lunedì 27 settembre 2021

PNRR: una, nessuna o cinquecentoventotto condizioni (Parte I e Parte II)

Il cosiddetto Recovery Fund, noto anche come Next Generation EU, attribuisce all’Italia 191 miliardi di euro che saranno trasferiti al Paese tra il 2021 e il 2026, suddivisi in 69 miliardi di euro a fondo perduto e 122 miliardi di euro di prestiti, da rimborsare alle istituzioni europee. Queste risorse vanno a finanziare gli interventi raccolti nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

 

coniarerivolta.org

In un mondo dominato dal denaro si sente spesso dire che seguendo i soldi – focalizzando l’attenzione sui soli flussi finanziari – si possono svelare le dinamiche fondamentali della società. Seguire la traccia dei soldi porterebbe dritti al cuore delle meccaniche del sistema. Nel caso del PNRR questa massima perde buona parte della sua credibilità: i soldi del PNRR sono forse la parte meno rilevante del Piano, e proveremo a dimostrarlo concentrando la nostra attenzione sulle centinaia di condizioni a cui è stata subordinata l’erogazione dei fondi. 

I soldi, insomma, sono solo l’esca, mentre il contenuto politico del PNRR è racchiuso nelle clausole che vanno rispettate per ottenere quelle risorse.

Abbiamo già avuto modo di sottolineare l’assoluta inadeguatezza del finanziamento messo a disposizione dalla Commissione Europea: quei soldi, nonostante le apparenze, sono insufficienti a garantire qualsiasi ripresa. 
Nel dibattito pubblico, però, si è fatta strada un’idea di apparente buon senso: fossero anche pochi, sono comunque un contributo alla crescita del Paese, ed un contributo finalmente libero dalle condizioni capestro che, nel decennio passato, hanno messo in ginocchio la Grecia e tutti gli altri Paesi che si sono imbattuti nei fatidici “aiuti” europei. 
Insomma, si dice, il Recovery Fund fornisce finanziamenti incondizionati: niente austerità, solo soldi, perché avremmo dovuto rifiutarli?

Semplicemente, perché – come proveremo a mostrare sulla base della documentazione istituzionale disponibile – questi soldi portano con sé la vecchia austerità in una forma nuova e ancora più pervasiva. 

Infatti, le risorse del PNRR arriveranno all’Italia sotto forma di dieci rate semestrali di prestiti e dieci rate semestrali di contributi a fondo perduto, e l’erogazione di ciascuna rata è subordinata, da un lato, alla solita disciplina di bilancio (per l’appunto, la vecchia austerità fatta di tagli alla spesa pubblica e tasse), e dall’altro ad un dettagliatissimo piano di riforme – illustrate nel PNRR – che convergono sull’obiettivo di abbattere gli ultimi residui di stato sociale e trasformare il nostro modello economico in una moderna economia di mercato al servizio del profitto privato. 

Dunque, ogni euro di PNRR porta con sé decine e decine di euro di tagli alla spesa sociale, per via delle rigide regole di bilancio europee che impone, accompagnati a quelle riforme del sistema economico che servono a ridurre ulteriormente il perimetro dei diritti sociali per favorire l’espansione, senza limiti, del profitto di pochi.

Dopo circa un anno di dibattito in cui ci è stato raccontato che il Recovery Fund sarebbe stato un aiuto incondizionato, ha fatto irruzione la realtà, sotto forma dell’Allegato riveduto della Decisione di esecuzione del Consiglio relativa all’approvazione della valutazione del piano per la ripresa e la resilienza dell’Italia, un documento che illustra nel dettaglio ben 528 (già, cinquecentoventotto!) condizioni negoziate tra Italia e Commissione Europea per l’erogazione delle 20 tranche del finanziamento. 
Il documento riporta con precisione tutte le condizioni suddivise per tranche di finanziamento: sappiamo, insomma, cosa dobbiamo esattamente fare per ricevere ogni sei mesi una parte di quei 191 miliardi di euro.

L’Italia si è quindi impegnata a realizzare una serie di riforme nei prossimi sei anni, su un arco temporale che supera abbondantemente l’orizzonte politico del governo in carica. 

Non importa quali siano i prossimi governi, cosa votino i cittadini, quali maggioranze parlamentari possano affermarsi: fino a che l’Italia resta nel campo della compatibilità con la cornice istituzionale dell’Unione Europea, il Paese ha già tracciato davanti a sé un programma politico che, passando per le tappe forzate scandite dal PNRR, eroderà i residui diritti sociali e imporrà, in misura ancora più pervasiva, l’interesse privato di pochi sul benessere collettivo della popolazione. 

