domenica 8 settembre 2019

Roma & sgomberi. Diamo Lucha al mondo.

Nata l’8 marzo 2008, la Casa delle Donne Lucha y Siesta è oggi un progetto di mutualismo femminista all’avanguardia. Eppure rischia di essere sgomberata. Parte una campagna di azionariato popolare per salvare e moltiplicare questa preziosa esperienza di autogestione.

In mezzo al traffico spaventoso della Tuscolana, tra i fumi di scarico e i clacson delle macchine in seconda e terza fila, tra i marciapiedi gremiti di umanità variopinta, c’è la Casa delle Donne Lucha y Siesta.
A chi non c’è mai stato è difficile spiegare di cosa si tratti.
Nessuna definizione univoca riesce a rendere conto della complessità che la abita.
Di solito ci si arriva per qualcosa di specifico, un incontro, un seminario, una presentazione, un’assemblea, un laboratorio, una proiezione, un dibattito.
Si svolta l’angolo su via Lucio Sestio e si varca il cancello dipinto, verde e arancione, che dà sul giardino antistante la struttura: un viale alberato pieno di foglie marroni in autunno, verdi in estate, con ai lati un piccolo prato, timido e ben tenuto.
La casa è sulla destra, sembra una di quelle villette popolari di vecchia costruzione – e in effetti l’edificio qualche anno ce l’ha, quasi un secolo anzi, proprietà Atac un tempo in abbandono, più casa cantoniera che deposito.
Di fronte, alcune stanze basse ospitano la sartoria e un paio di uffici. In mezzo uno spiazzo di cemento, con tavoli sedie e qualche giocattolo a terra, i fiori nei vasi e un palco sullo sfondo.

È lì che solitamente si svolgono le attività all’aperto, nella canicola estiva, ad esempio, quando il giardino di Lucha diventa uno dei pochi luoghi che danno ristoro nell’afa romana.
D’inverno, invece, quando il freddo morde e l’umidità divora le ossa, ci si accomoda all’interno, al pianterreno, dove una stanza polifunzionale ospita corsi e discussioni mentre i bambini scorrazzano su e giù, catapultandosi in cucina dal piano di sopra, dove dormono insieme alle madri.
Osservando le scene di vita quotidiana prendere corpo come quadri di Veermer accanto a ospiti e invitate, in un viavai continuo di corpi e nel succedersi placido ma costante di eventi e attività, viene spontaneo chiedersi: che cos’è Lucha y Siesta? È una casa rifugio? È un centro culturale? È un’occupazione abitativa, o uno spazio sociale? È un luogo di lavoro, o di riposo?
È tutto questo, e molto di più. Il nome prova a definire non una funzione, ma una vocazione: la lucha y la siesta, la lotta e il riposo. Nasce l’8 marzo 2008, dalla caparbietà e dalla forza visionaria di un manipolo di donne e attiviste femministe; nasce per colmare un vuoto, quello lasciato dalle istituzioni nel contrasto alla violenza di genere, ma anche per progettare un futuro, un mondo senza più violenza maschile sulle donne.
«Un gesto politico di rottura e di contestazione», come scrivono le stesse attiviste del collettivo nel loro libro Una mattina ci siam svegliate, miscellanea di saggi e racconti pubblicata nel 2016 per celebrare gli otto anni di vita del progetto. Un’occupazione nata l’8 marzo, oggi data di scioperi globali femministi e un tempo occasione buona solo per strappare qualche ramoscello di mimosa dagli alberi in fiore, perché «tra la festa, il rito e il silenzio abbiamo scelto la lotta».
«Rilevavamo, sin dal primo momento, un costante incremento delle richieste di sostegno in quelli che abbiamo chiamato passaggi di uscita dalla violenza e dalla difficoltà sociale», spiegano le attiviste di Lucha. «Da qui il bisogno di rispondervi non solo con un tetto, ma con un luogo di relazione in cui fosse possibile esprimere i propri bisogni e desideri, leggere la violenza subita e le difficoltà incontrate per poter progettare un percorso di autonomia».

