martedì 28 settembre 2021

Il Governo “cancella” il Lavoro

Nel solidarizzare con Draghi e la componente virtuosa dell’esecutivo per il mese difficile che li aspetta, i giornaloni lamentano sommessamente che dall’agenda dei lavori sia stata espunta la voce: salario minimo.

 

il Simplicissimus Anna Lombroso

 D’altra parte bisogna capirli, affaccendati come sono nella loro cabina di regia non possono mica perdere  tempo con misure francamente marginali quando devono misurarsi con ben “sette sfide”, sette  dossier  aperti in tema di lavoro, che dovranno chiudersi nelle prossime settimane, per entrare in legge di bilancio o nel ruolino di marcia del Recovery Plan.

I dati di Bankitalia, non il libretto rosso, denunciano che il 90% degli 832 mila contratti attivati nei primi otto mesi dell’anno, al netto delle cessazioni, sono a termine, le crisi industriali si moltiplicano, “il reddito di cittadinanza non basta”.

E un altro blocco dei licenziamenti sta per finire: il 31 ottobre infatti,  anche per le piccole imprese e le medio-grandi di tessile, abbigliamento, pelletteria, calzature – tutte aziende prive di ammortizzatori –  termina il divieto di licenziare, già rimosso dal primo luglio per le grandi  con  10 mila licenziamenti.

I nodi vengono al pettine, la grande menzogna che ha zittito per un po’ le vittime della prima embrionale fase del grande reset de noantri, la promessa che si sarebbe messo mano immediatamente a un nuovo riformato sistema di ammortizzatori si è ridotta al contenzioso tra kapò e caporali: alle grandi imprese che  esigono che si estendano gli oneri alle piccole, risponde timidamente  il ministro del Lavoro Andrea Orlando che chiede un rinvio,  mentre il ministro dell’Economia morde il freno perché non si moltiplichino i costi “a carico dello Stato”.

Ormai l’infamia è così scoperta da costringere i sindacati che sembravano così malleabili da accettare lo sblocco di licenziamenti e sfratti, il green pass, le bugie sugli ammortizzatori, i licenziamenti via mail a uscire repentinamente dalla narcosi, mandando avanti Landini a dire che «Se il governo non ci darà risposte su fisco e pensioni siamo pronti alla mobilitazione».

Segno che i quasi trentamila di Firenze, le agitazioni di camionisti, scuola, ferrovieri, il malcontento dei precari delle piattaforme, manifestazioni di sindacati autonomi, gli unici a fianco di dipendenti di piccole e medie imprese, dei rider, dei dipendenti della logistica  sono stati una bella sveglia che minaccia di compromettere l’inverecondo Patto per la ripresa lanciato giovedì all’assemblea di Confindustria, che assimilerei tranquillamente alla catena di cospirazioni promosse per il nostro bene intesa a costruire “una prospettiva condivisa di sviluppo «a beneficio anche dei più deboli e delle prossime generazioni», con l’obiettivo di rendere strutturale il 6% di crescita previsto per quest’anno.

Qualche concessione ci sarà per creare l’humus favorevole a soggiogare i sindacati con le radiose visioni della ripresa: il governo sostiene di lavorare alacremente con la supervisione della professoressa Fornero tornata in carica a una Super Ape Sociale, allargando il bacino dei lavori gravosi per i quali l’uscita è anticipata a 63 anni con 36 di contributi: si potrebbe arrivare a 203 mansioni dalle 65 attuali.  Intanto chi   avrà 62 anni nel 2022 e 38 di contributi non potrà più optare per Quota 100 che scade il 31 dicembre e dovrà aspettare i 67 anni.

E dimenticatevi anche l’avvio  del Gol, la  Garanzia per l’occupabilità dei lavoratori.  I soldi ci sarebbero, ipotetici è vero, sono i 5 miliardi del Next Generation Ue, il piano di spesa anche, ma manca il decreto, in attesa di conquistare il consenso delle Regioni che hanno approvato solo la ripartizione del primo 20% dello stanziamento e che litigano tra loro e con l’esecutivo per la spartizione del bottino che dovrebbe finanziare i costi di formazione e di reinserimento di milioni di disoccupati, quella specie di riabilitazione dei pigri, degli indolenti che avrebbero l’opportunità di raccogliere le sfide della modernità e diventare capitale umano da sfruttare nell’interesse generale.

