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di Francesco Piccioni, Contropiano 23 Marzo 2021
Non so da dove cominciare. Avevo, come tutti, divorato il suo libro L’evasione impossibile.
E dopo aver letto pensavo di aver capito, se non proprio di conoscerlo.
Ero giovane, a quel tempo. Non avevo molta esperienza da confrontare. E
senza quella, è meglio stare zitti. Sempre, anche oggi.
Pochi anni
dopo ero già uno “vecchio”, ossia uno che ne aveva passate parecchie, e
dunque sapevo che tra il fare e il raccontare la differenza è tanta. E
che, se sei una persona seria, le cose più importanti spesso ti restano
nella penna.
Quando sono arrivato nelle carceri speciali, però, ho
visto che anche l’essenziale era in qualche modo sgocciolato dalla penna
di Sante. Sarà che l’Asinara era proprio come te l’aspettavi, dopo due
traghetti e un’ora di viaggio in jeep verso Fornelli, al capo opposto di
Cala d’Oliva. Tra un mare che non si vede da nessun’altra parte e facce
da bruti in divisa. Senza manette, “perché tanto, ‘ndo vai?”
Nelle carceri speciali c’erano solo compagni arrestati per “cose serie”, come sempre divisi per gruppi organizzati differenti. Oppure “detenuti comuni” che erano in genere davvero fuori dal comune. A quel tempo le rapine erano affare di piccole “batterie”, gruppi di amici nati come noi nei quartieri e poi cresciuti insieme. I sequestri di persona avvenivano a decine, anche contemporaneamente, e chi li faceva – una volta preso – finiva lì, mica nella “casa circondariale” vicino casa.
Tutta gente che pensava alla fuga, e ne era capace. Che “si pesava” per quel che aveva dimostrato di saper fare, non per le chiacchiere. Se non sai fare, stai zitto. E impari.
Pochi i mafiosi, e minori; pochi quelli della ‘ndrangheta. Ancora non erano diventati “nemici” da combattere. E anche di camorristi, nel 1980, non ce n’erano tantissimi. Niente spacciatori, nix papponi.
Tanti gruppi, tante “etiche”, tante appartenenze diverse. Sante viaggiava a un altro livello. Si era guadagnato negli anni il rispetto di tutti, a prescindere dal “reato” e dal “giro”.
L’epopea della “banda Cavallero” era finita da oltre un decennio. Ci
aveva fatto un film Carlo Lizzani, a metà strada tra il riconoscimento e
la condanna (neanche il Pci, allora, poteva ignorare che quei “banditi”
erano nati a Mirafiori, tra i suoi militanti che sognavano la
Rivoluzione). E non era già più il tempo in cui qualche attrice famosa
“chiedeva i colloqui” per conoscerlo.
Non era per quello che tutti lo
salutavano. Era quello che aveva fatto dentro il carcere che girava di
bocca in bocca, di generazione in generazione di detenuti. Grandi e
piccole cose, magari solo la certezza che – se arrivavi a tarda sera,
dopo cena, dove c’era lui – ti sarebbe arrivato un piatto di pasta, un
caffè, qualche sigaretta. Sei qui, sei dei nostri, non sei solo in mezzo
alle guardie. E non devi dare nulla in cambio.
C’era stato il
periodo delle rivolte, quando “i dannati della terra” erano stati capaci
di rivendicare una dignità che la “società perbene” negava loro. E lui
era stato tra i maestri silenziosi, senza strepiti e “coatteria”.
Seminava consapevolezza, coscienza, conoscenza, attenzione al vicino di
cella, previsione delle mosse del nemico, cura nel racconto per far
capire “fuori” cosa succedeva “dentro”.
Aveva insegnato, insomma, a
superare il “paradosso del prigioniero”, che porta all’isolamento e
all’inazione; a scoprirsi simili in quella condizione, quindi con
interessi comuni e diritti da rivendicare. Cose da fare insieme,
costruendo fiducia reciproca nell’universo più individualista che c’è.
A
lui, spesso, i detenuti affidavano le trattative rognose. Quelle da
fare con i direttori e gli sbirri durante una rivolta. Quando devi
essere calmo, lucido, sapere dove vuoi andare e capire “il nemico” cosa
intende fare. “Piccolo grande uomo”, proprio come nel film di Arthur
Penn…
Lo avevano chiamato, per questo, anche a Favignana, un’Asinara
di Sicilia, con le celle nel fossato di un vecchio castello sulla
collina. Un detenuto comune, uno qualsiasi che chissà cosa voleva, aveva
“sequestrato” il giovane magistrato di sorveglianza con cui aveva
“chiesto udienza”.
Erano anni strani, questi gesti avvenivano spesso, anche per
obbiettivi individuali (un trasferimento più vicino casa, un colloquio
negato, ecc). Ma i carabinieri di Dalla Chiesa a volte intervenivano
quasi motu proprio, in quelle situazioni. Facendo strage “imparzialmente”, di detenuti e ostaggi. Senza remore, come ad Alessandria, nel 1974.
La
“trattativa” da fare in quel caso era semplice ma definitiva. Bisognava
convincere il detenuto a lasciar libero il magistrato, entro poco
tempo. Le teste di cuoio stavano già scalpitando al portone d’ingresso.
Chiamarono
Sante e non altri, perché solo da lui quel povero matto di prigioniero
avrebbe potuto forse accettare un consiglio. E salvarsi la vita.