Il principio che si afferma con il PNRR è chiaro: la politica economica del nostro Paese viene esplicitamente determinata all’infuori del processo democratico. Non più solamente per quanto riguarda i livelli di spesa pubblica, limitati entro i vincoli di bilancio imposti da Maastricht in poi, ma anche il suo contenuto e tutte le riforme che fanno da contorno al processo di deregolamentazione dei mercati in favore dei profitti privati.

Le 528 condizioni si suddividono in 
214 traguardi da raggiungere e 
314 obiettivi quantitativi da conseguire per il tramite di
63 riforme e 
151 investimenti. 
Per avere un’idea di quello che significa aver accettato il ricatto del PNRR, basta soffermarsi sulla prima tranche da 24 miliardi che sarà erogata entro il 31 dicembre 2021, suddivisa in una rata di prestiti (12,6 miliardi) ed una rata di contributo a fondo perduto (11,4 miliardi) che saranno erogati solo subordinatamente al rispetto di ben 51 condizioni, puntualmente definite nel documento citato. 
Cosa ci siamo impegnati a fare entro la fine dell’anno per ottenere questi 24 miliardi di euro?

Un primo pacchetto di condizioni riguarda alcune riforme di contesto, in primis semplificazione delle procedure amministrative, appalti pubblici e concessioni e giustizia. Rientra in tale ambito il Dl 77/2021, recentemente approvato dal Parlamento e che deregolamenta pesantemente le procedure di appalto, derogando ad una serie di prescrizioni poste a tutela dell’ambiente e della legalità delle procedure. La parola d’ordine, come si può leggere nel PNRR, è velocizzare le procedure. Ma questo che cosa significa, concretamente? 

Ce lo dice l’art. 44 del Dl 77/2021, scritto apposta per onorare questo impegno con l’Europa: significa eliminare una serie di controlli e verifiche preliminari della fattibilità tecnica, ambientale e archeologica dei lavori pubblici, in modo tale da consentire quel selvaggio sviluppo urbano che insegue le speculazioni edilizie – servendo aree deserte con stazioni della metropolitana – a discapito del patrimonio pubblico fatto di ambiente, paesaggio e cultura, tutti beni sacrificabili sull’altare del PNRR. 
Dunque, per arrivare a questi miliardi promessi dell’Europa abbiamo smontato di fatto le norme che limitano il sub-appalto – una tutela contro la criminalità organizzata e in difesa della sicurezza sul lavoro – e quelle che impongono le Valutazioni di Impatto Ambientale (VIA) degli investimenti, aprendo la strada alla sistematica distruzione dell’ambiente da parte della speculazione. 
Si potrebbero velocizzare i lavori moltiplicando gli sforzi per garantire che le opere pubbliche rispettino i vincoli paesaggistici, archeologici, ambientali ed urbanistici, sviluppando ad esempio una rete di trasporto pubblico locale in armonia con il tessuto urbano. 
Ma perché spendere tante risorse per il bene comune, se si possono velocizzare le procedure tagliando controlli e verifiche di sicurezza, ovvero quei lacci che spesso rallentano la corsa alla speculazione?
In tema di giustizia, le istituzioni europee hanno preteso una riforma lampo del processo civile e del processo penale: per accelerare i tempi della giustizia, tempi oggettivamente troppo dilatati, si è scelta la via della mera semplificazione delle procedure, una scelta tutta politica che favorisce, puntualmente, la parte più forte. 
Per esempio, la riduzione dei termini di durata dei processi penali consentirà, a chi ha le risorse per organizzare al meglio la propria difesa, di cavarsela trascinando il processo per le lunghe. 
Alla stessa maniera, l’accelerazione delle procedure per l’esecuzione immobiliare consentirà alle banche e ai palazzinari di realizzare molto più rapidamente i pignoramenti delle case dei debitori che – spesso per difficoltà lavorative – perdono la capacità di onorare un mutuo: ridurre i tempi per il pignoramento e lo sfratto dei nuclei famigliari insolventi significa erodere le possibilità che queste famiglie recuperino una fonte di reddito. 
Ma non possiamo certo perdere tempo dietro all’emergenza abitativa delle famiglie povere, vogliamo la prossima rata del Recovery Fund!
 
