di Giuseppe Panissidi
Il mondo tira un sospiro di sollievo. Il Capo dello Stato non dovrà sopportare l’onta di una deposizione testimoniale alla presenza di conclamati mafiosi, anche se collegati in videoconferenza. Una Corte di giustizia ha risolutamente posto in salvo le prerogative costituzionali presidenziali, che sarebbero state “sfregiate” da quelle oscene presenze. Più che giusto, il diavolo non va mai mescolato con l’acqua santa. Si dà però il caso che il diavolo indossi stavolta le vesti di imputati, già condannati, titolari del diritto, costituzionalmente protetto, al giusto processo. Il diritto di “Habeas Corpus”, or sono otto secoli. Non sono quisquilie.
Il discorso, allora, si sposta di “piano”, per interpellare la cruciale questione di un (eventuale) conflitto, a detrimento delle citate prerogative costituzionali del Presidente. Che nessuno, naturalmente, immaginava di intaccare, men che mai l’ufficio del pubblico ministero costituito presso il giudice penale di Palermo. Anche perché, culturalmenteintercalando alla Crozza-Razzi, la Corte Costituzionale, pronunciando proprio nell’ambito di una controversia presidenziale con la Procura di Palermo, ha recentemente e inequivocamente chiarito che il nostro Capo dello Stato è (pressoché) onnipotente, ovvero (quasi) immune rispetto allo stesso dettato costituzionale. Come ha criticamente osservato Alessandro Pace, rappresentante della Procura siciliana, nel corso di quell’udienza. La Costituzione repubblicana, invece, nella sua alta ispirazione democratica, a dispetto di qualche leggenda metropolitana, all’art. 90 indubbiamente blinda l’istituzione presidenziale, ma solo relativamente ai reati “funzionali” del Presidente, cioè “agli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni”.
In breve: il Capo dello Stato non è al di sopra della legge. Resta sempre salva la possibilità d’ingaggiare una lite temeraria (e grottesca) con la lingua di Dante. Altrimenti, la deduzione appare, come è, imperativa. In ordine a ogni atto, fatto e/o devianza, sconnessi dalle sue funzioni, precedenti o successivi al mandato presidenziale, ovvero compiuti nel corso del medesimo, e salvi i casi di alto tradimento e attentato alla Costituzione, il Presidente non soltanto può, ma “deve” rispondere. Come imputato o come testimone, al pari di ogni altro cittadino. Cittadini sovrani e principi senza scettro, per dir così.
Ora, è notorio che le regiudicande in argomento concernono fatti pregressi, risalenti a più di vent’anni fa. E pertanto, non riferendosi all’odierno “tempus” di “esercizio delle funzioni”, e non concernendo “atti” compiuti dal Presidente, essi risultano totalmente estranei alle guarentigie presidenziali. Né vi sono possibili margini di interpretazione del sintagma “atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni”, nel senso dell’”odierna” deposizione testimoniale – la testimonianza come “atto” compiuto nel presente – posto che la norma costituzionale vuole unicamente significare l’“irresponsabilità” delle condotte presidenziali nel porre in essere atti e fatti. Fuori argomento, perciò, l’escussione testimoniale, sia pure in merito a fatti più recenti, decisa da un’Autorità Giudiziaria, poiché, come tale, non appartiene alla specie degli “atti funzionali” del suo ufficio in testa al Presidente, pur convocato in quanto Presidente/testimone. Questo è tanto vero, che il Presidente aveva preventivamente dichiarato di “non avere nulla da dire”, ovvero di non avere compiuto alcun “atto funzionale” da chiarire e di ritenere di non averne da compiere, testimonianza inclusa. Pacificamente. Assai arduo, comunque, comprendere la ragione per la quale un’ipotetica immunità presidenziale totale, ovverouna garanzia di irresponsabilità per la sua persona, implicherebbe la necessità dell’esclusione dei “domini” del processo penale, quali sono gli imputati.
Una sommessa proposta. E se, nelle more della rottamazione, tutti insieme, appassionatamente, provassimo a rispettarla, la Costituzione? Così, una tantum, un estremo omaggio alla grande… turlupinata.
