martedì 4 giugno 2013

Riva, capitalismo all'italiana

Avvelenava i tarantini. Pagava i giornalisti e sindacalisti perché stessero buoni. Finanziava Berlusconi e Bersani. Puniva gli operai con i reparti-confino. Accumulava miliardi nei paradisi fiscali. E ora si fa passare per vittima. 

l'espresso di Vittorio Malagutti
Emilio Riva 
Certo non è mai stato un sentimentale, Emilio Riva. Qualche anno fa, ai bei tempi in cui finiva sui giornali come un imprenditore abile e vincente, il padrone dell'Ilva confessava di «affezionarsi poco alle persone, niente alle cose». A differenza di tanti suoi colleghi industriali, Riva ha sempre amato esibire la sua durezza. Niente guanti di velluto, per lui. Il "rottamatt" milanese che ha fatto i miliardi conosce solo il pugno di ferro. Parole poche, ma forti. E allora, adesso, riesce difficile credere all'immagine che l'avvocato-amico Marco De Luca cerca di proiettare all'esterno, parlando con la stampa. L'immagine di un vecchio stanco e malato, che dall'isolamento forzato degli arresti domiciliari, non riesce a capacitarsi dell'accanimento di chi ingiustamente (dice lui) lo perseguita.

Non si dà pace, Riva, perché nessuno riconosce i suoi meriti sociali, l'aver dato lavoro a decine di migliaia di persone. «Ho sempre investito tutto nell'azienda», fa sapere a sua difesa tramite l'avvocato De Luca. Lo dice adesso che il gruppo di famiglia, un colosso mondiale dell'acciaio, sembra arrivato al capolinea. Ci sono i sequestri miliardari disposti dalla magistratura. Il disastro ambientale di Taranto con i fumi dell'Ilva che hanno avvelenato l'aria della città pugliese.

E infine le accuse pesantissime, dall'avvelenamento colposo fino alla truffa aggravata e all'infedeltà patrimoniale, che hanno travolto tutto il gruppo dirigente dell'Ilva, compresi Nicola e Fabio Riva, due dei sei figli del patron. I numeri allineati nell'atto d'accusa della procura di Milano illuminano però una storia diversa da quella che ora, e soltanto ora, viene proposta dalla difesa dell'indagato eccellente. I documenti raccontano di una famiglia che ha accumulato un gigantesco patrimonio all'estero prelevando miliardi dalle casse delle aziende italiane.

Un tribunale, prima o poi, dirà se davvero quel tesoro è stato creato frodando il fisco. Un giudice stabilirà se alcuni fiscalisti dello studio Biscozzi-Nobili, uno dei più importanti e blasonati d'Italia, si sono resi complici di una truffa colossale. Certo è che quei complicati giochi di sponda tra holding nei paradisi offshore erano decifrabili perfino tra le righe degli stringatissimi bilanci delle società dei Riva. "L'Espresso" ne aveva scritto già a ottobre dell'anno scorso. La resa dei conti, anche col fisco, arriva solo adesso, ultima tragica mano di una partita a poker che si ripete sempre uguale da decenni. Riva contro lo Stato, un giocatore, quest'ultimo, quanto mai debole e incerto.

Si comincia nel 1994, quando l'Iri all'epoca gestita da Romano Prodi vende all'imprenditore milanese l'ex Italsider di Taranto confezionata in una nuova società creata ad hoc, l'Ilva laminati piani. Con il senno di poi, ma forse anche di allora, il prezzo dell'affare sembra ridicolmente basso. Il compratore si aggiudica l'acciaieria pugliese per 1.649 miliardi di lire, pari a circa 850 milioni di euro. Solo che, non appena privatizzata, l'Ilva, sgravata da 7 mila miliardi di lire di debiti rimasti in carico allo Stato, comincia a macinare profitti per decine (se non centinaia) di milioni di euro all'anno.

