micromega Fabio Armao
Nel discorso pronunciato durante i festeggiamenti del 2 giugno 2019, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha affermato con estrema chiarezza «che – in ogni ambito – libertà e democrazia non sono compatibili con chi alimenta i conflitti, con chi punta a creare opposizioni dissennate fra le identità, con chi fomenta scontri, con la continua ricerca di un nemico da individuare, con chi limita il pluralismo»[1].
Si tratta di un richiamo forte ai fondamenti stessi della nostra Repubblica reso necessario dal fatto che essi vengono messi a repentaglio, ormai quotidianamente, da una politica sempre più ridotta al livello di faida tra clan.
Le principali istituzioni e procedure di un normale sistema rappresentativo vengono snobbate (per ignoranza, oltre che per dolo, viene ormai da pensare) a vantaggio di uno “spontaneismo armato di tweet” che di diretto possiede non certo il carattere democratico, quanto piuttosto soltanto l’immediatezza del pensiero irriflesso (di riflesso, in effetti, c’è soltanto il volto del leader sul proprio selfie).
Non sono democratici, nelle forme e nella sostanza, i proclami di chi rivendica un potere assoluto (nel duplice senso di superiore alle leggi e ignaro dei diritti delle minoranze) forte al più di una maggioranza mal contata; e neppure i plebisciti on line che, come concorsi truccati, servono a legittimare scelte già prese altrove, nel tentativo di restituire luminosità a un carisma alquanto appannato.
Non si può definire democratico un paese che le cronache quotidiane ci descrivono come preda del peculato (dalle mutande verdi, ai campanacci da mucca, agli ingressi nei bagni pubblici messi in conto spese per attività politica); tanto più grave quanto più miserevoli sono gli usi che vengono fatti di quei denari pubblici, perché sono indice di un disprezzo radicato per la propria funzione. O afflitto dal dilagare degli abusi di ufficio “giustificati” dalle competenze indiscusse di parenti, amici, soci di studio (o membri della ’Ndrangheta). O dai casi di vera e propria corruzione, magari annidata nei più alti organi dello stato, dove cariche del massimo livello vengono contrattate a prezzi da saldo dei grandi magazzini.
Non si può definire democratico un paese nel quale un’emergenza reale – l’incolumità dei migranti messa a rischio dalle condizioni tragiche dei loro viaggi – viene trasformata in una minaccia alla sicurezza nazionale da chi, dalla terraferma e dalla “tolda” del governo, vuole garantirsi una facile rielezione; mentre, al tempo stesso, le vere minacce legate al dilagare di una criminalità organizzata che non ha confronti in altri paesi sviluppati (tranne, forse, il Messico dei narcos) vengono declassate al rango di reati di strada, per difendersi dai quali, oltre tutto, si propone una soluzione fai-da-te: la difesa sempre legittima, un’ammissione di impotenza venduta come conquista di un diritto.
Ma se l’Italia non è una democrazia, come si può definire? e quali sono le cause di questa sua condizione? Il passaggio di millennio, dopo la caduta dei regimi comunisti e la fine della Guerra fredda, ha visto innescarsi pressoché ovunque un processo di ristrutturazione globale delle società che vede come nuovi protagonisti gruppi capaci di attingere a mix originali di risorse della più diversa natura proprio grazie alla riscoperta dei vantaggi dei legami di tipo clanico; e che, in breve tempo, si dimostrano in grado di coniugare locale e globale meglio di quanto non riescano a fare le vecchie istituzioni statali, a un costo più basso e senza i vincoli imposti dal rispetto delle regole democratiche. In un simile contesto, l’Italia assurge a vero e proprio paradigma, arrivando a incarnare un modello di sviluppo a suo modo ideale, prodotto di una combinazione originale di condizioni politiche, economiche e sociali che si sono manifestate nel corso del Novecento; e un elemento imprescindibile del quale è ormai rappresentato dal ruolo che vi giocano le mafie, al Nord come al Sud del paese. Più che di democrazia, allora, bisognerebbe parlare di un’oikocrazia a partecipazione mafiosa[2].
