Pubblichiamo la traduzione dell’articolo di Vladimiro Giacché sulla crisi bancaria italiana uscito sul sito dell’Institute for New Economic Thinking,
con delle modifiche non sostanziali da parte dell’Autore, che ha anche
aggiunto alcune note sul tema delle Banche di Credito Cooperativo.
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L’obiettivo con cui l’Unione bancaria europea è nata era quello di ridurre la balcanizzazione finanziaria dell’Eurozona.
La balcanizzazione – la frattura del sistema bancario transfrontaliero
che avviene quando creditori nervosi si ritirano verso i sicuri porti
nazionali – è stata percepita a ragione come uno dei maggiori pericoli
per la stabilità e la sussistenza stessa della moneta unica.
Infatti,
all’indomani della crisi finanziaria, gran parte delle ricerche
disponibili evidenziavano come il sistema – che sino al 2008/2009 si
presentava così interconnesso da essere apparentemente inestricabile –
si era andato ridisegnando secondo linee “nazionali”. I prestiti
transfrontalieri nell’eurozona erano crollati all’incirca alla metà dei
valori pre-crisi, e ingenti capitali erano stati rimpatriati da molte
banche e investitori nei paesi core (Germania e Francia). I prestiti nei
paesi cosiddetti periferici (Grecia, Irlanda, Spagna, Italia e
Portogallo) nel frattempo tornavano ad essere sostanzialmente nazionali.
Questo, politicamente, era imbarazzante, ma anche pericoloso, poiché
rendeva tecnicamente possibile la fine della moneta unica.
Peggio
ancora, questa situazione creava un problema ulteriore non meno grave:
un circolo vizioso potenzialmente distruttivo tra rischio di credito e
rischio sovrano – cioè il rischio che una nazione potesse essere spinta
alla bancarotta.
Un obiettivo, tre pilastri
L’idea
originale era che un’unione bancaria avrebbe ristabilito un mercato
bancario e finanziario integrato attraverso tre pilastri: 1) un sistema
unico di vigilanza bancaria 2) procedure di risoluzione che limitassero
il rischio di contagio in caso di crisi, e 3) una garanzia europea sui
depositi tale da spezzare il nesso tra rischio Paese e rischio bancario.
Questa
la teoria. Nella pratica, l’unione bancaria ha generato enormi
asimmetrie e condizioni competitive inique in tutta l’Eurozona. Queste
asimmetrie hanno colpito in particolare il sistema bancario italiano, in
un modo che contribuisce a spiegare gli avvenimenti degli ultimi anni.
Per
quanto riguarda il primo pilastro, la vigilanza bancaria unica ha
effetti di copertura molto differenti tra i vari sistemi bancari
nazionali. Trascura un rischio sistemico molto serio in alcune
importanti nazioni dell’Eurozona e perciò le favorisce, almeno nel breve
periodo.
Quanto
al secondo pilastro, le procedure di salvataggio o risoluzione delle
banche in crisi – caratterizzate dal sostanziale divieto di salvataggio
pubblico – hanno avuto anch’esse effetti fortemente asimmetrici che
hanno danneggiato pesantemente alcuni sistemi nazionali (in primis
l’Italia). In particolare, queste regole sono state stabilite solo dopo
che molti paesi europei avevano elargito aiuti pubblici senza precedenti
alle proprie banche nazionali. Questi enormi trasferimenti finanziari
avevano sostanzialmente sospeso – sull’onda dell’emergenza – la
normativa europea sugli aiuti di Stato, ovvero sugli interventi pubblici
nazionali. Così alterando in misura sostanziale il panorama
concorrenziale del sistema bancario in Europa.
Impedire
a questo punto la possibilità di qualsiasi tempestivo salvataggio
pubblico risulta oggi fortemente penalizzante per quei Paesi, come
l’Italia, che nella fase precedente non avevano proceduto a sostenere in
modo massiccio il proprio sistema bancario nazionale. Per questi Stati,
l’opzione del salvataggio è adesso soggetta a criteri estremamente
stringenti e subordinata al cosiddetto “bail-in” – ovvero uno schema che
pone in primo luogo a carico di azionisti, obbligazionisti e
correntisti le perdite bancarie – non escludendo affatto la strada della
risoluzione/chiusura della banca interessata.
