Nella struttura in 11 anni sono state ospitate centinaia di donne. “E’ così – scrivono le attiviste – che Comune, Atac e tribunale vogliono decretare la fine di una delle esperienze socioculturali più preziose della città, e la soppressione del Centro antiviolenza e della Casa rifugio per donne che vogliono uscire dalla violenza più grande di Roma e della Regione Lazio. Da una parte quindi, il Comune di Roma, che fa della violenza contro le donne una vetrina politica, sceglie la precarietà dei bandi e lo svuotamento dell’approccio femminista al contrasto di questo fenomeno senza tutelare la prevenzione, la sostenibilità dei percorsi di fuoriuscita e la cultura che lo alimenta. Dall’altra l’Atac, affogato dai debiti per una storica cattiva gestione, svende il patrimonio a favore dei soliti noti speculatori. La brutale accelerazione delle procedure di sgombero, nonostante le inconsistenti rassicurazioni dell’ultimo anno, oltre a causare sconcerto e apprensione per il futuro tra chi vive nella struttura fa supporre che esista già un acquirente”.
Il 3 settembre è partita la seconda iniziativa di protesta, conclusasi a mezzanotte, con l’invio all’Atac di un vocale su Whatsapp “Quanto costa Lucha y Siesta?”. Il 5 settembre invece è stata indetta una assemblea pubblica assieme a Non Una Di Meno che si terrà alle 18.30 (in via Lucio Sestio 10).
La Casa delle donne Lucha y Siesta è nata nel 2008 grazie al recupero di una palazzina di proprietà dell’Atac, l’azienda di trasporti romana. Undici anni fa era un vecchio edificio disabitato, un rudere che è stato recuperato e trasformato in un luogo vivo, dove le donne possono trovare ospitalità per sé e per i figli se ne hanno, e sono accolte in uno spazio di autodeterminazione, socializzazione e condivisione di esperienze. Un laboratorio di politiche sociali e di welfare creato dal basso, grazie al quale le donne hanno potuto recuperare risorse, forza, identità e sono uscite da situazioni di violenza.Le attiviste per anni hanno cercato di incontrare le istituzioni, forti di un’esperienza creativa e vitale, e hanno fatto proposte anche all’attuale amministrazione comunale guidata dalla sindaca Virginia Raggi che non ha mai visitato la struttura. Infine la brutale lettera dello sgombero imminente e senza aver fatto sapere che ne sarà delle 15 donne e dei sette bambini che sono ospitati dentro l’edificio.
Si decreta la chiusura di un Centro antiviolenza dopo l’entrata in vigore, l’8 agosto scorso, del Codice Rosso. Ma la procedura che secondo la propaganda del defunto governo giallo-verde avrebbe dovuto essere uno strumento efficace per contrastare la violenza contro le donne ha già fatto un bagno di realtà. I Centri antiviolenza della rete D.i.Re erano stati subito molto critici nei confronti dell’ennesima risposta securitaria che ha intasato (come volevasi dimostrare) le Procure per l’obbligo di sentire le donne entro tre giorni senza una valutazione sulla gravità delle violenze.
Il femminicidio di Adriana Signorelli commesso a Milano dall’ex Aurelio Galluccio, denunciato più volte per maltrattamenti, ha suscitato molte polemiche. Ma di cosa ci si stupisce? Dalla Procura di Milano hanno detto che Adriana non aveva “mantenuto la promessa di andare a stare dalla figlia”, come se le donne dovessero trovare soluzioni fai da te per mettersi al sicuro dalla violenza. Forse Adriana ha voluto tutelare sua figlia sapendo che l’ex marito avrebbe potuto rintracciarla in un luogo a lui conosciuto. E’ morta per non aver mantenuto promesse o perché è stata lasciata sola? Le donne non hanno bisogno di interventi securitari e repressivi ma di sostegno e relazioni significative con altre donne; soprattutto, hanno bisogno di luoghi di libertà dove realmente si rafforzi la loro autodeterminazione e sia loro aperta la possibilità a nuovi progetti di vita.Se si vogliono sottrarre le donne al rischio di essere uccise o rivittimizzate non ci vuole il Codice Rosso ma gli spazi delle donne, i luoghi come Lucha y Siesta che invece vengono chiusi. Non permettiamolo.
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