Eventi come quelli appena evocati, in apparenza slegati tra di
loro, contribuiscono in realtà a delineare un quadro coerente che
risulta visibile e comprensibile, tuttavia, soltanto a chi accetti il
presupposto che le istituzioni e gli uomini che (degnamente o
indegnamente) le rappresentano sono, certo, il prodotto delle dinamiche e
dei rapporti di forza attuali, ma contengono in sé le tracce e i
residui del passato. In altri termini, le cronache odierne – a
prescindere dal giudizio che ciascuno è libero di esprimere su di esse –
rappresentano il distillato di un processo di ormai quasi 160 anni, che
fa sì che l’Italia abbia sviluppato un proprio specifico e originale
modo di intendere “l’arte del governo”, il cui fondamento va cercato
nella scelta tutta politica e più volte ribadita nel tempo di non
portare mai a definitivo compimento la costruzione dello stato,
impedendo così che si realizzasse l’unica condizione che consente di
tracciare un confine netto tra pubblico e privato (e i rispettivi
interessi).
Lo stato transpersonale
Tra tutte le istituzioni infatti – come osservava Henri Lefebvre[3] – solo lo stato si pone al di sopra della società per poi infiltrarla in profondità sviluppando un proprio specifico modo di produzione di pratiche mondane: la statizzazione (étatisation) comporta l’esercizio di funzioni manageriali e amministrative; come pure il potere di garantire la sicurezza, e di uccidere. Lo stato, per dirla à la Bourdieu, definisce storicamente un proprio specifico campo del potere (anche simbolico), che attribuisce ai giocatori che vi sono ammessi di godere del privilegio di disporre di una risorsa “universale” quale la possibilità di parlare a nome di tutti: «si può parlare a nome del bene pubblico, di ciò che è bene per il pubblico, e, allo stesso tempo, appropriarsene»[4].
Non è un privilegio da poco, tanto più che chi controlla lo stato può servirsene, oltre che per mantenere l’ordine attraverso la coercizione fisica, per alimentare la credenza fideistica nella legittimità del proprio potere (un tempo attraverso i sistemi scolastici; oggi, per lo più, grazie ai media). E di tale privilegio hanno goduto, nell’esperienza italiana, tanto i governi dell’età liberale e il regime fascista, quanto i partiti politici che si sono succeduti alla guida della Repubblica. Ma in maniera ambigua, generando quello che Sabino Cassese definisce il paradosso di uno stato onnipresente e al contempo introvabile, costoso al pari degli altri eppure meno efficace, moderno eppure arretrato[5].
Nella prospettiva qui adottata, il paradosso si spiega col fatto che l’Italia non ha mai superato la fase dello “stato transpersonale” che, nella sua forma storica originale, aveva segnato il passaggio dalla legge del clan al moderno stato-nazione burocratico di weberiana memoria; e che si basava su una trama alquanto articolata di rapporti vassallatici, nella quale l’elemento della consanguineità (kinship) cominciava ad integrarsi con una nuova forma di obbligazione politica basata sul feudo e sul territorio (lordship). Nel caso italiano, il termine intende invece identificare una peculiare deviazione dai modelli consolidati di istituzionalizzazione, almeno nella tradizione europea occidentale; e l’adozione di un percorso alternativo che, per una serie di circostanze storiche, invece di agevolare il passaggio dalla fedeltà alla persona alla fedeltà alle istituzioni, sembra bloccare lo sviluppo al livello della fedeltà ai potentati che, di volta in volta, si alternano alla guida del governo.
A questa sorta di congelamento del processo di costruzione dello stato corrisponde poi anche una terza via imboccata tra i due modelli classici di governi rappresentativi – il “sistema di gabinetto” inglese, che attribuisce maggiori poteri all’esecutivo e il “sistema parlamentare” francese che privilegia la funzione rappresentativa delle Camere – che consiste nell’interporre sempre e comunque un filtro (un elemento di mediazione) sia tra governante e rappresentante, sia tra rappresentante e rappresentato, configurando un peculiare sistema vassallatico che si sviluppa fin dal momento dell’unificazione secondo la logica complessa delle reti; e che si dimostra capace di connettere sia poteri centrali e periferici, sia attori politici e rappresentanti del mondo economico e della società civile.