“Magis amica veritas”, si vorrà convenire. Se non ché, bisognava a qualsiasi costo scongiurare uno “sfregio” fatale. Una preoccupazione altamente meritoria, in fondo, seppure patetica alquanto. Detto e fatto. Raggiungeremmo l’optimum, è patente, superando organiche torsioni farisaiche, se provvedessimo, con uguale impegno, consapevolezza e tempestività, riguardo all’intera costellazione di sfregi che il sistema costituzionale sopporta, e proprio nelle dinamiche della vita pubblica. La cui portata ed estensione sono tali da deturpare irreparabilmente il volto di una democrazia malconcia, nella crescente opacità della memoria del debito di Civiltà che, per essa, si è storicamente saldato.
Al solo scopo di comprendere, sarà perciò lecito porre qualche interessante questione.
Si è detto, anzi urlato, che bisognava sottrarre il Presidente a un insopportabile imbarazzo, cosicché il dibattito si è immiserito in un banale certamen tra “imbarazzo sì”, ci sarebbe, “imbarazzo no”, non ci sarebbe. E’ un vero peccato, in proposito, che la Repubblica democratica abbia solo l’”imbarazzo” della scelta in materia di “imbarazzi” verso sé stessa e v/s le mafie! Se di questo poi e davvero si trattasse, non si può fare mistero del fatto che l’argomento appare, comunque, vagamente irrilevante. Il diritto, difatti, costituzionale e non, a prescindere da qualsiasi concezione filosofica di riferimento, sistema di “civil law” o di “common law”, esclude per sua natura preoccupazioni di indole emozionale. Ché, anzi, si costituisce e ne rappresenta il diretto antipode. La discussione pubblica, al contrario, ora scopertamente versa e affonda in valutazioni empiriche di mera “opportunità”, schematizzate in dottrina come “travisamento del fatto”. Gli uomini delle mafie non vengono certo perseguiti e condannati per ragioni di “opportunità”, bensì alla stregua di precise norme incriminatrici dell’ordinamento giuridico.
Nel senso preciso che, nel doveroso rispetto delle umane sensibilità e psicologie, nonché dei ruoli istituzionali, e però senza escludere innanzitutto, vedi caso, le vittime delle mafie quali soggetti passivi del delitto, l’universo giuridico contempla principi, interessi e doveri afferenti a un ordine e a una dimensione toto caelo diversi. La sfera, per intenderci del “diritto oggettivo”, che innerva diritti soggettivi “assoluti”, è il nostro caso, e “relativi”. Ovviamente, anche quelli dell’ex senatore Nicola Mancino, anch’egli escluso dall’esperimento dibattimentale, e non certo per le stesse ragioni dei due boss della mafia, e però anch’egli sacrificato sull’altare di un’inesistente “immunità” presidenziale.
Hic Rhodus, hic saltus.
In primis, il principio del “giusto”. “Del giusto civile, scrive Aristotele, una parte è di origine naturale, un'altra si fonda sulla legge. Naturale è quel giusto che mantiene ovunque lo stesso effetto e non dipende dal fatto che a uno sembra buono oppure no; fondato sulla legge è quello, invece, di cui non importa nulla se le sue origini siano tali o talaltre, bensì importa com'esso sia, una volta che sia sancito”. Alla stregua di tale assunto, il diritto dell’imputato al giusto processo, dunque alla partecipazione e all’intervento personali, cardini del suo diritto di difesa, e a prescindere dalla indispensabile legale rappresentanza, si configura come un principio di Civiltà giuridica ed etica universale e inconculcabile.
Come tale, infatti, viene classificato e concettualizzato nelle capitali elaborazioni dei supremi principi e valori giuridici della modernità. Dove, tuttavia, non è dato rinvenire traccia alcuna di criticità e incertezze, men che mai di “conflitti” tra le “prerogative” di capi di Stato od organi di governo e i diritti individuali e collettivi dei popoli. L'idea stessa di “diritti dell'uomo”, quali “diritti soggettivi assoluti”, esclude di per sé quell’eventualità e si inscrive tout court nel diritto, se orale o scritto sotto questo profilo non rileva, nella sua applicazione universale, in quanto munito di una forza cogente superiore ad ogni altra norma. E, a fortiori, a ogni altra “prerogativa” o “legittimo interesse”, anche, va da sé, di rango istituzionale. Non casualmente si parla di “proclamazione” di tali diritti, anziché di ordinaria “emanazione” di norme legali, a fronte di un'evidenza preesistente e irrefutabile, immediatamente riconoscibile e identificabile, a differenza di un’ordinaria “convenzione”. Poiché fonte sovrana e perenne della legittimità di questi diritti, del loro carattere laico e universale, è la stessa umanità, convocata come “testimone” indefettibile e sovrano.
