L’accorrere di quasi tutti i partiti politici tra le braccia di Mario Draghi ha sugellato in modo evidente un salto di qualità nel processo di ‘normalizzazione’ della politica italiana.
Dopo tre anni di innocui scossoni che hanno scalfito in modo del tutto marginale il corso della storia socio-politica del Paese, il nuovo Governo rappresenta l’acquietarsi di ogni inquietudine parlamentare e la piena adesione alla più ortodossa applicazione delle politiche volute dall’oligarchia economica, che trova nel progetto di integrazione europea il suo scudo e la sua linfa vitale. Prove significative di questo passaggio si possono trovare in gran quantità nei comportamenti e nelle dichiarazioni più recenti di quei due partiti che avevano preteso nel marzo 2018 di rappresentare una inesistente alternativa rispetto al passato: il M5S e la Lega.
Quest’ultima, non paga di aver dato appoggio al Governo più europeista della storia recente dopo aver indossato per un po’ di anni sgargianti felpe ‘no Euro’, ha deciso che era tempo di mettere in cantina anche ogni residua apparenza di partito del popolo e paladino della difesa delle briciole sociali. E così giunge inesorabile persino il tempo della caduta della tanto rivendicata quota 100. “Non pretendiamo la proroga di quota 100”, ha commentato Riccardo Molinari, portavoce del partito, al momento della dichiarazione del voto di fiducia al governo “anche se ci piacerebbe. Ma è evidente che non possiamo pensare di tornare alla Fornero. Serve un sistema che garantisca la fuoriuscita dal lavoro anticipata e che permetta ai giovani di entrare”.
Chiacchere molto vaghe, insomma, che il suo collega di partito Claudio Durigon, tra gli ideatori di quota 100 nel 2018, si prodiga di definire con maggior chiarezza: “Il Covid ha cambiato tutto e quando verrà meno il blocco dei licenziamenti c’è il rischio che tanti lavoratori perdano il posto. Ma quota 100 servirebbe a poco. Meglio puntare sul contratto di espansione che introducemmo sempre noi nel 2019”.
Ma che cos’è il contratto di espansione? Si tratta di un istituto giuslavoristico che concede alle aziende in crisi con più di 250 dipendenti una serie di rilevanti agevolazioni: in primo luogo, la possibilità di rescindere contratti di lavoro attraverso prepensionamenti (il cosiddetto “scivolo pensionistico”), per quei lavoratori che abbiano un’età distante massimo 5 anni dall’età di maturazione della pensione di vecchiaia o della pensione anticipata. A questi lavoratori l’impresa verserebbe il valore dell’assegno pensionistico scontato del valore della NASPI (indennità mensile di disoccupazione). Se, ad esempio, la pensione teorica futura di un lavoratore fosse pari a 1200 euro al mese e l’indennità di disoccupazione a 800 euro, il datore di lavoro sborserebbe soltanto 400 euro mentre l’INPS metterebbe gli 800 rimanenti. Questa generosa agevolazione durerebbe almeno per due anni e potrebbe andare oltre i due anni nel caso in cui l’impresa si impegni ad assumere un nuovo lavoratore giovane in cambio di tre esuberati: fondamentalmente una maniera di concedere libertà di licenziamento, mascherata da un embrione di ricambio occupazionale.
In secondo luogo, il contratto permette di praticare riduzioni anche drastiche dell’orario di lavoro per lavoratori meno anziani, che non entrerebbero nella finestra dello “scivolo pensionistico”, coprendo le ore non lavorate con una proroga della cassa integrazione straordinaria.
Insomma, si tratta di una figura giuridica particolarmente favorevole alle imprese che consentirà, nel momento in cui il blocco dei licenziamenti verrà meno, di disfarsi in modo meno traumatico e più agevole della forza lavoro considerata eccedente, senza dover ricorrere a diretti ed espliciti licenziamenti di massa. Inoltre, la cassa integrazione straordinaria continuerebbe a funzionare nei casi citati di riduzione dell’orario di lavoro, a dispetto della sua generale sospensione che avverrà inevitabilmente al momento della fine del blocco dei licenziamenti. Insomma, un escamotage di corto respiro, molto gradito alle imprese, per passare in maniera meno drammatica la brutta nottata in cui i nodi occupazionali della crisi attuale verranno al pettine. Un semplice palliativo che tamponerebbe, con esiti distributivi favorevoli alla classe imprenditoriale, il disastro annunciato dell’esplosione dei tassi di disoccupazione. Una delle tante mere compensazioni emergenziali di quell’unica vera misura economica di contenimento che potrebbe davvero prevenire e insieme curare il disastro: massicci programmi di investimenti pubblici, ad oggi inesistenti al di là delle roboanti dichiarazioni sui fiumi di soldi europei del Next generation in arrivo.
Chiariti i contenuti del contratto di espansione, torniamo alle improbabili dichiarazioni di Durigon. Il padre fondatore di quota 100, in evidente difficoltà di fronte all’evidenza del totale cedimento del suo partito all’austerità pensionistica, ci vorrebbe raccontare che questa misura è la valida e più efficace alternativa al triste tramonto di quota 100. È evidente, tuttavia, che tra i due istituti non vi è alcuna continuità e alcun legame logico.
Quota 100, pur con tutti i suoi enormi limiti (e nei risibili limiti della sua temporaneità programmatica), era una misura universale, pensata per tutti quei lavoratori disposti, nella logica angusta del sistema contributivo, a rinunciare ad una parte della propria pensione per potere godere di più anni di riposo. Quota 100, insomma, rappresentava un’estensione, ancorché timida, di briciole di diritti previdenziali per tutti.
Il contratto di espansione è invece, al pari della cassa integrazione, una misura rivolta ad una platea ristretta e a priori selezionata di lavoratori, non rappresenta di certo una scelta personale, ed è l’esito di un meccanismo ricattatorio che vede il prepensionamento forzato come un’alternativa al mero licenziamento.
Nessun diritto previdenziale rafforzato, dunque, nessun effetto strutturale, nessuna maggior garanzia di flessibilità di scelta in uscita dal mercato del lavoro. Soltanto un ammortizzatore sociale d’urgenza – particolarmente favorevole alle imprese – che in tempi di crisi, in assenza di misure davvero risolutive, attenua minimamente il disastroso impatto sociale della perdita massiccia di posti di lavoro.
Sovrapponendo le due misure e spacciando la seconda per una logica e valida alternativa della prima, la Lega, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, si mostra, fuori dalle chiacchere di circostanza e in buona compagnia con la corte di partiti che si è stretta attorno all’ex presidente della BCE, come partito perfettamente integrato nel sistema di potere economico che fa di liberismo sfrenato e austerità il suo motto e la sua prassi quotidiana.
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