Una struttura vassallatica di questo genere consente di ridurre o, quanto meno, di gestire gli squilibri economici e sociali tra le diverse regioni, indirizza la spesa pubblica, facilita i compromessi politici tra progressisti e conservatori. Il vassallaggio infatti, pur prevedendo una relazione ineguale, si basa su una scelta volontaria e reciproca, che lo distingue dalla mera sudditanza. La relazione interpersonale, persino affettiva a volte, che si viene a creare tra gli attori coinvolti permette di aver ragione di distanze fisiche e mentali altrimenti incolmabili; non esclude, tra l’altro, la possibilità di fedeltà multiple (di essere vassalli di due o più signori) e neppure che il legame possa assumere un carattere ereditario seguendo una linea di successione sia dal lato del signore che da quello del vassallo.
Ora, le élites che si trovano a gestire il processo di formazione dello stato unitario affrontano – pragmaticamente, verrebbe da dire – il problema di assemblare una congerie alquanto variegata di kinship e lordship sparse sul territorio nazionale adottando una forma di governo rappresentativo a base vassallatica, impiegando tutte le risorse che hanno a disposizione in quel momento: avvantaggiandosi delle relazioni semifeudali prevalenti nelle regioni del Sud, contando sulla ristrettezza del corpo elettorale per favorire il carattere notabilare dei partiti (e la gestione oligarchica del governo), costruendo l’apparato statale a partire dalla burocrazia piemontese, non lesinando sull’uso della violenza nel tentativo di simulare un monopolio della forza che è ancora ben lungi dal potersi considerare acquisito (basti pensare al fenomeno del brigantaggio).
Soprattutto nella fase iniziale, si può supporre che questa
opzione costituisca una necessità e una scelta in qualche modo
efficiente. Il problema però è che, una volta avviato, questo vero e
proprio circolo vizioso non conoscerà più soluzione di continuità: lo
stato transpersonale genera un sistema vassallatico il quale, a sua
volta, ha sempre più bisogno dello stato, delle sue risorse, per
sostenersi; e sempre più si incista in esso. Il governo ha bisogno del
sistema vassallatico per cooptare i gruppi di volta in volta necessari a
garantirsi le necessarie basi di consenso (ovvero le maggioranze
parlamentari); ma il sistema vassallatico dipende dall’acquisizione del
maggior capitale statualistico possibile da reimpiegare, a fini
privatistici, per assicurarsi la propria stessa sopravvivenza.
I tre princìpi di governo
Questa sorta di imprinting politico condiziona e spiega l’intera storia politica italiana, restituendole coerenza e continuità – riconciliando, quindi, le tante anomalie e i paradossi evidenziati in letteratura – lungo tutte e tre le sue fasi liberale, fascista e repubblicana; ed evidenziando alcune costanti, tre princìpi potremmo dire, che si rafforzano a vicenda e che trovano puntuale conferma anche nel governo formatosi dopo le elezioni del 4 marzo 2018:
1. la negazione reciproca tra governo e opposizione: come ha osservato in particolare Massimo Salvadori, i tre regimi che si susseguono a partire dall’unificazione del 1861 sono accomunati dal fatto di nascere da una condizione di conflitto ideologico (quando non di vera e propria guerra civile) che fa sì che chi assume il controllo dello stato etichetti le maggiori forze di opposizione come un antistato, privo quindi di qualunque legittimità a governare. Le opposizioni, a loro volta, arrivano a rivendicare con orgoglio la propria natura antisistema, con il risultato di impedire così, di fatto, qualunque possibilità di alternanza[6]. Questo vale ancora oggi. Il fatto nuovo del governo Lega-Movimento cinque stelle consiste, semmai, nell’essere riuscito nell’impresa di riprodurre la storica inconciliabilità tra governo e opposizione persino nelle relazioni tra alleati all’interno del governo – come ha evidenziato, in particolare, l’estenuante campagna elettorale per le elezioni europee del 26 maggio 2019;
2. la diade trasformismo-clientelismo: dal principio della negazione reciproca conseguono due delle caratteristiche più citate dagli studiosi del caso italiano; di cui, tuttavia, sfugge spesso la stretta correlazione. Il trasformismo è la via obbligata di un sistema bloccato dall’impossibilità dell’alternanza, la soluzione prosaica prediletta da chi vuole mantenere il potere[7]. Il clientelismo, invece, è «un rapporto di scambio particolaristico e ineguale tra individui privilegiati e sottoprivilegiati»[8] che, in politica, tende ad affermarsi come una vera e propria strategia di mobilitazione basata sulla raccolta di voti tramite la (promessa di) distribuzione di benefici selettivi, per lo più materiali[9]. Ciò che va evidenziato è che il successo dell’operazione trasformistica dipende in realtà dalla forza della rete clientelare di cui può disporre il politico “trasformato”. Trasformismo e clientelismo, in altri termini, sono consustanziali o, se si preferisce, costituiscono le due facce dello stesso problema: il primo non è altro che la trasposizione del secondo a livello parlamentare. Anche in questo caso, non si fa fatica a trovare un riscontro nelle cronache più recenti, con il quasi quotidiano mutare di posizione nel dibattito politico a seconda delle esigenze dettate dal voto parlamentare o dalla ricerca del consenso tra le proprie clientele (o audience) di riferimento;
3. la legge ferrea dell’instabilità: un sistema intrinsecamente conflittuale, incapace di prevedere e accettare l’alternanza al governo, e che finisce col fare affidamento su una rete di relazioni personalistiche che, per definizione, tende ad essere soggetta agli umori e agli interessi del momento, non può che dimostrarsi vulnerabile alle crisi. L’instabilità si rivela anzi, a ben vedere, funzionale alla sopravvivenza stessa dello stato transpersonale basato sul sistema vassallatico: in puro stile gattopardesco, tutto deve cambiare perché nulla cambi.