Sante
lo convinse e a chi lo ringraziava – il direttore, qualche impiegato
civile – rispose che lo aveva fatto solo perché gli interessava la vita
del suo compagno di galera.
Lo ringraziò anche il magistrato, che
sapeva quanto lui cosa sarebbe successo in caso contrario. Era destinato
a una grande carriera, quel giovanissimo giudice, Giovanni Falcone…
La
grandezza di Sante era nel saper stare da solo, se necessario, in un
mondo dove è importante – spesso decisivo – “stare in gruppo”. Fuori da
ogni organizzazione, “batteria”, gruppo omogeneo. Poteva parlare con
tutti, e tutti lo ascoltavano. Restando ognuno quel che era, trovando il
modo per farlo.
Era stato inserito nella lista dei 13 prigionieri di
cui le Brigate Rosse, ad un certo punto, chiesero la libertà in cambio
della vita di Aldo Moro. Un “grande”, insomma, di cui si parlava in ogni
carcere d’Italia.
E lui scriveva poesie, quando la porta veniva
chiusa sbattendo e le due mandate di serratura ti auguravano la
buonanotte. Cercava di mantenere l’irrequietezza della vita tra muri di
cemento armato. E ci riusciva.
Se le scambiava, nel cortile, con gli
altri poeti prigionieri. Con Horst Fantazzini, Agrippino Costa, con
chiunque provasse la stessa inquietudine.
Quando pubblicò la sua
prima raccolta di versi, finì che una copia venne fatta arrivare a Primo
Levi. Oggi un intellettuale “affermato”, che magari vale un’unghia
dell’autore di “Se questo è un uomo”, griderebbe alla provocazione,
chiamerebbe carabinieri e giornalisti per levarsi di dosso l’ombra del
sospetto di una simpatia verso un prigioniero di quelle “dimensioni”.
Il
partigiano che era sopravvissuto ad Aushwitz rispose. Apprezzando,
commentando, consigliando, “entrando nel merito”. La grandezza si
riconosce reciprocamente, a prima vista. Se hai visto certe cose, parli
la stessa lingua. E non la può capire nessun altro.
Visse con noi,
ex ragazzi di un’altra generazione, la nostra sconfitta, le divisioni, i
tradimenti, le dissociazioni. In una “sezione” di carcere li vedevi
trasformarsi di giorno in giorno, mutare lo sguardo, svuotare di vita
gli occhi, assumere la postura di chi simula qualcosa che non è più. E
poi una mattina, o una sera, venivano portati via, verso carceri più
accoglienti.
Quando comunque si scherzava, quasi ogni giorno, lo
potevi sentir rivendicare il paese dov’era nato, Castellaneta, vicino
Taranto. Perché c’era nato pure Rodolfo Valentino, e dunque…
Ci salutò, nello “speciale” di Cuneo, quasi scusandosi di lasciarci lì mentre lui andava a riveder le stelle e a dilatare finalmente gli occhi per raggiungere un orizzonte più lontano del muro di cinta. Noi gli facevamo festa, lo spingevamo fuori, “che cazzo stai a fare ancora qui?”. A parole, certo, ognuno dalla sua cella. Sante era libero, o quasi.
Trovò un altro mondo. Tra sbirri in borghese che ne scrutavano ogni passo e compagni disperatamente ingenui, generosi e casinisti. Restò fuori da ogni “giro” organizzato, anche questa volta. Preferendo la libertà di parlare solo se voleva e come sapeva. Di raccontare per far sapere, non per indottrinare. Scegliendo gli amici con cura, per carattere e per prudenza. Non gli piaceva restare deluso dalle persone che accoglieva.
Preferì rischiare anche con il lavoro. Invece di restare nelle pieghe e nelle piaghe del “privato sociale”, delle cooperative più o meno dipendenti dalla mangiatoia del Pds-Pd o come si chiama adesso, aprì il Mutenye, pub del Pratello subito meta della compagneria bolognese. Un luogo dello spirito, finché ebbe le forze per stare dietro il bancone tutte le sere.
La sua militanza si concentrò sulla Storia e le storie. Non c’è stato professore decente, dalle sue parti, che non finisse a parlare con lui, a impostare una ricerca, un’idea. La Resistenza sui colli era stata dura, cruenta e dimenticata nel solito modo della “sinistra” di merda. Rendendola un’icona da tirar fuori una volta l’anno, facendo l’opposto per 364 giorni.
Mi portò, pochi anni fa – perché i meno vecchi di lui uscirono anche loro dopo “venti anni…” e più – ai Sabbioni, sull’orlo del piccolo abisso dove i nazisti avevano fucilato un mucchio di partigiani. Mi portò a Monte Sole, sulle colline di Marzabotto, a stare in silenzio in quel dannato cortile di una strage di massa, coi buchi delle pallottole ancora sui muri e la tomba di Giuseppe Dossetti davanti ai piedi.
A misurare l’enormità delle contraddizioni rivelate quel prete tra i fondatori della Democrazia Cristiana e persino presidente (un altro…), che era stato fascista e poi partigiano e alla fine aveva voluto essere seppellito lì.
La ricerca su Monte Sole si trova ancora, da qualche parte. Io la farei leggere a tanti…
Non so come finire. Una vita così lunga, ricca, faticosa, piena, un compagno e un amico… è quasi un’offesa rinchiuderla in così poche battute. Spero che non me vorrai. Tu sei più bravo a dire molto con poche parole. Ciao, Sante.
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