Quanto
all’entità del sostegno di cui le banche di altri Paesi europei avevano
goduto prima dell’entrata in vigore dell’Unione bancaria, un articolo pubblicato da M. Frühauf sulla Frankfurter Allgemeine del 16 agosto 2013 – pochi mesi prima dell’approvazione del meccanismo unico di vigilanza bancaria da parte del Consiglio Europeo – offre dati a dir poco impressionanti. Solo per fare un esempio
dei molti salvataggi tedeschi all’indomani della crisi finanziaria, il
governo fornì alla compagnia di assicurazione Hypo-Re una garanzia fino a
145 miliardi di euro. Il costo di questo solo salvataggio per i
contribuenti tedeschi finora è stato di 20 miliardi di euro. Altre fonti
forniscono numeri complessivi leggermente diversi sui salvataggi
pubblici, ma quel che emerge chiaramente è la peculiarità della
situazione bancaria italiana, che finora ha comportato aiuti pubblici
molto inferiori a quelli degli altri paesi europei.
Gli
effetti negativi dei primi due pilastri divenivano poi addirittura
dirompenti a causa dell’assenza del terzo pilastro: la garanzia europea
sui depositi. Questo meccanismo era assolutamente essenziale al fine
dichiarato dell’Unione bancaria: arrestare il processo di
“balcanizzazione finanziaria”. Infatti l’assenza di una garanzia europea
manteneva l’onere della protezione (parziale) dei risparmiatori in capo
al sistema Paese interessato. E, ancora una volta, contraddiceva quella
solidarietà europea che dovrebbe essere il fondamento dell’architettura
istituzionale dell’UE, e in particolare dell’Eurozona.
L’effetto
di questo insieme di norme – i due pilastri che ci sono e quello che
non c’è – è stato devastante in particolare per il sistema bancario
italiano, per il quale le nuove regole hanno mutato in misura
sostanziale – e per di più senza alcuna fase transitoria – il panorama
normativo vigente da decenni, oltretutto in contraddizione con almeno
due articoli della Costituzione italiana (l’art. 43 e l’art. 47).
A
dispetto delle intenzioni, il nuovo contesto normativo ha penalizzato
pesantemente i risparmiatori, in particolare i detentori delle
cosiddette obbligazioni subordinate, diventate improvvisamente più
rischiose col nuovo regime.
E,
come era facilmente prevedibile, l’assenza sia di una rete di sicurezza
pubblica per le situazioni di crisi che di un sistema di garanzia
europeo, ha innescato una vera e propria corsa agli sportelli in
relazione agli istituti percepiti come più deboli, o che erano alle
prese con crisi aziendali che sarebbero state facilmente gestibili nel
contesto normativo precedente. In tal modo, secondo il meccanismo ben
noto delle previsioni che si auto-avverano, i problemi di liquidità di
alcuni istituti hanno dato luogo a una fuga dei depositi che ne ha posto
a rischio la solvibilità.
Un’altra
pericolosa asimmetria proviene dal trattamento del rischio di mercato
nel nuovo regime. Il peso di questo rischio – legato all’attività
finanziaria, incluse le transazioni in derivati – risultava
assolutamente sottodimensionato rispetto alla sua portata reale già
negli Stress Test e Asset Quality Review condotti dalla Banca centrale
europea. Il nuovo sistema pone un’attenzione molto maggiore sul rischio
di credito – e conseguentemente penalizza i sistemi bancari come quello
italiano che sono relativamente meno finanziarizzati, ma nei quali il
rischio di credito è un fattore relativamente più importante.