Nello stato liberale, tra il 1861 e il 1922, si contano 64 governi in 61 anni (con una durata media, quindi, di meno di un anno, 0,95). Nell’Italia repubblicana dal 1946 al 4 marzo 2018 si raggiunge la stessa cifra di 64 governi, ma in un arco di 72 anni (con una durata media di 1,12 anni). Ciò che non cambia, invece, sono le classi politiche, i cui leader dimostrano al contrario un’invidiabile longevità[10].
Vale la pena aggiungere che la legge dell’instabilità sembra anche del tutto indifferente al sistema elettorale prescelto che nella prima fase postunitaria è maggioritario uninominale, poi evolve in maggioritario plurinominale (1882); diventa proporzionale (1919), con un premio di maggioranza (introdotto con la legge Acerbo del 1923, che prevede poi anche un collegio unico nazionale); ritorna al proporzionale classico (1946), per poi evolvere in sistema misto proporzionale-maggioritario (1993, legge Mattarella), nuovamente in proporzionale con premio di maggioranza (2005, legge Calderoli); per arrivare, infine, a una riformulazione in sistema misto proporzionale-maggioritario (2017, legge Rosato).
Il continuo balenare di crisi di governo e la condizione di campagna elettorale permanente che caratterizza il dibattito politico italiano all’indomani del voto europeo conferma la vaidità anche di questo terzo principio. Il cosiddetto governo del cambiamento, quindi, non innova affatto rispetto al passato; semmai spinge all’estremo i fattori che hanno accompagnato e condizionato l’intera vicenda dell’Italia unita. In particolare, la natura clanica assunta dai partiti della cosiddetta Terza repubblica esaspera i conflitti; istituzionalizzando, di fatto, la faida come metodo di lotta tra di essi e al loro stesso interno ed esasperando il ricorso allo spoil system anche in campo economico.
Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che sembra ancora opportuno soffermarsi, seppure brevemente. L’Italia, fin dai suoi inizi, ha preteso di coniugare interventismo statale e libero scambismo, proponendo di fatto un modello di crescita eclettico, per non dire ambiguo[11]. Tale modello genera, di fatto, un cronico ritardo che si riprodurrà nell’Italia repubblicana; mantenendo nel Meridione sacche di modernizzazione passiva (frutto di un’imposizione dall’alto e non di un processo endogeno) e, più in generale, alimentando criticità locali che, invece di essere risolte, finiscono con il propagarsi a livello nazionale. Questi fattori contribuiscono a spiegare l’odierna «inadeguatezza delle istituzioni politiche e dell’apparato burocratico-amministrativo ad affrontare le sfide di un’economia globalizzata»[12]. L’Italia, in altri termini, anche in questo caso – come prima, in relazione al problema del governo rappresentativo – sembra destinata a proporsi come protagonista di una terza via tra le economie di mercato liberali e le economie di mercato coordinate dallo stato: prende a prestito, a seconda delle circostanze, elementi di uno o l’altro di questi modelli.
