva essere, questo, un
felice effetto collaterale della trappola del Recovery: un
generalizzato rafforzamento della macchina statale. Ovviamente non sarà
così, perché è fatto divieto di impiegare le risorse del PNRR per
finanziare assunzioni a tempo indeterminato.
Di conseguenza, tutti i
rinforzi chiamati a collaborare all’attuazione del PNRR saranno assunti
sì nel pubblico impiego, ma con contratti a tempo determinato,
realizzando la più grande operazione di precarizzazione del lavoro
pubblico mai vista.
A partire dalla prossima scadenza del 31 dicembre
2021, quando siamo impegnati ad assumere 2.800 tecnici a tempo
determinato per la gestione dei fondi europei nel Mezzogiorno e 1.000
incarichi professionali per la gestione delle procedure complesse
connesse all’attuazione del PNRR; unitamente al concorso per 500 esperti
a tempo determinato per la rendicontazione dei progetti, e considerando
lo scorrimento delle graduatorie, si tratta di circa 5.000 nuove unità
di lavoratori del settore pubblico reclutati a termine, una
trasformazione radicale che va a devastare l’ultimo avamposto del
rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ovvero il pubblico impiego.
Ecco un’altra condizione capestro: la creazione di precari ricattabili
in luogo di lavoratori tutelati, a tutto vantaggio dell’industria
privata, che sul ricatto dell’insicurezza lavorativa fonda i suoi
profitti.
Il quadro fin qui tracciato è già
sufficiente a smentire la favola propagandistica dei soldi che piovono
dal cielo per risollevare le economie europee colpite dalla pandemia.
Il
problema, però, è che non siamo neanche a metà del guado per quanto
riguarda le condizioni da rispettare per accedere esclusivamente alla prima tranche di aiuti…
PNRR: una, nessuna o cinquecentoventotto condizioni (Parte II)
Abbiamo provato a delineare
quali sono alcune delle principali condizioni che l’Italia si è
impegnata a soddisfare per avere accesso ai fondi del Recovery Fund. Ci
eravamo però lasciati senza finire il discorso, che purtroppo ha
ulteriori aspetti dirompenti e preoccupanti.
Per il profitto privato, il PNRR è
anche un’occasione d’oro per consumare qualche vendetta, come quella sul
referendum per l’acqua pubblica del 2011, quando 26 milioni di italiani
sancirono la natura pubblica di questo bene di prima necessità e della
sua gestione.
Tra le condizioni da rispettare per il prossimo dicembre,
infatti, si legge anche di una “Riforma del quadro giuridico per una
migliore gestione e un uso sostenibile dell’acqua”, una misura “per
garantire la piena capacità gestionale per i servizi idrici integrati”.
Basta
approfondire la documentazione del PNRR
per scoprire che questo significa
“rafforzare l’industrializzazione del
settore favorendo la costituzione di operatori integrati, pubblici o
privati e realizzando economie di scala per una gestione efficiente
degli investimenti e delle operazioni”.
Ecco che la prima tranche di
Recovery Fund diventa un grimaldello per riformare la normativa sulla
gestione dell’acqua favorendone la privatizzazione, affermando un
modello di multiutility (da qui l’enfasi sulla natura integrata
del servizio) che calpesta il diritto all’acqua per garantire
l’accumulazione di profitti e rendite monopolistiche (da qui, invece,
l’enfasi sulle economie di scala).
La foga liberalizzatrice e
privatizzatrice del PNRR non si ferma, ovviamente, qui. Ci siamo,
infatti, impegnati a riformare i dottorati “al fine di coinvolgere
maggiormente le imprese e stimolare la ricerca applicata”, con lo scopo
di “semplificare le procedure per il coinvolgimento di imprese e centri
di ricerca e rafforzando le misure per la costruzione di percorsi di
dottorato non finalizzati alla carriera accademica”.
Questo significa
orientare la ricerca pubblica verso quei settori che sono in grado di
produrre profitti, ovviamente privati, a discapito della ricerca nei
settori di interesse collettivo.
Ma il PNRR in tema di università
contiene dell’altro: entro la fine dell’anno, deve entrare in vigore una
“legislazione volta a modificare le norme vigenti in materia di alloggi
per studenti”.