Ma
c’è di più: il rischio di mercato, al contrario del rischio di credito,
non figura nemmeno nelle 5 priorità della Vigilanza bancaria europea
esercitata dalla BCE, come evidenziato nei Rapporti annuali della BCE
del 2015, 2016 e 2017 (si veda l’ultimo).
In
questo modo risulta insufficientemente vigilata precisamente la
tipologia di rischio alla quale è attribuito lo scoppio della crisi
culminata nella Grande Recessione. Più concretamente, è
insufficientemente vigilato il rischio di mercato espresso da alcune
grandi banche tedesche e francesi, e in particolare quello di un colosso
quale Deutsche Bank. Conoscere il valore effettivo dei Level 3 assets
(derivati) di Deutsche Bank è un esercizio più prossimo alla divinazione
che alla stima scientifica: in effetti al team ispettivo della
Vigilanza BCE che ha recentemente condotto un’ispezione presso la banca
di Francoforte “non è stato richiesto nemmeno di prezzare il valore dei derivati in portafoglio“.
L’Autorità di vigilanza europea aveva alzato le mani con un curioso
ragionamento: giudicando cioè irrealistico valutare l’adeguatezza del
pricing dato ai derivati nel portafoglio di Deutsche Bank e di altre
grandi banche, vista la discrezionalità concessa al riguardo a banche e
revisori (si veda L. Davi, BCE, 68 banche sotto ispezione. Fuori i Level
3 dalle verifiche, “Il Sole 24 Ore”, 25 gennaio 2017).
E il vincitore è….
Il
grande vincitore dell’Unione bancaria è stato il sistema bancario
tedesco. Tutte le banche tedesche, ma in particolare le banche di
piccole e medie dimensioni, che hanno infatti beneficiato in primo luogo
di una costruzione del primo pilastro che ha fissato a 30 miliardi di
asset il livello minimo per essere vigilati dalla Bce. Per ottenere
questa soglia minima, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang
Schäuble minacciò di mettere il veto all’Unione bancaria, e non è un
mistero che l’obiettivo era tenere fuori le Sparkassen dalla Vigilanza
europea.
Delle
417 Sparkassen soltanto una è oggi vigilata dalla Vigilanza BCE; stiamo
parlando di banche cui spetta il 22,3% degli impieghi di quel paese,
per un totale di oltre 1.000 miliardi di euro.
Del
resto non è questo l’unico modo in cui queste banche pubbliche,
tradizionalmente legate alla CDU, sono state protette. Vanno citati
almeno altri due modi.
Il
primo è rappresentato dal trattamento di favore riservato dalla
normativa europea ai cosiddetti Institutional Protection Schemes (IPS).
Gli IPS sono sistemi di mutua protezione e garanzia tra le banche
associate, regolati contrattualmente a livello di associazione di
categoria. Sono diffusi soprattutto in Germania (Sparkassen e
Volksbanken), Austria (banche Raiffeisen) e Spagna (Casse di risparmio).
Differiscono sia dai gruppi bancari, sia dai network di banche.
Pertanto non sono direttamente oggetto della disciplina europea – ad
esempio nella Direttiva europea sui requisiti di 4 capitale (CRD IV) gli
IPS non sono neppure citati – né degli accordi di Basilea. La cosa è
stata giudicata da Thomas Stern, esperto dell’Austrian Financial Markets
Authorities, in questi termini: “la decisione del legislatore europeo
di non estendere la regolamentazione riguardante capitale e liquidità
agli IPS è rimarchevole e difficile da capire da un punto di vista
prudenziale”. Stern scrisse queste righe nel 2014, ma da allora la situazione non è cambiata.
Il
fatto di essere membri di un IPS in effetti dà alle banche associate
una serie significativa di privilegi regolamentari. È appena il caso di
dire che le banche italiane in qualche modo confrontabili con le banche
che in altri Paesi europei sono associate in IPS, le Banche di Credito
Cooperativo, rientrano invece pienamente nella normativa europea anche
per quanto riguarda i requisiti di capitale e di liquidità; non solo:
con la L. 49/2016 il legislatore italiano ha imposto l’inclusione delle
Banche di Credito Cooperativo in Gruppi bancari che, oltre a snaturare
la natura mutualistica e cooperativa degli enti associati, avranno in 2
casi su 3 la dimensione di banche “significative” a livello europeo e
quindi saranno direttamente vigilate dalla BCE sulla base dei requisiti
più stringenti in termini di capitale previsti per le banche di maggiori
dimensioni.
