micromega di Pierfranco Pellizzetti
Nella catastrofe annunciata dell’ennesima alluvione di Genova, assassina seriale, risuona perfino una nota grottesca.
La notte di giovedì 9 ottobre il sindaco Marco Doria, tornato da teatro, sta dormendo un sonno tranquillo; rassicurato dalle previsioni del centro regionale per la protezione civile (Arpal) che annunciano l’arrivo dei soliti temporali autunnali. Intensi e copiosi ma non tali da giustificare allerte di sorta.
Esattamente nello stesso momento si stanno scatenando sulla città precipitazioni di inusitata potenza (rinominate “bombe d’acqua” dalla retorica mediatica odierna, mirata a fornire assoluzioni preventive ai governanti imprevidenti); che riportano alla memoria storica dei genovesi (quelli sprovvisti della fascia da sindaco), intenti a scrutare con crescente apprensione il repentino succedersi degli accadimenti, terribili ricordi di devastazioni pregresse. Ripetutesi con puntualità a dir poco cronometrica (seppure ogni volta definite “epocali”), a partire da un lontano 7 ottobre 1970.
Bastano pochi minuti e la città si trasforma in un’immensa piscina di acqua fangosa e mulinelli, mentre correnti impetuose trascinano via arredi urbani e auto parcheggiate come paperette galleggianti. Tra queste c’è una mastodontica vettura blindata, che la furia degli elementi trasforma in proiettile lanciandolo contro la Questura nel quartiere Foce (del Bisagno). Il colpo sparato dall’obice idrico sfonda un muro del palazzo e penetra nelle stanze dell’Ufficio immigrazioni, distruggendo gli arredi e – soprattutto – i faldoni contenenti documenti da cui dipendono le speranze di tanti residenti in città. Il giorno seguente si appurerà che l’arma impropria è di proprietà del cardinale arcivescovo Angelo Bagnasco; da lui utilizzata in visite pastorali presumibilmente “corazzate”e non certo fiduciose nel prossimo (chissà cosa ne penserà papa Francesco, che predica sobrietà anche nella scelta dei mezzi di locomozione da parte dei prelati).
Comunque sia, è proprio il solitamente cinguettante porporato, mentre la città si risveglia in mezzo alla catastrofe, a lanciarsi in sdegnate invettive contro le imprevidenze dei pubblici amministratori. Più che giusto. In effetti il punto sta proprio qui. Ma con un piccolo particolare aggiuntivo: il primo colluso con questi signori è proprio sua eminenza Bagnasco. Il quale si spese, nell’ultima campagna elettorale per il rinnovo del consiglio regionale, in appoggio al Governatore Claudio Burlando; organizzando – a uso e consumo dell’elettorato cattolico tradizionalista – la pagliacciata di una temporanea riconciliazione del city boss ex comunista con la moglie, da cui era separato ormai da tempo. Benedizione cardinalizia al ritrovato nucleo familiare per pura spendita mediatica rielettiva; ricompensata da parte dello scafato politico, beneficiato da tale avallo, con la (apparentemente incomprensibile) cessione alla Curia del posto spettante all’Ente Regione nel CdA in Fondazione Carige; il braccio finanziario di territorio, poi nel mirino degli ispettori di Bankitalia e attualmente pure della magistratura locale.
Nella mattinata del sabato l’immediato approccio alla questione, da parte di amministratori in evidente stato confusionale, era il palleggiamento di responsabilità sul mancato avviso di allerta. Argomentazione di respiro più che minimo, liquidata con straordinaria puntualità proprio dalla vignetta del giorno di ElleKappa: «A Genova un problema di mancata allerta». «A saperlo, un paio di ore prima scattava subito il riassetto del territorio».
Ridicolo, eppure centratissimo!
Difatti, al di là dell’emozione e del cordoglio doverosi, la vicenda è la sintomatologia lampante del fallimento di una classe dirigente. Con in testa l’ormai un po’ bollito presidente di Regione Liguria. Quel Claudio Burlando (tra l’altro nominato da Renzi commissario ad acta per il Bisagno) che da un quarto di secolo tesse la tela di potere in cui vengono avviluppate e prosciugate tutte le risorse intellettuali e morali del territorio; mentre alla sua ombra il quadro della politica locale brulica di inadeguati che praticano il cinismo carrieristico, esemplificato alla grande da cotanto leader-precursore. Magari quei politicanti regionali sorpresi dalle indagini della Finanza a rubacchiare anche cifre modeste di pubblico denaro, senza che la presidenza ne avesse il minimo sentore (!?).