Il Piano prevede poco meno di un miliardo di euro per la
realizzazione di nuovi alloggi per gli studenti, il che sarebbe
sicuramente utile. Però, prima che i soldi siano spesi, pretende – per
l’appunto come condizione per l’erogazione di questa prima
tranche –
che siano modificate le norme sugli alloggi in modo da garantire che
quelle risorse vadano a finere nelle mani giuste, cioè a ditte private che
fanno profitti sull’erogazione di quello che dovrebbe essere il diritto
allo studio assicurato dallo Stato. Basta leggere il
testo del PNRR
(p. 187) per capirlo:
“La misura si basa su un’architettura innovativa
ed originale, che ha l’obiettivo di incentivare la realizzazione, da
parte dei soggetti privati, di nuove strutture di edilizia universitaria
attraverso la copertura anticipata, da parte del MUR, degli oneri
corrispondenti ai primi tre anni di gestione delle strutture stesse.”
Ottimo: i soggetti privati prendono i finanziamenti, e lo Stato copre le
spese di gestione della struttura per i primi tre anni, dunque costi
pubblici e profitti privati.
Tutto chiaro, fuorché il carattere
“innovativo e originale” della misura.
Questo è il ruolo centrale della
riforma che siamo impegnati a realizzare entro dicembre, per modificare
le norme in materia di alloggi studenteschi (L. 338/2000 e d.lgs.
68/2012) in modo tale da garantire “l’apertura della partecipazione al
finanziamento anche a investitori privati, o partenariati
pubblico-privati”.
Ma non solo: perché la tavola per gli speculatori
privati sia ben apparecchiata, la misura va ben oltre il mero accesso ai
finanziamenti, e prevede
“supporto della sostenibilità degli
investimenti privati, con garanzia di un regime di tassazione simile a
quello applicato per l’edilizia sociale, che però consenta l’utilizzo
flessibile dei nuovi alloggi quando non necessari l’ospitalità
studentesca” ed anche
“adeguamento degli standard per gli alloggi,
mitigando i requisiti di legge relativi allo spazio comune per studente
disponibile negli edifici in cambio di camere (singole) meglio
attrezzate”.
Dunque, i fortunati gestori privati di queste strutture
potranno usufruire delle agevolazioni riservate all’edilizia sociale,
con addirittura la possibilità di destinare gli alloggi ad usi diversi
dall’ospitalità degli studenti fuori sede e, infine, la ciliegina sulla
torta di un “adeguamento degli standard” che consentirà di massimizzare
il numero di alloggi a discapito dello spazio comune, proprio perché
quegli alloggi devono potersi trasformare in vere e proprie camere
d’albergo da affittare a chiunque.
Se vogliamo questa prima tranche,
dunque, possiamo definitivamente dire “ciao” a quella parte
fondamentale del diritto allo studio che richiede la moltiplicazione
degli alloggi per gli studenti fuori sede.
Un destino simile attende la sicurezza
di strade, autostrade, ponti, viadotti e cavalcavia, infrastrutture per
la cui manutenzione sono stati stanziati nel Piano più di un miliardo
di euro, denaro che sarà erogato solo dopo un’opportuna modifica del
quadro normativo, inclusa tra le condizioni della prima tranche
di contributo.
La riforma “prevede il trasferimento della titolarità di
ponti, viadotti e cavalcavia sulle strade di secondo livello a quelle
di primo livello (autostrade e strade statali), in particolare dai
Comuni, dalle Province e dalle Regioni allo Stato”.
Dal momento che, per
effetto della riforma, “la manutenzione di ponti, viadotti e cavalcavia
sarà di competenza dell’ANAS e/o delle società concessionarie
autostradali”, questo significa di fatto regalare alle società
concessionarie autostradali anche la gestione della miriade di strade di
secondo livello (comunali, provinciali e regionali) proprio nel momento
in cui vengono stanziati fondi per la manutenzione.
Quindi prima si
fanno crollare i ponti per carenze di manutenzione, e poi, quando lo
Stato – e non i privati – finanziano la manutenzione, di colpo i privati
vengono investiti anche della titolarità di ponti, viadotti e
cavalcavia di competenza degli enti locali.
Gli impegni presi in sede europea
interessano anche il mercato del lavoro, dove siamo impegnati a varare
il decreto interministeriale che istituisce il programma nazionale
“Garanzia di occupabilità dei lavoratori” (GOL) ed il decreto
interministeriale che istituisce il Piano Nazionale Nuove Competenze.
Sappiamo che i nostri governanti, nazionali ed europei, non dormono la
notte a causa del reddito di cittadinanza.
Quello strumento era stato
pensato
non certo per aiutare i lavoratori, concedendogli
una piccola quantità di denaro
in cambio dell’impegno ad accettare i peggiori lavori in circolazione,
ma è stato attuato solo per la parte che garantisce un reddito a chi il
lavoro non ce l’ha, senza implementare mai il secondo pilastro della
misura, quello che subordina l’erogazione del reddito all’accettazione
di lavoretti precari e mal pagati.