Non si dimentichi – sia detto incidenter tantum, riguardo alla pattuglia degli obiettori alla nozione di “diritti dell’uomo”, in quanto preesistenti all’ordine sociale e politico-giuridico – la significativa (e conclusiva) esperienza dei processi al nazismo, incardinati e celebrati sul presupposto di tali diritti, nella riconosciuta mancanza di norme specifiche e codificate di diritto positivo.
Così almeno dopo la prima dichiarazione dei diritti dell'uomo dello Stato della Virginia, il 12 giugno del 1776, ampiamente mutuata da Thomas Jefferson nella dichiarazione dei diritti dell'uomo contenuta nella “Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America”, il 4 luglio del 1776. Vi si legge che "tutti gli uomini sono creati uguali tra loro, che essi sono dotati dal loro creatore di alcuni inalienabili diritti tra cui la vita, la libertà e la ricerca della felicità". Fino alla prima, vera propria Carta formale dei diritti dell'uomo del 1789, meglio nota come “Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino” e alla “Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo”, siglata a Parigi il 10 dicembre 1948. Carta, quest’ultima, che, per la prima volta sanciva l'universalità di questi diritti, non più limitati ai paesi occidentali, ma rivolti ai popoli del mondo intero, perché basati su un concetto di dignità umana intrinseca, inalienabile, ed universale. Il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale; al riconoscimento come persona e all'uguaglianza di fronte alla legge; a garanzie specifiche nel processo penale; alla libertà di movimento e di emigrazione; all'asilo; alla nazionalità; alla proprietà; alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; alla libertà di associazione, di opinione e di espressione; alla sicurezza sociale; a lavorare in condizioni giuste e favorevoli e alla libertà sindacale; a un livello adeguato di vita e di educazione.
Si consideri che lo stesso potere assoluto del sovrano hobbesiano, pur non avendo alcun dovere nei confronti dei singoli sudditi, ha il compito supremo di proteggere lo Stato, avendo sussunto nella propria persona la più ampia gamma di diritti individuali, che in nessun modo può violare, data la specifica natura del “patto”. Se lo infrange, il “dominus” può essere deposto. Del pari, egli non può ordinare ai sudditi di uccidersi o pretendere che essi “danneggino” o lascino danneggiare la loro persona, poiché il principio dell'autoconservazione della propria vita è l'unico diritto che non gli è stato trasferito.
Ne discende che, ragionevolmente escluso il codice di Hammurabi, entro lo stesso schema teorico-politico del “Leviatano” non esistono “prerogative” istituzionali valide a privare un imputato del diritto “naturale” alla difesa, tassativamente declinato anche come “personale” partecipazione e intervento nel processo, qualora lo ritenga opportuno, naturalmente, a fronte del legittimo esercizio della pretesa punitiva dello Stato.
I successivi tre secoli di Civiltà giuridica non valgono acqua fresca. Questo a pena, per l’appunto, di un “danno assoluto”, un vulnus ossia a un “diritto soggettivo assoluto” che, in quel caso, verrebbe inflitto all’individuo ed egli stesso, subendo, verrebbe costretto a infliggere a sé stesso. Contro il diritto, soprattutto, e insieme contro natura. In tema, per l’appunto, l’”essere umano” imputato, chiunque egli sia, anche il più depravato – chiedere lumi a papa Francesco, “diritto naturale religioso” a parte – e del tutto indipendentemente da questioni contingenti ed allotrie, “trattative” incluse.
Alla luce delle risoluzioni plurime dell'ONU, infatti, ad eccezione dei Diritti Umani non-derogabili e non-negoziabili, come il diritto alla vita, alla libertà dalla schiavitù, alla libertà dalla tortura e all'impossibilità della retroattività dell'azione penale, alcuni diritti possono essere posti sotto limitazione o finanche sospesi in situazioni di emergenza nazionale.
