Stiamo assistendo ad un potente percorso di riscrittura della Storia.
Lo Stato, uscito vincitore dal conflitto della seconda parte del 900, ha avuto un’esigenza: cancellare la possibilità di pensare e concretizzare il cambiamento dell’esistente. Quest’attacco rappresenta certamente una resa di conti con il passato, che in Italia prende le forme dell’azzeramento delle ragioni del conflitto di classe dal dopo guerra, ma soprattutto un monito, un avvertimento pesante a chi non accetta una Storia che qualcuno vorrebbe finita e immutabile.
Parlare ancora oggi della “guerra di bassa intensità” in Italia sembra far tremare non poco gli scheletri negli armadi dello Stato italiano; questo perché la “strategia della tensione” aveva un obiettivo chiaro e definito: impedire qualsiasi tipo di trasformazione sociale e politica del sistema capitalista ed atlantista messo in piedi alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La dimostrazione drammaticamente più evidente di questa strategia si è avuta soprattutto, ma non solo, con la strage nella di Piazza Fontana a Milano nel 1969, quel 12 dicembre che per noi non sarà mai una data qualunque sul calendario ma ha rappresentato un salto di qualità nella “guerra non dichiarata” da parte dello Stato italiano, insieme ai servizi militari USA e alle organizzazioni fasciste, contro il movimento operaio, la sinistra e i comunisti nel nostro paese. Pertanto, il cosiddetto “assalto al cielo” non era una velleità o uno slancio utopico, ma una necessità storica e politica le cui fondamenta erano e sono tuttora da ritrovare nel grande clima di fermento e mobilitazione sociale di quegli anni: dalle lotte studentesche a quelle contro il carovita, dalle occupazioni nelle fabbriche alle manifestazioni in solidarietà con le lotte di indipendenza e autodeterminazione dei popoli nel mondo.
L’apparato repressivo di quegli anni (leggi ereditate dal fascismo, leggi speciali, arresti, carceri speciali, torture) ha rappresentato l’unica risposta possibile per un sistema di potere vacillante, incapace di mantenere quella “pace sociale” apparentemente garantita dal boom economico. Nulla è stato risparmiato a chi ha osato sfidare il sistema e le istituzioni dello Stato, il quale sin dai primi anni del cosiddetto “riflusso” ha messo in atto una campagna totale di distruzione martellante della memoria storica e politica per riscrivere un’altra storia, quella degli “opposti estremismi” e delle trame e sotto-trame della manipolazione complottista.
Eppure, la sete di vendetta dello Stato italiano, incapace di fare i conti con il proprio passato e la propria storia, è tornata a colpire chi non si è mai pentito e dissociato da quelle lotte. Ne sono dimostrazione tre fatti accaduti tra aprile e giugno di quest’anno, i quali non possono essere inquadrati e compresi se non prendendoli complessivamente.
Gli arresti degli esuli italiani in Francia e l’ennesimo tentativo di estradarli in Italia. Voler colpire questi esuli politici italiani ha rappresentato una dimostrazione di riaffermazione del potere di uno Stato in realtà debole, svuotato dal processo di integrazione europea di ogni sua funzione di mediazione e decisione politica e sociale. Questo Stato, a cui resta poco più dell’esercizio delle sue funzioni repressive, si è incaricato esso stesso di tracciare una linea di collegamento tra il passato e il presente, ovviamente in senso repressivo: per chi si schiera contro di esso, ci sarà solo guerra e vendetta. Questo è il messaggio che si è voluto mandare soprattutto alle giovani generazioni, un segnale per scoraggiare chi oggi intende impegnarsi a livello militante e organizzato nelle lotte sociali e politiche.