Ha ragione, quindi, Franco Amatori ad adottare per l’Italia l’espressione «capitalismo politico» per definire la pervasività di uno stato che, tuttavia, finisce col produrre anche negli imprenditori la propensione a perseguire la crescita non per meri fini economici, ma come un modo per raggiungere dimensioni tali da garantire loro un maggior potere contrattuale nei confronti dei politici[13]. È come dire che il settore privato non riesce mai a emanciparsi dallo stato; ma perché, in realtà, non gli conviene.
In forma ancor più prosaica rispetto al passato, questo tema sta
tornando anch’esso d’attualità nei termini del ruolo che il governo
Lega-Movimento cinque stelle sta cercando di attribuire alla Cassa
depositi e prestiti[14].
Non si tratta, sia chiaro, dell’eterno ritorno del dilemma accademico
tra che cosa sia meglio tra imprenditoria pubblica e privata, ma di come
piuttosto si possa gestire il gioco in modo da garantire i profitti ai
privati, scaricando i costi dei fallimenti sul pubblico. Ed è, oggi, su
questo piano che il paese corre i rischi maggiori: un capitalismo
politico, infatti, privo di sufficiente autonomia e che in epoca
repubblicana aveva finora potuto contare prima sui partiti di massa (in
realtà, a lungo, sul monopolio della Democrazia cristiana), poi sulla
convergenza al centro del partito-azienda berlusconiano e
dell’arcipelago della sinistra, rischia di soccombere di fronte al grado
di autoreferenzialità raggiunto dalle tribù del web.
Salvini, la destra e la società autoimmune
Il sistema dei partiti nato dalle ceneri della Prima repubblica detta le linee guida della nascente oikocrazia italiana proponendo un modello di organizzazione della politica che, volendo contrapporsi all’esperienza novecentesca discreditata da Tangentopoli, finisce con l’emulare le caratteristiche proprie del clan; e, visto l’ampio ricorso ai social media, in particolare infine delle tribù del web, la cui sopravvivenza dipende dalla capacità dei propri apparati di propaganda di garantire una mobilitazione permanente su argomenti capaci di stimolare link affettivi (di adesione o repulsione irriflesse) da parte delle proprie audience di riferimento. Nel confronto diretto tra le due forze di governo, il Movimento cinque stelle si è assunto il compito più ingrato di farsi interprete dei sentimenti più “eversivi”, ma incanalandoli nell’alveo più rassicurante di una pseudorivoluzione (perché tale nei toni, non certo nei contenuti). La Lega, invece, ha voluto giocare più sul sicuro, reinterpretando in chiave social una subcultura conservatrice e reazionaria ancora ben radicata in un paese mai del tutto emancipatosi dai lasciti del fascismo.
A Salvini più che a chiunque altro va attribuito il merito, una volta appropriatosi del campo di potere statualistico, di essere riuscito a propagandare come universale (del popolo) una visione del mondo che non riesce (e non vuole) uscire dai confini del clan di appartenenza. Si tratta, bisogna ammetterlo, di un piccolo capolavoro mediatico-propagandistico che gli ha consentito di appropriarsi del bene pubblico – per riprendere l’espressione di Bourdieu – rivendicando con successo il diritto di parlare a nome di tutti, pur essendo il capo di un gruppo che sin dal nome – Lega – dichiara un intento settario; e che tale si manifesta in ogni scelta politica che, non a caso, è governata dal principio di esclusione piuttosto che di inclusione, come sarebbe proprio di una democrazia: che si tratti delle politiche nei confronti dell’Europa, o di quelle redistributive implicite nelle idee di autonomia regionale e flat tax, l’intento è separare, più che unire, e a tutto vantaggio delle regioni del Nord da cui la Lega stessa ha avuto origine.
Salvini, inoltre, ha saputo riprodurre e vendere questo intento settario a livello locale persino nel Centro e Sud Italia, spendendosi personalmente in tour elettorali alquanto inusuali per un quasi-capo-del-governo, dimostrando anche nelle elezioni amministrative del 2019 come il suo progetto egemonico (che sta avendo indubbio successo) passi attraverso la conquista dei territori, prima e più ancora che dei vertici nazionali. Di più di questo: annullando, indisturbato, ogni residua distinzione tra i propri ruoli istituzionali (di vicepresidente del consiglio e ministro degli interni) e quello “trascendente” di capo della Lega, è riuscito ad attribuire rilevanza nazionale alla propria subcultura clanica. Ha ragione, quindi, chi sostiene che il leader leghista può a buon titolo rivendicare il primato nel campo dei populisti; ma bisogna intendersi sul termine.