Un progetto all’avanguardia

È per questo che non si riesce a definire Lucha y Siesta, che non se ne può fare una descrizione esaustiva. Lucha y Siesta è un luogo unico nel suo genere. E non nel senso sentimentale di «legato a ricordi personali indelebili ed emotivamente coinvolgenti». Cioè, anche in quel senso, ovvio. Ma è soprattutto un progetto di mutualismo femminista assolutamente all’avanguardia, frutto di una sperimentazione e un’ibridazione fra pratiche differenti che non ha uguali nel mondo.
Lucha y Siesta è sia una casa delle donne – aperta alla cittadinanza e fucina di iniziative culturali – sia un centro antiviolenza – con uno sportello di accoglienza e ascolto – sia una casa rifugio – in cui le donne oggetto di violenza possono trovare supporto abitativo nelle fasi immediatamente successive a una denuncia – sia una casa di semi-autonomia – a cui le donne già avanti nel percorso di fuoriuscita dalla violenza possono appoggiarsi per continuare ad andare avanti insieme – sia un progetto mutualistico – di lavoro e lotta insieme. La lucha e la siesta che convivono sotto uno stesso tetto con l’obiettivo molteplice e multipolare di creare le condizioni migliori per le donne di tutte le età, le religioni, le nazioni e le estrazioni sociali affinché trovino la propria strada verso la piena autodeterminazione.
«Una metodologia che sfugge alle strettoie dell’assistenzialismo standardizzato», spiegano le militanti, in cui spesso i tempi sono contingentati, decisi da griglie normative che non tengono conto delle specificità individuali. «Le reti formali e informali con altri Sportelli di ascolto, Centri Anti-Violenza, Case Rifugio e Case Famiglia costituiscono la possibilità di realizzare progetti di accoglienza complessi e continuativi, che non si limitino a risolvere la fase emergenziale, né si cristallizzino in un perenne assistenzialismo».
Le ospiti della casa sono chiamate a una partecipazione attiva, nell’assemblea delle donne della Casa, un momento di incontro con l’Altro e un passo importante nel percorso di autodeterminazione di ognuna. Le militanti del collettivo aiutano e sostengono le donne che vivono nella Casa, ma non si sostituiscono mai a loro in quello che di necessità è un processo unico e personale. Ma tutta la vita della Casa, variegata e aperta al mondo e alla sua contraddittoria ricchezza, è di stimolo e di supporto: lo scopo è rompere l’isolamento sociale che spesso è la prima conseguenza delle situazioni violente e abusanti.
Quello che potrebbe sembrare un difetto, un ulteriore fattore d’instabilità – l’essere un’occupazione illegale e abusiva – ha invece permesso a Lucha y Siesta di diventare un luogo di sperimentazione, travalicando i limiti formali imposti al circuito tradizionale dell’accoglienza e del contrasto alla violenza di genere. A differenza delle case rifugio tradizionali, obbligate a tempistiche rigide che di solito vanno di sei mesi in sei mesi – dopodiché fuori, o ti sei rifatta una vita, o niente – Lucha permette alle sue ospiti di restare il tempo necessario, né meno, né più, a ritrovare loro stesse e il “bandolo della matassa” dei loro desideri, per potercela fare di nuovo da sole. Una lezione fondamentale tratta dal pensiero femminista, quel partire da sé che dentro Lucha si incontra con le pratiche di accoglienza e di supporto più tradizionali, facendole diventare qualcosa di nuovo e più potente.
«Ferita dopo ferita, dolore sopra dolore sopra dolore, qui mi hai accolta di nuovo cara Lucha e io ti sarò per sempre grata per questo, ma questa volta ho capito quale distanza immensa c’è tra una situazione di regime quasi carcerario a lavoro fisso e la libertà piena offerta da te cara Lucha», scrive Lucica, donna ex-ospite della Casa, in una delle testimonianze raccolte nel libro. Nientemeno che la piena libertà: è questo il risultato di in una casa rifugio, un centro antiviolenza e una casa autogestita dalle donne, con le donne e per le donne.

