sabato 22 novembre 2014

GIUSEPPE PANISSIDI – Del conflitto tra diritto e giustizia. Il caso Eternit.

Non c’è giustizia. Chissà, forse anche perché da un pezzo non scende più manna dal cielo, tranne che nella divertente metafora biblica sulla ‘giustizia distributiva’ di Robert Nozick. Intanto, sulla terra, si fa quel che si può.

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Cioè, si impreca. Risuonano le parole e scorrono le penne dell’universo mediologico e giuridico, visibilmente trafelato, stavolta nei confronti della Suprema Corte di Cassazione. Resta, comunque, trepida l’attesa che qualcuno, congedandosi momentaneamente dal politichese, chiarisca a sé stesso, prima che al popolo sovrano quali ‘specifiche’ funzioni l’ordinamento costituzionale attribuisca a quel consesso della giurisdizione. Il giudice della legittimità è certamente organo di “giustizia”, ma solo perché, in via preliminare, è organo di “diritto”. Nello Stato, appunto, di diritto. Non di giustizia. La giustizia di cui parliamo, infatti, la giustizia che invochiamo, altro non è se non la corretta applicazione dei principi del diritto. L’’altra’ giustizia, se anche non meno importante, esibisce l’essenziale ‘sentimento del giusto’, che ci fa onore come esseri umani dotati di logos, ma non vale a guidare le pronunce della giurisdizione.

Si consideri, in proposito, una qualsiasi ‘res iudicanda’. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi (per nulla surreale) di un giudice tenacemente convinto, sul piano logico-psicologico, della colpevolezza dell’imputato. Si immagini, ora, che quel giudice, per motivi di ‘giustizia sostanziale’, commini una condanna senza avere raggiunto la prova della responsabilità dell’imputato oltre ‘ogni ragionevole dubbio’. Diremmo che è stata fatta giustizia o, piuttosto, che è stato inflitto un vulnus terribile ai più basilari principi della civiltà giuridica e della persona, dunque alla Civiltà come tale? Dopo Beccaria, il convincimento è radicato: meglio un colpevole fuori, che un innocente in prigione. Hic Rhodus, hic salta.
Grande il disordine sotto il cielo, ma la situazione non è eccellente. Invero, si sta consumando una perniciosa confusione tra principi, valori e concetti, tra ‘giustizia’ ed ‘equità’, nobile principio di ascendenza formalmente aristotelica, ancorché presente nella cultura greca precedente. Aristotele ne formula la definizione concettuale: “L’equità è una forma di giustizia che trascende la norma scritta”, necessaria per risolvere comandi normativi collidenti. Una vera e propria “virtù”, la cui attuazione dipende dell’esistenza di una disposizione di carattere nell’individuo che deve realizzare l’azione. Nello stesso senso, tra gli altri, Chäim Perelman definisce l’equità come “una tendenza a non trattare in modo troppo disuguale degli esseri facenti parte di una stessa categoria essenziale”.
Il valore dell’equità, pertanto, definisce comportamenti e decisioni eccedenti il “giusto legale”, ossia il quadro del diritto codificato. Se non ché, alla Suprema Corte, non soltanto non è consentita l’applicazione del principio di equità, ma bensì è imposta la scrupolosa applicazione del diritto codificato. Ché, anzi, essa, in quanto organo ‘nomofilattico’ –  lemma tecnico impronunciabile, ma di  limpido significato: “protettore della norma di diritto” – “quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”. Tale rigorosa configurazione, da ultimo, ribadita, nel  D. Lgs. n. 40 del 2006, e largamente presente nel diritto pubblico internazionale, mira all’unità dell’ordinamento giuridico e alla salvaguardia della ‘certezza del diritto’, sebbene le frequenti oscillazioni nella giurisprudenza di legittimità, in contesti di complessità sociale, talora sembrino affievolire la detta funzione regolatrice della Corte.
In ogni caso, la vexata quaestio del rapporto tra diritto e giustizia dev’essere perciò posta in termini seri, non (pericolosamente) emotivi e demagogici. E, soprattutto, senza pretendere dal giudice di ultima istanza la ‘concessione’ di una giustizia eccedente i principi ordinamentali formali dello Stato di diritto.
Sembra, invece, più opportuno e pertinente interrogarsi intorno alle ragioni logico-giuridiche della decisione in argomento.
Si è osservato, in modo quasi corale, finanche autorevole, che gli effetti perversi delle condotte antigiuridiche dell’Eternit non sono cessati con la chiusura degli stabilimenti. Nessun dubbio può esservi sul punto, almeno per individui mentalmente sani. Né v’è ragione di credere che la Corte viva fuori dal pianeta. Quegli effetti perdurano con innegabile, drammatica stabilità. E tuttavia, in punto di diritto, ciò non è sufficiente. La configurazione del delitto di disastro ambientale come fattispecie ‘a carattere permanente’, infatti, esige – dottrina e giurisprudenza pacifiche e costanti – come suo indefettibile presupposto la volontà di protrarre nel tempo la violazione del comando giuridico. La chiusura degli stabilimenti esclude palesemente e in radice l’occorrenza della detta ‘volontà’, e attesta l’opposto, a nulla (purtroppo) rilevando la persistenza degli effetti nocivi.
Un esempio può aiutare a comprendere meglio. Se, dopo un sequestro, una persona viene liberata, lo ‘specifico’ reato di sequestro cessa in quello stesso momento. Qualora, però, durante la prigionia, quella persona si sia, putacaso, ammalata in modo più o meno grave e stabile, oppure muoia a seguito e a causa dei patimenti subiti durante il sequestro, allora, ferma restando l’avvenuta consumazione/cessazione del reato di sequestro, si procederà in ordine alle ‘altre’ fattispecie legali, quali le lesioni o l’invalidità o il decesso. Non a caso, ora si sta procedendo in relazione agli omicidi-Eternit. Ora.
Al riguardo, e non casualmente, con la sua naturale saggezza Giancarlo Caselli ha stigmatizzato la disciplina (pseudo-politica) della prescrizione, non già la pronuncia della Suprema Corte. Un saggio di… ‘giustizialismo’?
Ripugnano, al contrario, le grida di un rottamatore che si vede costretto a cambiare mestiere, a ripristinare, ossia, un istituto della prescrizione che sia munito di (almeno) un minimo di decenza, dunque presentabile al mondo, in conformità agli ordinamenti giuridici democratici internazionali. Ciò che, tuttavia, appare sommamente ridicolo sono le ‘condizioni’ in cui il novello ‘restitutore’ dovrà operare, vale a dire gli alleati del suo scalcinato esecutivo e di improbabili riforme. Si tratta, infatti, dei medesimi soggetti responsabili degli innumerevoli stravolgimenti ad personam del vigente ordinamento penale, prescrizione in primis. Carnevale è davvero vicino. Anziché stracciarsi le vesti, nell’ormai abituale guisa farisaica, perché il nostro uomo-grandi-riforme non prova a vergognarsi e, magari, nascondersi faccia al muro in compagnia dei suoi soci, come amava suggerire il non dimenticato Fortebraccio?
Giuseppe Panissidi
(21 novembre 2014)

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