Il
secondo modo in cui il governo tedesco ha aiutato le proprie Sparkassen
è molto interessante, ma purtroppo poco noto: è consistito precisamente
nel rimandare sine die il sistema di mutua garanzia e assicurazione dei
depositi tra le banche europee.
Il
nesso può non apparire immediato. Nel 2013 viene decisa la partenza
dell’Unione bancaria con due pilastri su tre. È stato un gravissimo
errore dell’Italia non impedire questa asimmetria, che rendeva l’unione
bancaria incoerente rispetto alle sue stesse finalità dichiarate.
Nel
2015 comunque procedono in qualche modo i negoziati per attivare anche
la mutua garanzia. Ma Sparkassen e Volksbanken non ne vogliono sapere di
partecipare al sistema di mutua garanzia europeo, essenzialmente per
due motivi: in primo luogo perché ritengono di essere in grado di
proteggersi da sole grazie al loro status speciale di IPS; in secondo
luogo, perché temono di dover rendere le proprie regole specifiche
omogenee a quelle delle altre banche, senza più beneficiare delle
eccezioni regolatorie.
Le prime prese di posizione delle Sparkassen contro la mutua garanzia europea risalgono all’estate 2015. Successivamente Schäuble ha minacciato di bloccare la norma nel Consiglio,
con la scusa ufficiale che la Germania si rifiutava di pagare per i
problemi bancari degli altri paesi. Diversi tentativi di compromesso
andarono a vuoto, perché tutti implicavano qualche tipo di vigilanza
europea sulle banche tedesche – svelando così la vera natura del
problema: il desiderio del governo tedesco di ostacolare qualsiasi forma
di vigilanza europea sulle Sparkassen tedesche e le altre banche
minori.
A
inizio dicembre 2015 Schäuble sembrò arrendersi alle pressioni della
Commissione Europea e dei principali altri Stati dell’Eurozona. Il quotidiano economico Deutsche Wirtschafts Nachrichten
evidenziò come una decisione del genere potesse aprire la strada a un
duro conflitto tra il settore bancario tedesco e il governo.
Poi,
l’8 dicembre, il colpo di scena. Il piano di contrattacco di Schäuble
da un lato è consistito nel delegittimare la BCE per il suo presunto
conflitto di interesse tra il ruolo di guida della politica monetaria e
quello di organismo di vigilanza bancaria – una condizione che i leader
europei, Schäuble incluso, avevano da poco deliberato. Ha poi annunciato
la sua opposizione alla proposta di mutua garanzia in assenza del
recepimento da parte di tutti gli Stati della normativa europea sul
bail-in, e, punto fondamentale, fino a che non fossero ridotti i rischi
del sistema bancario. Successivamente ha precisato come fosse necessario
che le banche europee riducessero la 5 quota in portafoglio dei titoli
di Stato del proprio paese. Questa mossa tattica non solo ha rimandato
sine die la discussione, ma ha anche spostato l’attenzione dal rischio
bancario al rischio (sovrano) delle singole nazioni, un campo nel quale
la Germania non ha nulla da temere. Fu infatti l’Italia, con il
Presidente del Consiglio Renzi, ad essere costretta a porre il veto alla
discussione sui bond sovrani nei bilanci bancari, bloccando così la
discussione sul terzo pilastro.
Frattanto
venivano attivati gli altri due pilastri, saltando completamente il
periodo transitorio originariamente proposto per attenuare gli effetti
del cambiamento delle regole. Il risultato è presto detto: le Sparkassen
tedesche potranno continuare a beneficiare di requisiti di capitale più
laschi e di una vigilanza esclusivamente nazionale. Un combinato
disposto che rappresenta un mix esplosivo dal punto di vista dei rischi
di crisi bancaria.