Il secondo fatto riguarda chi già è detenuto e contro il quale lo Stato sta consumando la propria vendetta. Cesare Battisti, ex militante del Proletari Armati per il Comunismo, è stato a lungo rifugiato in Francia, per poi essere arrestato in Bolivia ed estradato nel gennaio 2019. A giugno aveva intrapreso uno sciopero della fame per protestare contro le sue condizioni di detenzione nel reparto di Alta sicurezza (AS2) del carcere di Rossano, nonostante dovesse essere mantenuto in isolamento per soli sei mesi. Dopo più di venti giorni, è riuscito ad ottenere il trasferimento nel carcere di Ferrara ma il suo regime detentivo in alta sorveglianza non è stato affatto modificato. Le sue condizioni detentive sono evidentemente quelle che lo Stato vorrebbe riservare anche ai compagni esuli in Francia.
Da ultimo, un caso che a prima vista sembra meno grave, ma che colpisce il cuore della questione della memoria storica. Pochi giorni dopo l’intervista con Paolo Persichetti realizzata ad inizio maggio, la DIGOS aveva sequestrato tutto il materiale cartaceo e i dispositivi tecnologici che costituivano il suo archivio personale, andando a colpire il lavoro di ricostruzione storica del compagno che oggi è un giornalista, ricercatore, scrittore e storico. Questo si inserisce in un piano di rilettura di Stato degli ultimi 60 anni di questo paese ed in una più ampia manovra repressiva retrodatata, che vuole zittire tutti quei protagonisti che ancora si battono per una verità diversa da quella dettata dai vincitori.
Dunque, mettendo in fila: persecuzione contro chi è ancora esule, vendetta consumata contro chi è prigioniero e sequestro di un archivio storico, agendo direttamente nella rimozione del piano concreto di informazioni che riguardano quegli anni. È in queste forme che l’azione tesa alla damnatio memoriae dello Stato italiano si sostanzia concretamente.
Ma non c’è solo la lotta passata nel mirino di classi dominanti sempre più in crisi di legittimità. La torsione autoritaria e repressiva, attuata dai governi nazionali nel quadro generale della costituzione e del rafforzamento della Unione Europea come polo imperialista, criminalizza e punisce qualsiasi tentativo, anche “moderato”, di innescare una dinamica di conflitto, più o meno organizzato, nel mondo attuale.
Abbiamo affermato che siamo in presenza di un salto nel baratro della civiltà giuridica europea, nonostante la propaganda di regime voglia raccontare un’altra storia. La votazione a Bruxelles per togliere l’immunità parlamentare agli indipendentisti catalani esuli, il silenzio delle istituzioni continentali durante lo sciopero della fame e della sete del prigioniero politico Dimitris Koufontinas in Grecia, la detenzione criminale di Georges Ibrahim Abdallah, ci dicono chiaramente che l’Unione Europea è pronta ad agitare il tema dei diritti umani strumentalmente ai propri fini di politica estera, ma è incapace di rispettarli all’interno dei suoi confini. La guerra è guerra, e i nostri nemici dimostrano di esserne perfettamente coscienti.
Per noi si impone quindi con maggior forza la necessità della “amnistia sociale” come parola d’ordine per le lotte di ieri e di oggi.
L’ingombrante apparato legislativo e repressivo ereditato dal fascismo dalla nostra Repubblica, implementato grazie alle varie legislazioni emergenziali negli anni ‘70, non è mai stato dismesso – anzi è stato rafforzato – ed anche oggi chi si oppone in vario modo allo stato di cose presenti ne sperimenta il fardello in un contesto in cui il conflitto sociale è divenuto un crimine tout court.
Siamo consci che una ampia amnistia per i reati politici e sociali è il viatico per rompere quella gabbia del “diritto del nemico” in cui si sono imprigionati gli anni ‘70 e si vuole tutt’ora detenere la lotta di classe nel nostro Paese.
La storia dei compagni e delle compagne, e del loro sogno/bisogno di comunismo, è una risorsa preziosa che non lasceremo in balia degli aguzzini e delle loro leggi liberticide.
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