Ma ci sono due argomenti sui quali Draghi non è disposto a cedere.

Il reddito di cittadinanza che c’è da ritenere gli sia sgradito proprio in quanto “ispirato a valori costituzionali”  e inteso a “sostenere le fasce più vulnerabili della popolazione”, ma che, un po’ come i lacci e laccioli che ostacolano la libera iniziativa,  ha dei limiti, “soprattutto per quanto riguarda le politiche attive del lavoro”,  permette di coltivare l’indolenza di flaneur e mammoni,  fa ostruzionismo alla volontà didattica del ceto dirigente che vuole educare i giovani, e pure quelli di mezza età, al lavoro, al sudore della fronte, alla realizzazione delle proprie ambizioni tramite mansioni specialistiche, servili e sottopagate come esige la  pedagogia dell’austerità.

E il salario minimo legale, una ubbia che ogni tanto qualche avanzo della sinistra parlamentare offertasi entusiasticamente all’ideologia neoliberista tira fuori dalla naftalina per far bello figura con uno scampolo di progressismo.

A Draghi piace vincere facile: sulla riduzione del reddito di cittadinanza a elemosina dispensata con oculata parsimonia, ha il consenso di tutti, non c’è episodio di cronaca nera, fenomeno malavitoso che non venga esplorato allo scopo di denunciare che il reo è percettore di aiuti immeritati,  non c’è gestore di stabilimenti balneari, non c’è esercente che non si lamenti perché non trova personale stagionale tra i giovani traviati dalla cuccagna di Stato in modo da consolidare quella legge scritta anche sui cancelli dei lager a conferma che chi si sottrae è a un tempo parassita e malfattore.

Quanto al salario minimo non ricordo che se  era scritto a matita nel Pnrr di Conte, se era sopravvissuto, sia pure sbiadito, nella stesura di Draghi, fatto sta che se ne è persa la traccia a dimostrazione che non tutto quello che si fa in Europa è obbligatorio fare in Italia, dove, o si esagera come con il Green pass, o si soprassiede per non concedere troppi benefici a un popolaccio riottoso e infingardo. Perché, tanto per dire, il salario minimo è garantito per legge in 21 paesi, con retribuzioni più che dignitose, oltre 1600 euro in Belgio, 1050 in Spagna, 1539 in Francia, 1584 in Germania e addirittura quasi 2000 euro in Lussemburgo.

Quella per il salario minimo garantito ha assunto l’aspetto di una battaglia irrealistica, pensando alla precarietà, alla molteplicità di contratti anomali, alle raffinate o triviali forme di intimidazione e ricatto che vengono esercitate sul personale avventizio, sugli stagionali, sui part time.

Ma per questo è cruciale intanto perché serve a far piazza pulita della retorica sulle nuove frontiere della digitalizzazione, della tecnologia che dovrebbero separare i bravi, meritevoli di remunerazioni elevate, e i pesi morti parassitari, che non si evolvono e cui è giusto dare paghe da fame. Poi, perché concorre a contrastare quella frammentazione sempre più violenta del mercato del lavoro,  che ha contribuito a far credere agli stessi interessati che la frantumazione sia incontrastabile, che le identità dei singoli lavoratori siano irriducibilmente distinte tanto da non potersi coalizzare contro lo sfruttamento e divari esistenti, territoriali o di genere o di categoria.

 È ora di dire che nessun lavoratore deve più essere “povero”, nessuno deve essere umiliato, nessuno deve essere ricattato con un salario inferiore a un minimo che permetta di soddisfare i propri bisogni, nessuno deve essere costretto a fare due lavori per arrivare a fine mese, per accedere a pagamento a diritti che si credevano inalienabili, come quello all’assistenza e alla cura, nessuno deve sentirsi solo davanti a un padronato che lo minaccia e intimorisce, che gli pone l’alternativa tra paga o salute, che pone condizioni capestro che impongono la rinuncia a sicurezza, stabilità, garanzie.

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