Il populismo, è stato osservato, «non è un “ismo” come gli altri che abbiamo disseminato nel corso storico della modernità: socialismo, comunismo, liberalismo, fascismo ... [...] È un’entità molto più impalpabile [...]. È uno stato d’animo. Un mood»[15]. Si può essere del tutto d’accordo sul fatto che non si tratti di un’ideologia e che, quindi, non possa identificare un genere specifico di sistema politico (tanto più storicamente inverato). Ma non si tratta neppure soltanto di un mood. Il populismo è una precisa strategia di propaganda, una tecnica di dominio che ha il vantaggio di essere accessibile a chiunque se ne voglia servire, indipendentemente dalla sua appartenenza politica e dalle sue competenze.
Il populismo, infatti, 1) fa riferimento a una comunità talmente indefinita (la gente comune, il popolo) da non aver neanche bisogno di essere “immaginata” e, tanto meno, scelta: è la mancanza di attributi e specificazioni che permette a chiunque di sentirsene parte, senza dover oltre tutto preoccuparsi di esprimere opinioni o assumere comportamenti congruenti con uno specifico sistema di valori; 2) proprio per questo, chi si appella al popolo ha buon gioco a proporsi come unico vero interprete della sua volontà, dal momento che nessuno può dimostrare che non sia vero o evidenziare le contraddizioni intrinseche del suo pensiero (che, semplicemente, non esiste): in una gara tra populisti vince chi interpreta meglio (nel senso teatrale del termine), per riprendere il concetto di Marco Revelli, il mood maggiormente condiviso; 3) teorizza la superiorità di una comunità di esseri sociali limitati e illetterati, perché è soltanto attribuendo valore all’ignoranza degli altri che il leader populista può far risaltare la propria.
Parlare di élites populiste, a ben vedere, è allora in realtà una
contraddizione in termini; sarebbe più corretto dire, piuttosto, che il
populismo è l’arma di cui le élites si servono a volte per distrarre le
masse dai propri fallimenti politici e dalla propria responsabilità
nella crescita delle diseguaglianze. Ma, aspetto altrettanto
imprescindibile, può attecchire soltanto all’interno di una società che,
come la nostra, abbia già cominciato a sviluppare al proprio interno
una patologia autoimmune. Si tratta di una vera e propria psicosi, che
ci impedisce di individuare e rendere innocui i nostri stessi agenti
patogeni; anzi ci fa percepire come una minaccia ciò che, al contrario, è
un fattore che può contribuire a garantire il nostro benessere[16].
Il caso esemplare è rappresentato dal successo mediatico ed elettorale
delle “politiche migratorie” di Salvini: grazie alla sua propaganda, di
fronte a donne, uomini e bambini la cui vita – parafrasando Ulrick Beck[17] – si potrebbe riassumere nell’espressione Ho paura della fame!, noi che saremmo in grado e avremmo il dovere di accoglierli ci permettiamo il lusso di rispondere dicendo Ho fame di paura!
La crisi come fattore di governo
Alla luce dell’analisi fin qui condotta, la crisi di governo apertasi formalmente il 20 agosto non costituisce una sorpresa. In estrema sintesi, potremmo dire che l’affermarsi delle tribù del web ha esasperato le caratteristiche dello stato transpersonale italiano, così come si era venuto costituendo fin dall’Unità. In particolare, le esigenze indotte dalla mobilitazione permanente delle proprie audience di riferimento ne ha esaltato i princìpi di governo – la negazione reciproca tra governo e opposizione (oggi persino tra alleati di governo), la diade trasformismo-clientelismo e la legge ferrea dell’instabilità – a un punto tale da trasformare la minaccia della crisi essa stessa in un fattore di governo. Il fatto è che, come ci ha insegnato la strategia della dissuasione ai tempi della Guerra fredda, per mantenersi credibile, una minaccia deve prima o poi essere messa in atto.
Che toccasse a Salvini scatenarla, era implicito nel ruolo di maschera machista che egli stesso aveva deciso di interpretare nel teatro populista, nel rispetto peraltro della tradizione del celodurismo di bossiana memoria. Così pure era prevedibile che il dibattito avrebbe fin dall’inizio snobbato qualsiasi vero contenuto politico, per degenerare piuttosto in una trama inestricabile di faide tra boss, vice-boss e semplici gregari che rendono la soluzione della crisi stessa una vera e propria lotteria, senza oltre tutto alcuna garanzia, per chi dovesse estrarre il biglietto vincente, di potersi godere a lungo l’incasso.