Non sembra il caso che qui occupa. L’ONU ha peraltro precisato che questo può avvenire soltanto a speciali, ristrettissime condizioni, cioè che "l'emergenza debba essere effettiva, coinvolgere l'intera popolazione e che ad essere messa in pericolo debba essere l'esistenza stessa della Nazione. Di talché, la detta dichiarazione d'emergenza deve essere posta in essere solo come estrema risorsa e, comunque, adottata come misura temporanea". La stessa condotta in guerra è sempre e comunque governata dalla “Legge Umanitaria Internazionale”. Figurarsi.
In ogni caso, ove mai si ritenesse, come molti sembrano (implicitamente) credere, che il quadro, qui concisamente tracciato, confligga con la nostra Carta fondamentale, o viceversa, si porrebbe un serio problema di Civiltà. Ove mai si ritenesse. Si renderebbe, allora, necessario e urgente che l’esecutivo in carica, per sanare una “devianza” siffatta, esplicasse il medesimo zelo con cui ha intenzione e minaccia di destrutturare la nostra Carta fondamentale. Di concerto, per di più, e a vantaggio di “utilizzatori finali” di fatto già variamente beneficiati.
“O Vergogna, dov’è il tuo rossore?”, invoca Shakespeare, in prossimità di un amaro richiamo al “modo d’agire sotterraneo”. Se non ché, “per un popolo libero”, argomentava Demostene, “la vergogna costituisce lo stimolo più forte”.
“Ex absurdo sequitur quodlibet”, il Medioevo non smette di insegnare, e lotta insieme a noi. Nell’assurdo tutto è possibile. Se taluno può anche soltanto concepire l’esilarante (s)proposito di “rifondare” lo Stato attraverso un Parlamento di nominati, inquisiti e condannati. Pur “legittimato”, con irrituale entrata a gamba tesa nel “merito”, dalla Consulta, nell’atto stesso della declaratoria di (parziale) incostituzionalità della legge elettorale pre-vigente. Quale la prospettiva? Quale lo “stigma”? Certamente, anche un mattone vuole essere qualcosa, e pietre e mattoni hanno costruito le grandi cattedrali delle arti e dei saperi in ogni tempo. Ma sono “queste” le pietre? “Questi” i mattoni? “Questi” i materiali di costruzione? “Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate”.
Eppure, l’Aventino di massa, espresso dal picco di astensionismo elettorale, e le incisive tematiche proposte, ancorché in modo incoerente e confuso, talora finanche goliardico, da alcuni settori dell’opposizione politico-parlamentare, dimostrano che, malgrado la nequizia dei tempi, non siamo (ancora) tanto avviliti da escludere la possibilità di un Parlamento “altro”. “Altro” dai comitati d’affari e/o dalla chiacchiera impotente, altro dalla “ragion pigra”: una sede autentica di sovranità popolare, motore di un più incisivo e pervasivo avanzamento civile, morale e democratico. Finalmente fuori dalle secche di un presente troppo dilatato e da uno stallo mortificante. Per tutti, senza eccezioni.
Perché (quasi) tutti sappiamo, anche senza andare a votare, che “quel” progetto, in quanto sottende una “visione” distorta e distorcente, non è accettabile, almeno non da uomini di buona volontà. Neppure per un pugno di euro, ottanta o più che siano, per quanto proficui in cash elettorale, di certo non in termini politico-culturali, civili e morali.
Epperò, lieta novella, poiché si tratta di gente in odore di Nazareno, restiamo nella trepida attesa di comprendere quale precisa relazione leghi costoro alla “natività”, visto che con Gesù bambino non paiono, ictu oculi, avere molto in comune. Miracoli a parte, naturalmente. A parte, altresì, (inquietanti) somiglianze antropologiche, ancor prima che politiche, tra sedicenti “comunicatori”. Meglio: imbonitori. Affinità elettive profonde, che, da sole, valgono a spiegare quell’osmosi di “consensi”, quando non vero e proprio “transfert” dall’uno all’altro, di cui è parola nei più recenti sondaggi.
Quanto sono lontani i tempi in cui il “comunicatore” esibiva l’identità del “vir bonus dicendi peritus”. Si chiamavano Catone, Seneca, Cicerone, Quintiliano, quelle “fonti di saggezza”, quegli “educatori di popolo”. E il popolo li amava e osannava.
Parlava di uomini di valore, quell’intelligencija di alta temperie morale. Parlava di galantuomini. Esperti anche nell’espressione. Anche.
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