La realizzazione delle centinaia di progetti contenuti nel PNRR da parte delle amministrazioni pubbliche, inclusi gli enti locali, imponeva una qualche forma di rafforzamento della loro capacità amministrativa: forze fresche per gestire il piano nel rispetto dei tempi stabiliti con l’Europa.
Poteva essere, questo, un felice effetto collaterale della trappola del Recovery: un generalizzato rafforzamento della macchina statale. Ovviamente non sarà così, perché è fatto divieto di impiegare le risorse del PNRR per finanziare assunzioni a tempo indeterminato. 
Di conseguenza, tutti i rinforzi chiamati a collaborare all’attuazione del PNRR saranno assunti sì nel pubblico impiego, ma con contratti a tempo determinato, realizzando la più grande operazione di precarizzazione del lavoro pubblico mai vista. 
A partire dalla prossima scadenza del 31 dicembre 2021, quando siamo impegnati ad assumere 2.800 tecnici a tempo determinato per la gestione dei fondi europei nel Mezzogiorno e 1.000 incarichi professionali per la gestione delle procedure complesse connesse all’attuazione del PNRR; unitamente al concorso per 500 esperti a tempo determinato per la rendicontazione dei progetti, e considerando lo scorrimento delle graduatorie, si tratta di circa 5.000 nuove unità di lavoratori del settore pubblico reclutati a termine, una trasformazione radicale che va a devastare l’ultimo avamposto del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ovvero il pubblico impiego. 
Ecco un’altra condizione capestro: la creazione di precari ricattabili in luogo di lavoratori tutelati, a tutto vantaggio dell’industria privata, che sul ricatto dell’insicurezza lavorativa fonda i suoi profitti.
Il quadro fin qui tracciato è già sufficiente a smentire la favola propagandistica dei soldi che piovono dal cielo per risollevare le economie europee colpite dalla pandemia. 
Il problema, però, è che non siamo neanche a metà del guado per quanto riguarda le condizioni da rispettare per accedere esclusivamente alla prima tranche di aiuti…

PNRR: una, nessuna o cinquecentoventotto condizioni (Parte II)


Abbiamo provato a delineare quali sono alcune delle principali condizioni che l’Italia si è impegnata a soddisfare per avere accesso ai fondi del Recovery Fund. Ci eravamo però lasciati senza finire il discorso, che purtroppo ha ulteriori aspetti dirompenti e preoccupanti.