Dovrebbe, tuttavia, risultare altrettanto evidente che una strategia di questo genere non può prolungarsi nel tempo – se non altro perché ce lo impediscono le condizioni economiche e politiche internazionali: non i cosiddetti poteri forti, sia chiaro, bensì il mero fatto di “esistere nel mondo”, rivendicando per di più (e a buon titolo) un ruolo da grande potenza industriale. Delle due vie disponibili per garantire al paese una maggiore governabilità, la prima è la più auspicabile, ma la più impervia: intraprendere quel percorso di costruzione di uno stato infine davvero democratico che la nostra storia ha di fatto finora impedito. La seconda è in discesa, per l’abbrivio garantito dalle forze oggi in campo e perché tutto sommato più congeniale ad una società autoimmune; ma è destinata a condurci nel baratro di un nuovo autoritarismo.
NOTE
[2] Il neologismo oikocrazia deriva dall’unione del termine greco kratos, potere, con oikos, che identifica la casa, ma anche la famiglia, il clan (e, per questo, costituisce la radice anche della parola economia). Ho già introdotto questi temi in due precedenti articoli. Si veda F. Armao, «L’oikocrazia come “soluzione” (totalitaria) al problema del rapporto tra le élites e le masse», MicroMega, 1 febbraio 2019 (http://temi.repubblica.it/micromega-online/oikocrazia-come-soluzione-totalitaria-al-problema-del-rapporto-tra-elites-e-masse/); e F. Armao, «L’Italia dei clan (come nasce un’oikocrazia a partecipazione mafiosa)», MicroMega, 3, 2019, pp. 199-209.
[3] H. Lefebvre, State, Space, World. Selected Essays, University of Minnesota Press, Minneapolis 2009.
[4] P. Bourdieu, Sullo stato, Corso al Collège de France. Volume I (1989-1990), Feltrinelli, Milano 2013, pp. 162-163 (corsivo mio).
[5] S. Cassese, Lo stato introvabile. Modernità e arretratezza delle istituzioni italiane, Donzelli, Roma 1998.
[6] M. L. Salvadori, Storia d’Italia. Crisi di regime e crisi di sistema 1861-2013, il Mulino, Bologna 2013.
[7] L. Musella, Il trasformismo, il Mulino, Bologna 2003.
[8] G. Roth, Potere personale e clientelismo, Einaudi, Torino 1990, p. 6.
[9] S. Piattoni, Le virtù del clientelismo. Una critica non convenzionale, Laterza, Roma-Bari 2007.
[10] Solo a titolo di esempio, si può osservare che al governo del Regno d’Italia si alternano 30 presidenti del consiglio, che scendono a 28 nel periodo repubblicano. Nel primo caso, il primato del numero di governi presieduti (non di durata) spetta a Depretis, 8 volte Presidente del consiglio, seguito da Giolitti e di Rudinì (con 5 governi a testa). Nel secondo caso, in cima a questa graduatoria troviamo De Gasperi e Andreotti (con 7 governi, ma De Gasperi sale a 8 se si conta anche la sua premiership dell’ultimo governo del Regno d’Italia), seguiti da Fanfani (6 governi) e da Moro e Rumor (5 governi).
[11] F. Barca, «Compromesso senza riforme nel capitalismo italiano», in F. Barca, a cura di, Storia del capitalismo italiano, Donzelli, Roma 2010, pp. 3-115.
[12] E. Felice, Ascesa e declino. Storia economica d’Italia, il Mulino, Bologna 2015, p. 99.
[13] F. Amatori, «Entrepreneurial Typologies in the History of Industrial Italy: Reconsiderations», The Business History Review, 85, 1, 2011, pp. 151-180.
[14] S. Rizzo, «Dall’Eni a Fincantieri la Cdp vuole tutto e così nasce la nuova Iri», la Repubblica, 31 maggio 2019.
[15] M. Revelli, Populismo 2.0, Einaudi, Torino 2017.
[16] Per una più estesa trattazione dell’idea di società autoimmune, si veda F. Armao, Viaggio al termine della democrazia. Dall’età dei diritti alla società globale dei clan, in corso di pubblicazione.
[17] U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000.
(4 settembre 2019)
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