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Anna Lombroso per il Simplicissimus
Uno dei primi appuntamenti simbolici, troppo a lungo rinviato secondo Confindustria, del golpe bianco che ha portato al potere il proconsole imperiale è la fine del blocco dei licenziamenti fissato per giugno, che consiste oltre che in una estensione degli ammortizzatori sociali e della Cassa integrazione, nell’interdizione per i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e nella sospensione delle procedure di licenziamento collettivo.
Al fianco di Bonomi si sono schierati gli opinionisti che da anni pontificano sui quotidiani, ormai ridotti ad house organ del capitalismo liberal-meritocratico, Cottarelli in testa, per sostenere che solo mobilità e flessibilità possono rimettere in moto la macchina dello sviluppo e che per favorire l’occupazione bisogna liberare le imprese dal fardello dei diritti e delle conquiste die lavoratori, malgrado il blocco rappresenti notoriamente una misura di salvaguardia dei dipendenti a costo zero per le aziende, essendo combinata con l’estensione della Cassa integrazione senza onere aggiuntivo, quindi a carico esclusivo dello Stato.
La tesi seppure aggiornata secondo i dogmi della pandeconomia è sempre la stessa: il divieto di licenziare lungi dall’essere un intervento funzionale a sostenere l’occupazione, comporta invece un irrigidimento del sistema economico, impedendo lo spostamento dei lavoratori verso settori più produttivi e trainanti e meno investiti dalla crisi. E anche la soluzione è sempre la stessa: si lasci agire liberamente il mercato che sa bene cosa si deve fare e che sceglie per il meglio, cioè quel profitto che – ce lo ripetono da Adam Smith in poi – per una legge naturale fa sì che la manina della provvidenza spolveri su tutti un po’ di benessere.
Senza andare lontano per dimostrare che si tratta di una delle più feroci baggianate inventate dal capitalismo, bastano i dati dell’Inps che mettono a confronto in una asettica verifica dell’efficacia i numeri relativi ai licenziamenti del 2019 e alle assunzioni effettuate nello stesso anno.
Ma, per restare nel campo delle esercitazioni accademiche, vale la pena di ripercorrere il lungo snodarsi di cosiddette “riforme del lavoro” a “sostegno dell’occupazione” messe in atto dal 2000, ben 47 fino al 2012, anno della prima modifica dell’articolo 18, seguite dalla Riforma Fornero e dal Jobs Act, maturando tassi di disoccupazione tra i più elevati d’Europa, a conferma che l’introduzione di fattori di “flessibilità” e precarizzazione servono solo a smantellare l’edificio della garanzie, a moltiplicare forme contrattuali anomale e a paralizzare il turnover generazionale grazie a “forme” negoziali arbitrarie.
Dobbiamo aggiungere ai danni provocati dalla logica liberista, l’abiura del mandato di rappresentanza dei sindacati che hanno permesso da noi, a imitazione degli Usa, la riduzione delle retribuzioni per ridurre i costi delle aziende, in concomitanza con quella del potere di acquisto, offrendo come “risarcimento” per promuovere i consumi, prestiti e prodotti finanziari tossici, basta pensare ai subprime che si era incaricato di venderci il promoter di Goldman Sachs oggi primo ministro, insieme alla paccottiglia del Welfare sindacale: assicurazioni per l’assistenza privata e fondi pensionistici integrativi.
Sarà un’estate calda quella che si prepara quindi: lo sblocco dei licenziamenti non soltanto lascerà le mani libere al padronato, ma incrementerà le sue pretese in merito alla gestione degli ammortizzatori sociali con il superamento delle politiche che presuppongono la continuità del rapporto di lavoro, come, per l’appunto, la cassa integrazione, o alla richiesta di dirottare sempre di più le risorse delle politiche assistenziali in aiuti alle imprese forti e strutturate favorendo le concentrazioni a danno di quelle medie e piccole, promuovendo il debito buono, quello dei sussidi alle aziende, riducendo quello cattivo, dei sussidi ai lavoratori occupati e disoccupati.
Qualcuno si è preso la briga di contare quante volte il termine lavoro è comparso nel bric à brac della distruzione creativa di Draghi al Senato, scoprendo che rispetto a pandemia (20), Paese (18), cittadini (12), donne (10), investimenti (10), giovani (9), “lavoratori” è citato 9 volte, mentre il Lavoro viene nominato solo in riferimento alla mole che attendeva il Governo.
È che il nostro dottor Stranamore, che ama la bomba se può indirizzarla contro i poveri, molesti e immeritevoli, ci ha abituato che se deve entrare in contesti imbarazzanti, lascia la parola agli Speranza, ai Bianchi, ai suoi famigli insomma. Quindi possiamo aspettarci che il peggio che ci toccherà in sorte sarà prodotto dal Giavazzi-pensiero, esperto della necessità doverosa di fare scelte difficili, della virtù della moderazione che impone rinunce e sacrifici personali e collettivi, a cominciare dalla democrazia e dai diritti costituzionali, per arrivare alla dignità, all’istruzione, che tanto il meglio che può aspettare i nostri figli è “entrare in Amazon” o diventare manager di se stessi in Uber o Glovo, subappaltando consegne e scegliendosi i percorsi come ultima forma di libertà concessa.
Dimenticavo, l’altra abdicazione già ampiamente richiesta è alla politica, come dimostra un governo che ha accoppiato i tecnici con le più abusate figurine dell’arco parlamentare come una creatura mitologica della quale non si capisce chi è l’uomo e chi la bestia. A sancire l’inutilità della politica e il ruolo egemonico del “capitale” capace di autoregolarsi e risolvere i problemi che determina, facendone scontare il prezzo ai popoli, concedendo allo Stato, grazie alla mobilitazione dei grandi interessi privati promossa dall’emergenza biopolitica, un’unica sovranità utile e funzionale , quella di foraggiare e assistere i circuiti sempre più immateriali del dominio oligarchico. E difatti li abbiamo già sentiti gli aedi del regime, prima del Grande Reset, pronti a scendere in campo contro “la tentazione statalista”, per impedire che la Nazione -come se non bastasse ancora nominalmente democratica – si sostituisca all’imprenditoria privata e ne controlli quei sacrosanti istinti ferini, “senza i quali non ci può essere alcuna ricostruzione”.
Li abbiamo già visti all’opera a interpretare la obbligatorietà della “riduzione generalizzata delle tasse” anticipandola con il condono, o riproporre il mantra della semplificazione per rimuovere le “barriere appiccicose” della burocrazia, che impedisce “l’innovazione”. Possiamo aspettarci che ci pensi la zelante Cartabia a eliminare con un colpo di spugna l’invadenza giurisprudenziale di un “soffocante diritto penale” che condiziona la “vita sociale ed economica” addirittura con l’ostentata pretesa di perseguire i padroni che violano la legge.
E non dite che non ve l’avevamo detto che bisognava stare in guardia da queste brave persone, che salutano sempre i vicini, che non indosserebbero mai una felpa, lasciando le divise ai loro generali, che vanno in pasticceria per le pastarelle la domenica e in macelleria, un posto gradito e non solo per comprarci il brasato.
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