Per il profitto privato, il PNRR è anche un’occasione d’oro per consumare qualche vendetta, come quella sul referendum per l’acqua pubblica del 2011, quando 26 milioni di italiani sancirono la natura pubblica di questo bene di prima necessità e della sua gestione.
Tra le condizioni da rispettare per il prossimo dicembre, infatti, si legge anche di una “Riforma del quadro giuridico per una migliore gestione e un uso sostenibile dell’acqua”, una misura “per garantire la piena capacità gestionale per i servizi idrici integrati”
Basta approfondire la documentazione del PNRR per scoprire che questo significa “rafforzare l’industrializzazione del settore favorendo la costituzione di operatori integrati, pubblici o privati e realizzando economie di scala per una gestione efficiente degli investimenti e delle operazioni”
Ecco che la prima tranche di Recovery Fund diventa un grimaldello per riformare la normativa sulla gestione dell’acqua favorendone la privatizzazione, affermando un modello di multiutility (da qui l’enfasi sulla natura integrata del servizio) che calpesta il diritto all’acqua per garantire l’accumulazione di profitti e rendite monopolistiche (da qui, invece, l’enfasi sulle economie di scala).
La foga liberalizzatrice e privatizzatrice del PNRR non si ferma, ovviamente, qui. Ci siamo, infatti, impegnati a riformare i dottorati “al fine di coinvolgere maggiormente le imprese e stimolare la ricerca applicata”, con lo scopo di “semplificare le procedure per il coinvolgimento di imprese e centri di ricerca e rafforzando le misure per la costruzione di percorsi di dottorato non finalizzati alla carriera accademica”. 
Questo significa orientare la ricerca pubblica verso quei settori che sono in grado di produrre profitti, ovviamente privati, a discapito della ricerca nei settori di interesse collettivo. 
Ma il PNRR in tema di università contiene dell’altro: entro la fine dell’anno, deve entrare in vigore una “legislazione volta a modificare le norme vigenti in materia di alloggi per studenti”. 
Il Piano prevede poco meno di un miliardo di euro per la realizzazione di nuovi alloggi per gli studenti, il che sarebbe sicuramente utile. Però, prima che i soldi siano spesi, pretende – per l’appunto come condizione per l’erogazione di questa prima tranche – che siano modificate le norme sugli alloggi in modo da garantire che quelle risorse vadano a finere nelle mani giuste, cioè a ditte private che fanno profitti sull’erogazione di quello che dovrebbe essere il diritto allo studio assicurato dallo Stato. Basta leggere il testo del PNRR (p. 187) per capirlo: “La misura si basa su un’architettura innovativa ed originale, che ha l’obiettivo di incentivare la realizzazione, da parte dei soggetti privati, di nuove strutture di edilizia universitaria attraverso la copertura anticipata, da parte del MUR, degli oneri corrispondenti ai primi tre anni di gestione delle strutture stesse.”  
Ottimo: i soggetti privati prendono i finanziamenti, e lo Stato copre le spese di gestione della struttura per i primi tre anni, dunque costi pubblici e profitti privati.
Tutto chiaro, fuorché il carattere “innovativo e originale” della misura. 
Questo è il ruolo centrale della riforma che siamo impegnati a realizzare entro dicembre, per modificare le norme in materia di alloggi studenteschi (L. 338/2000 e d.lgs. 68/2012) in modo tale da garantire “l’apertura della partecipazione al finanziamento anche a investitori privati, o partenariati pubblico-privati”. 
Ma non solo: perché la tavola per gli speculatori privati sia ben apparecchiata, la misura va ben oltre il mero accesso ai finanziamenti, e prevede 
“supporto della sostenibilità degli investimenti privati, con garanzia di un regime di tassazione simile a quello applicato per l’edilizia sociale, che però consenta l’utilizzo flessibile dei nuovi alloggi quando non necessari l’ospitalità studentesca” ed anche 
“adeguamento degli standard per gli alloggi, mitigando i requisiti di legge relativi allo spazio comune per studente disponibile negli edifici in cambio di camere (singole) meglio attrezzate”
Dunque, i fortunati gestori privati di queste strutture potranno usufruire delle agevolazioni riservate all’edilizia sociale, con addirittura la possibilità di destinare gli alloggi ad usi diversi dall’ospitalità degli studenti fuori sede e, infine, la ciliegina sulla torta di un “adeguamento degli standard” che consentirà di massimizzare il numero di alloggi a discapito dello spazio comune, proprio perché quegli alloggi devono potersi trasformare in vere e proprie camere d’albergo da affittare a chiunque. 
Se vogliamo questa prima tranche, dunque, possiamo definitivamente dire “ciao” a quella parte fondamentale del diritto allo studio che richiede la moltiplicazione degli alloggi per gli studenti fuori sede.

Un destino simile attende la sicurezza di strade, autostrade, ponti, viadotti e cavalcavia, infrastrutture per la cui manutenzione sono stati stanziati nel Piano più di un miliardo di euro, denaro che sarà erogato solo dopo un’opportuna modifica del quadro normativo, inclusa tra le condizioni della prima tranche di contributo. 

La riforma “prevede il trasferimento della titolarità di ponti, viadotti e cavalcavia sulle strade di secondo livello a quelle di primo livello (autostrade e strade statali), in particolare dai Comuni, dalle Province e dalle Regioni allo Stato”.
Dal momento che, per effetto della riforma, “la manutenzione di ponti, viadotti e cavalcavia sarà di competenza dell’ANAS e/o delle società concessionarie autostradali”, questo significa di fatto regalare alle società concessionarie autostradali anche la gestione della miriade di strade di secondo livello (comunali, provinciali e regionali) proprio nel momento in cui vengono stanziati fondi per la manutenzione.  
Quindi prima si fanno crollare i ponti per carenze di manutenzione, e poi, quando lo Stato – e non i privati – finanziano la manutenzione, di colpo i privati vengono investiti anche della titolarità di ponti, viadotti e cavalcavia di competenza degli enti locali.
 
Gli impegni presi in sede europea interessano anche il mercato del lavoro, dove siamo impegnati a varare il decreto interministeriale che istituisce il programma nazionale Garanzia di occupabilità dei lavoratori(GOL) ed il decreto interministeriale che istituisce il Piano Nazionale Nuove Competenze. 
Sappiamo che i nostri governanti, nazionali ed europei, non dormono la notte a causa del reddito di cittadinanza. 
Quello strumento era stato pensato non certo per aiutare i lavoratori, concedendogli una piccola quantità di denaro in cambio dell’impegno ad accettare i peggiori lavori in circolazione, ma è stato attuato solo per la parte che garantisce un reddito a chi il lavoro non ce l’ha, senza implementare mai il secondo pilastro della misura, quello che subordina l’erogazione del reddito all’accettazione di lavoretti precari e mal pagati. 
Il GOL allude a questa garanzia di occupabilità: assicurare che i percettori di reddito di cittadinanza, ma anche di NASPI e di cassa integrazione straordinaria, siano costretti – pena la perdita immediata del contributo – ad accettare le proposte di lavoro più misere. 
Riportare il reddito di cittadinanza nell’alveo delle armi da usare contro lavoratori e disoccupati, questo è l’obiettivo dello sforzo riformatore delle politiche attive del lavoro che dobbiamo varare entro fine anno.