Oggi
una crisi di questo comparto in Germania non avrebbe nulla da
invidiare, nei suoi effetti, alla crisi delle casse di risparmio
statunitensi (Saving & Loans Banks) degli anni Ottanta. Un ciclo
economico tedesco positivo e il fatto che le aree a maggior rischio di
crisi sono altre concorrono a far sì che nessuno oggi si avveda del
problema. Nel frattempo, le Sparkassen e le altre banche tedesche
difendono con le unghie e coi denti la propria autonomia e il diritto di
non essere vigilate da nessuna autorità di vigilanza europea (si veda
“Deutsche Banken sehen EU-Aufsicht kritisch”, Franckfurter Allgemeine
Zeitung, 1 giugno 2017).
Le conseguenze
Comprendendo
questo contesto, le radici dei problemi del sistema bancario italiano
diventano più chiare. Il peso dei crediti deteriorati (NPL) è derivato
dalla peggiore crisi economica in tempo di pace dal 1861.
Il problema è emerso anche perché dopo il 2008 non è stato intrapreso
nessun salvataggio bancario. Se prendiamo le quotazioni di borsa del
settore bancario negli ultimi anni, è facile osservare un andamento
fortemente negativo. Tuttavia, ad uno sguardo più attento, si nota che
la caduta dei prezzi è in genere avvenuta in concomitanza, più che con
notizie genericamente “negative”, con le novità inerenti alla
regolamentazione del settore a livello europeo, o in relazione a
interventi del regolatore europeo stesso su questa o quella situazione,
su questa o quella banca. Si pensi alle lettere spedite dalla vigilanza
europea a questa o quella banca, o anche a diverse banche insieme, per
esempio per chiedere di cedere subito i crediti problematici – pertanto
ad un prezzo molto basso.
Dalla
fine del 2015 – quando la Commissione Europea bloccò l’intervento del
fondo interbancario di tutela dei depositi per salvare quattro banche
locali nei guai – sino al febbraio 2016, dopo l’entrata in vigore del
bail-in senza un periodo di transizione e senza alcuna garanzia europea
sui depositi, sono stati bruciati 46 miliardi di capitalizzazione di
borsa dei titoli bancari italiani su un totale di 134,6. Un crollo del
35%.
È
in ogni caso importante sottolineare che in tutti i casi di crisi
bancaria verificatisi da fine 2015 in poi un elemento determinante è
stata la fuga dei depositi, che semplicemente non avrebbe avuto luogo in
vigenza della normativa nazionale precedente l’entrata in vigore
dell’Unione bancaria. In tutti questi casi è stata determinante, e ha
giocato un ruolo pesantemente negativo, l’assenza di un backstop
pubblico sotto forma di salvataggio (bailout). In tal modo non è
azzardato affermare che per il sistema bancario italiano la nuova
regolamentazione europea ha rappresentato sin dalla sua introduzione un
ulteriore fattore di rischio, anziché – come avrebbe dovuto essere – di
stabilizzazione.
Che
fare? A inizio 2016 vi fu un dibattito in Italia sull’opportunità o
meno di sospendere la regolamentazione sul bail-in. Erano i mesi in cui
una buona parte degli Stati dell’Unione Europea sospendeva de facto il
Trattato di Schengen – l’accordo di libera circolazione all’interno
della UE in vigore dal 1995. Quella sospensione di fatto perdura
tuttora, mentre il bail-in non fu mai sospeso. Ciò è stupefacente –
specialmente a causa del fatto che le regole del bail-in contraddicono
la Costituzione italiana, e date le asimmetrie insite nello strano e
traballante tavolo a due gambe che gentilmente chiamiamo “unione
bancaria”. Ma non è mai troppo tardi per rovesciare politiche sbagliate e
errori di negoziazione. Purché li si comprenda.
* da Academia.edu
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