Specchio di un ruolo pubblico finalizzato esclusivamente al presidio delle proprie poltrone, tenendo sotto controllo una società sempre più anestetizzata. Anche grazie ai silenzi di un sistema dell’informazione locale che si può tranquillamente definire “embedded”: del resto qualche soldino (o magari “soldone”) dall’Ente Regione sgocciola sempre…
Tanto che ormai nessuno più si accorge delle sue inadempienze macroscopiche, ovviamente pure in materia di salvaguardia del territorio. Vorremmo dire “si accorgeva”, visto l’incapacità esibita da questi soloni persino nel coordinare la miriade di ragazzi e ragazze scesi spontaneamente nelle strade coperte di fango per dare una mano; e che non trovano neppure chi gli procuri una pala. Quei soloni che pretenderebbero di scaricare il barile delle responsabilità sul personale pubblico, abbandonato a se stesso come i giovani volontari e sottopagato, che molto spesso si era rivelato nel passato l’ultima trincea di resistenza all’irresponsabilità della politica. Non a caso sono la bellezza di quarant’anni che la Liguria attende l’atto dovuto del proprio Piano Territoriale Regionale (PTR), avente funzione strategico-regolativa ed efficacia giuridica.
Infatti la proposta di adozione di tale documento, ad oggi, non è stata ancora presentata al Consiglio Regionale. Qualcuno si chiede: perché? Presto detto: per un liberi tutti a favore della più vergognosa colonizzazione speculativa.
Non a caso – al tempo della premiata ditta dei “due Claudio”, Burlando e Scajola – le coste liguri hanno conosciuto - tra porticcioli e relativi annessi – il più alto livello di cementificazione in un Paese come l’Italia, ultra massacrato dai business di rapina. Opera nella quale – oltre ai maschietti - si sono distinte pure le loro girlfriend. Nel 2011 la consorte di Luigi Paladini (l’esponente di IDV, capo del sindacato questurini SAP, che da consigliere regionale si era opposto alla commissione d’inchiesta per i fatti del G8) Marylin Fusco, nella sua qualità di vice presidente dell’Ente con delega all’Urbanistica e poi arrestata nel corso dell’inchiesta “Spese pazze in Regione”, aveva presentato un progetto attuativo del Piano Casa che prevedeva la sanatoria dell’edificato su terreno esondabile.
L’attuale assessore alle infrastrutture Antonella Paita, molto – come dire – “all’orecchio” dell’attempato Governatore (per la cui successione si candida con feroce determinazione), non aveva ritenuto di dover dare riscontro all’ennesima missiva di questo agosto, da parte delle aziende vincitrici dell’appalto per eseguire le opere atte a mettere in sicurezza il Bisagno, che chiedeva ancora una volta il via libera che desse inizio ai lavori; nel quale documento – tra l’altro, con facile profezia – si denunciava il rischio dell’ennesima catastrofe alle prime piogge ottobrine. Ma alla coriacea Paita spezzina non sembra turbare i sonni neppure la realizzazione di un outlet su terreno sismico dalle sue parti, a Brugnato.
Tirando la fila di fatti tragici, di cui la stampa e le televisioni nazionali hanno dato più che esauriente riscontro: un’alluvione può risultare tragedia imprevista e – al limite – imprevedibile; quando questa vicenda si ripresenta a scadenze fisse, allora si trasforma in una questione politica. Nel caso in esame, diventa la campana a martello per il modo pluridecennale con cui si è governato un territorio.
Dunque da qui deve partire l’analisi delle cause e la ricerca delle terapie. Dalla condizione di una società in cui la sfera pubblica è stata desertificata, tanto che non c’è altro che il vuoto tra il Palazzo del Potere e il Mercato degli Interessi. Nella comune convinzione di entrambi i soggetti che la democrazia civica vada narcotizzata, affinché nessuno disturbi i manovratori.
Questi manovratori che hanno lasciato marcire – materialmente, non meno che metaforicamente – l’ambiente in cui esercitavano e continuano (indisturbati?) a esercitare le loro non certo nobili arti. Per cui ora si piange l’ennesima morte di un passante. Un altro lutto insensato che si sarebbe potuto e dovuto evitare.
(13 ottobre 2014)
Nessun commento:
Posta un commento