Un’altra condizione da rispettare per ottenere la prima tranche è la “semplificazione delle procedure e il rafforzamento dei poteri del Commissario nelle Zone Economiche Speciali”

Le ZES, Zone Economiche Speciali, sono tutte quelle aree del Mezzogiorno in cui è stato istituito un regime di semplificazioni e agevolazioni fiscali pensato per attrarre investimenti privati. 
Si tratta di una deregolamentazione selvaggia del Sud, imposta con una forma di stato di emergenza governata da un Commissario che agisce in deroga ad una serie di prescrizioni del codice degli appalti, delle procedure di fattibilità (con un’estensione sconsiderata del dispositivo del silenzio assenso) e addirittura della normativa antimafia, con il solo scopo di favorire il profitto privato al di là delle regole valide nel resto del Paese, e con la scusa che questo trattamento di favore si dovrebbe riverberare poi in un maggiore sviluppo del Mezzogiorno. 
Il messaggio dell’Europa, su questo versante, è chiaro: se vogliamo i soldi del PNRR, dobbiamo potenziare il meccanismo delle ZES, ovvero un modello di sviluppo basato sull’idea che la crescita si produce solo a discapito della sicurezza del lavoro, dell’ambiente, della lotta alla criminalità, delle regole urbanistiche e di tutto ciò che determina il benessere collettivo.

Concludiamo questa rapida disamina delle più significative tra le 51 condizioni associate alla prima tranche di finanziamento del PNRR con un capitolo dedicato ai soldi destinati alle imprese. 

Perché i progetti infrastrutturali partano, cioè affinché le successive tranche del PNRR siano sbloccate, l’Europa ci chiede in prima battuta di assicurare una pioggia di denaro ad alcuni specifici settori industriali. Con la proroga del Superbonus, si regala il famoso 10% dell’investimento a banche e multinazionali del settore delle costruzioni, che garantiscono le ristrutturazioni ecosostenibili anticipando il 100% delle risorse necessarie (è il lavoro delle banche, ci mancherebbe), ma accaparrandosi il 10% aggiuntivo gentilmente messo a disposizione dallo Stato. Siamo poi impegnati a varare l’invito per individuare i beneficiari di 1,5 miliardi di aiuti di Stato autorizzati dalla Commissione Europea nel settore della microelettronica tramite il Fondo IPCEI, a rifinanziare il Fondo 295/81 gestito dalla SIMEST per favorire l’internazionalizzazione delle imprese con 1,2 miliardi di euro, a sostenere l’imprenditorialità femminile con 20 milioni di euro a fondo perduto e a sovvenzionare, con una serie di fondi, le imprese del turismo con oltre 1,8 miliardi di euro. 
Ecco che la prima tranche condiziona la destinazione di una quota cospicua delle risorse da sbloccare a trasferimenti al mondo delle imprese, rafforzandone i margini di profitto.
Il viaggio nelle 528 condizioni del PNRR è appena iniziato, siamo solo alla prima delle dieci tranche previste, eppure dovrebbe essere chiaro quale sia la posta in gioco. 
Dietro alla promessa di infrastrutture per il Paese e un ritorno alla crescita si cela un tessuto di riforme e investimenti che convergono sullo scopo di rafforzare la profittabilità delle imprese private a discapito del benessere collettivo e dei diritti sociali, minacciati da un programma di privatizzazioni e deregolamentazioni che si impone sull’agenda politica delle singole forze parlamentari, proprio in virtù del meccanismo di condizionalità che caratterizza il PNRR.  
Le riforme che ci siamo impegnati a varare entro il prossimo dicembre, di cui abbiamo qui brevemente discusso, 
non sono contenute nel programma politico di alcun partito, non sono sottoposte ad alcun dibattito, sono la costituzione materiale di una nuova forma di austerità che sta determinando gli assetti fondamentali della nostra organizzazione economica e sociale mese dopo mese, condizione dopo condizione, tranche dopo tranche di questo grandioso piano di aiuti europei.

 

 

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