Il GOL
allude a questa garanzia di occupabilità: assicurare che i percettori
di reddito di cittadinanza, ma anche di NASPI e di cassa integrazione
straordinaria, siano costretti – pena la perdita immediata del
contributo – ad accettare le proposte di lavoro più misere. Riportare il
reddito di cittadinanza nell’alveo delle armi da usare contro
lavoratori e disoccupati, questo è l’obiettivo dello sforzo riformatore
delle politiche attive del lavoro che dobbiamo varare entro fine anno.
Un’altra condizione da rispettare per ottenere la prima tranche
è la “semplificazione delle procedure e il rafforzamento dei poteri del
Commissario nelle Zone Economiche Speciali”.
Le ZES, Zone Economiche
Speciali, sono tutte quelle aree del Mezzogiorno in cui è stato
istituito un regime di semplificazioni e agevolazioni fiscali pensato
per attrarre investimenti privati.
Si tratta di una deregolamentazione
selvaggia del Sud, imposta con una forma di stato di emergenza governata
da un Commissario che agisce in deroga ad una serie di prescrizioni del
codice degli appalti, delle procedure di fattibilità (con un’estensione
sconsiderata del dispositivo del silenzio assenso) e addirittura della
normativa antimafia, con il solo scopo di favorire il profitto privato
al di là delle regole valide nel resto del Paese, e con la scusa che
questo trattamento di favore si dovrebbe riverberare poi in un maggiore
sviluppo del Mezzogiorno.
Il messaggio dell’Europa, su questo versante, è
chiaro: se vogliamo i soldi del PNRR, dobbiamo potenziare il meccanismo
delle ZES, ovvero un modello di sviluppo basato sull’idea che la
crescita si produce solo a discapito della sicurezza del lavoro,
dell’ambiente, della lotta alla criminalità, delle regole urbanistiche e
di tutto ciò che determina il benessere collettivo.
Concludiamo questa rapida disamina delle più significative tra le 51 condizioni associate alla prima tranche
di finanziamento del PNRR con un capitolo dedicato ai soldi destinati
alle imprese.
Perché i progetti infrastrutturali partano, cioè affinché
le successive
tranche del PNRR siano sbloccate, l’Europa ci
chiede in prima battuta di assicurare una pioggia di denaro ad alcuni
specifici settori industriali. Con la proroga del Superbonus, si regala
il famoso 10% dell’investimento a banche e multinazionali del settore
delle costruzioni, che garantiscono le ristrutturazioni ecosostenibili
anticipando il 100% delle risorse necessarie (è il lavoro delle banche,
ci mancherebbe), ma accaparrandosi il 10% aggiuntivo gentilmente messo a
disposizione dallo Stato. Siamo poi impegnati a varare l’invito per
individuare i beneficiari di 1,5 miliardi di aiuti di Stato autorizzati
dalla Commissione Europea nel settore della microelettronica tramite il
Fondo IPCEI, a rifinanziare il Fondo 295/81 gestito dalla
SIMEST
per favorire l’internazionalizzazione delle imprese con 1,2 miliardi di
euro, a sostenere l’imprenditorialità femminile con 20 milioni di euro a
fondo perduto e a sovvenzionare, con una serie di fondi, le imprese del
turismo con oltre 1,8 miliardi di euro.
Ecco che la prima tranche
condiziona la destinazione di una quota cospicua delle risorse da
sbloccare a trasferimenti al mondo delle imprese, rafforzandone i
margini di profitto.
Il viaggio nelle 528 condizioni del PNRR è appena iniziato, siamo solo alla prima delle dieci tranche
previste, eppure dovrebbe essere chiaro quale sia la posta in gioco.
Dietro alla promessa di infrastrutture per il Paese e un ritorno alla
crescita si cela un tessuto di riforme e investimenti che convergono
sullo scopo di rafforzare la profittabilità delle imprese private a
discapito del benessere collettivo e dei diritti sociali, minacciati da
un programma di privatizzazioni e deregolamentazioni che si impone
sull’agenda politica delle singole forze parlamentari, proprio in virtù
del meccanismo di condizionalità che caratterizza il PNRR.
Le riforme
che ci siamo impegnati a varare entro il prossimo dicembre, di cui
abbiamo qui brevemente discusso,
non sono contenute nel programma
politico di alcun partito, non sono sottoposte ad alcun dibattito, sono
la costituzione materiale di una nuova forma di austerità che sta
determinando gli assetti fondamentali della nostra organizzazione
economica e sociale mese dopo mese, condizione dopo condizione, tranche dopo tranche di questo grandioso piano di aiuti europei.
Nessun commento:
Posta un commento