Un luogo a rischio

Oggi l’esperienza della Casa delle Donne Lucha y Siesta rischia di scomparire. Dopo undici anni di attività, dopo aver ospitato centinaia di donne e di minori salvandoli da situazioni di violenza, a volte salvando loro letteralmente la vita, dopo aver costruito un progetto all’avanguardia e una sperimentazione riconosciuta e studiata a livello internazionale nel settore del contrasto alla violenza di genere, pur essendo la casa rifugio con il maggior numero di posti letto (15) in tutta Roma, in tutta la provincia di Roma, e in tutta la Regione Lazio, Lucha y Siesta rischia di essere sgomberata.
Lo stabile della Casa, che da anni chiede la regolarizzazione al fine di preservare l’unicità della propria esperienza, è finito nella procedura di concordato con cui il giudice fallimentare e il Comune di Roma sperano di risanare le finanze di Atac. Inutili i numerosi appelli fatti affinché Lucha venisse stralciata da questa procedura: il Comune è sempre stato sordo a qualsiasi richiesta di dialogo, mandando a vuoto gli incontri e le trattative e facendo macerare il tutto nelle acque stagnanti di un’indifferenza miope e ottusa.
Nei comunicati e nelle risposte del Comune spesso viene messo l’accento sull’aspetto abitativo, sulla necessità di risolvere le emergenze, dare ospitalità alle donne e ai bambini e alle bambine attualmente presenti nella casa, buttandola sul patetico per mascherare la propria colpevole negligenza di fronte a situazioni note da tempo e mai veramente considerate. A non essere capita, purtroppo, è l’importanza sperimentale e la potenza innovativa della Casa, che innestando il femminismo nel lavoro quotidiano di contrasto alla violenza sulle donne ha dato vita a un modello nuovo, le cui specificità e i cui successi andrebbero riconosciuti, tutelati e soprattutto replicati – altro che sgomberati!
A tutto questo si oppone invece un cieco legalitarismo, che vede nel bando, cioè nella svendita al migliore offerente, l’unica panacea possibile per una città, Roma, che sta letteralmente marcendo nell’immobilismo asfittico della sua giunta, che sgombera chiude e distrugge tutto ciò che tocca in una specie di follia purificatrice. Alle esperienze delicate e preziose offerte gratuitamente alla collettività dal lavoro costante e premuroso delle attiviste della casa, l’unica risposta politica è stata mettere al bando, cioè bandire, escludere, esiliare. Secondo questa logica l’esperienza di Lucha y Siesta, con la sua ricchezza e la sua complessità, un’esperienza irriducibile a schemi pre-impostati, viene ridotta a mera occupazione senza titolo, da «sanare» con uno sgombero.

La proposta delle donne: azionariato popolare

Di fronte all’ottusità delle istituzioni, e dopo mesi di estenuanti trattative, le donne che animano la Casa hanno deciso di fare un ulteriore balzo in avanti e dire: se Lucha è in vendita, allora compriamola.
Da questo sabato 7 settembre parte Lucha alla città, una campagna di azionariato popolare per portare l’omonimo Comitato a presentarsi all’asta giudiziaria che mette in vendita lo stabile di proprietà Atac, e vincere. Un gesto di rottura rispetto alle pratiche di movimento, resosi necessario dalla totale mancanza di dialogo dimostrata dalle istituzioni, ma anche una nuova, ennesima sperimentazione – perché di lottare, con qualsiasi mezzo, non ci si stanca mai.
«Siamo consapevoli che l’obiettivo è enorme, sia per la cifra da raggiungere che per la difficoltà di rapportarsi a un sistema che non è disposto a riconoscere alcuna soggettività che non sia misurabile nei termini del profitto», scrivono le attiviste nel comunicato che lancia l’impresa. Ma al pessimismo della realtà contrappongono ancora l’ottimismo della ragione, con l’obiettivo più ampio e generale di «definire una strategia che ci faccia uscire dall’angolo in cui ci vogliono rinchiudere, e difendere uno spazio fisico e simbolico che non vogliamo perdere».
Le istituzioni sono ancora in tempo per fare qualcosa. Potrebbero comprare lo stabile da Atac, innanzitutto, e salvaguardare e regolarizzare Lucha y Siesta. Ma le attiviste non chiedono più tanto – un tanto che sarebbe il minimo, nell’ottica della salvaguardia di un bene comune. Sanno che la procedura di concordato è ormai avviata e non si può più tornare indietro, ma c’è ancora la possibilità di mettere dei paletti: stabilire il diritto di prelazione del Comitato Lucha alla città, ad esempio, o ribadire che chiunque entri in possesso dell’immobile debba comunque rispettarne la destinazione d’uso di servizio pubblico. Insomma, non solo non tutto è perduto, ma tutto è ancora da costruire. Nella speranza che tanti e tante si uniscano al Comitato per salvare e moltiplicare la preziosa esperienza di Lucha, per dare lucha non solo alla città, ma al mondo intero.
*Gaia Benzi è attivista e ricercatrice di letteratura italiana. Ha scritto per Micromega, Dinamopress, CheFare e Nazione Indiana.

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