Il copione di Taranto è andato in scena anche a Cornigliano, l'altoforno genovese a gestione pubblica passato ai Riva nel 1988. Le proteste contro i fumi inquinanti dell'impianto hanno finalmente partita vinta nel 2005. L'acciaieria chiude i battenti, ma lo stop viene pagato a peso d'oro. L'imprenditore milanese riceve come buonuscita la concessione gratuita fino al 2065 dell'area demaniale di Cornigliano, banchine del porto comprese: oltre un milione di metri quadrati in tutto.

Non è una questione solo italiana. Anche in trasferta all'estero Riva ha saputo giocare al meglio le sue carte. Nella Germania est dei primi anni dopo la caduta del muro il futuro padrone dell'Ilva fa incetta di impianti a prezzi di saldo. Nel 1994 conquista l'Eko Stahl, la più importante acciaieria dell'ex Ddr, a un prezzo di soli 60 miliardi di lire (poco più di 30 milioni di euro) con la ristrutturazione dell'impianto pagata quasi per intero dal Land del Brandeburgo. Tutte scommesse vinte, da Taranto alla Germania. E nel frattempo il patrimonio personale di uno degli imprenditori più ricchi d'Italia cresceva a dismisura, sempre prudenzialmente parcheggiato in Paesi dal fisco leggero.

In quegli anni, mentre Riva cresce a passo di carica, pochi fanno caso a quel tesoro oltre frontiera. Sui giornali passa il ritratto di un uomo tutto casa e azienda. Burbero, ma in fondo neppure troppo antipatico. Passa sotto silenzio la favolosa villa di famiglia a Cap Ferrat, in Costa Azzurra, che non pare esattamente in linea con l'immagine ufficiale del capitano d'industria lontano anni luce da ogni mondanità. Nelle rare interviste concesse alla stampa Riva non ha mai smesso di recitare la parte dell'imprenditore che bada al sodo, allergico alle mediazioni, ostile alle pubbliche relazioni.

«Non ho mai accettato raccomandazioni e relazioni particolari con nessuno: sindacati, chiesa, partiti politici. Faccio soltanto l'imprenditore», tagliava corto il patron dell'Ilva rispondendo alle domande di Paolo Bricco del "Sole 24 Ore" nell'aprile di quattro anni fa. Per la verità, grazie alle indagini della procura di Taranto, nei mesi scorsi è affiorata in superficie una realtà un po' diversa da quella accreditata nelle dichiarazioni. Si scoprono tracce di pagamenti e favori a sindacalisti, preti e giornalisti.

Bastone e carota. Se qualcuno in fabbrica si ostinava a protestare, Riva sapeva bene come scoraggiare le voci critiche. Nel 1998 si scoprì l'esistenza, all'interno dell'immensa acciaieria di Taranto, di una palazzina dove venivano confinati i lavoratori sgraditi, privati di qualunque mansione e incarico. All'occorrenza, il sedicente imprenditore tutto d'un pezzo sapeva essere di manica larga anche con i partiti. Tra il 2006 (anno di elezioni politiche) e il 2007, Riva versa 245 mila euro a Forza Italia e 98 mila euro a Pier Luigi Bersani, destinato a diventare ministro dello Sviluppo economico nel governo Prodi.

Contributi bipartisan, regolarmente denunciati, sborsati da un imprenditore che nel 2008, quando si profila la recessione e anche le indagini sull'avvelenamento dell'aria di Taranto, si decide per la prima volta a investire denaro fuori dai confini dell'attività siderurgica. Paga 120 milioni di euro per partecipare al salvataggio dell'Alitalia, operazione voluta da Berlusconi e gestita da Intesa Sanpaolo, all'epoca guidata da Corrado Passera, che di lì a poco, questa volta come ministro, sarà chiamato a gestire i primi mesi dell'emergenza Ilva.

Quest'ultima avventura non ha davvero portato fortuna al padrone di Taranto. La vecchia compagnia di bandiera adesso rischia di nuovo il fallimento tra perdite e debiti per centinaia di milioni. E per di più, nel marzo scorso, la holding di famiglia dei Riva ha sottoscritto per 16 milioni di euro un prestito obbligazionario di Alitalia. Secondo la ricostruzione della Guardia di Finanza, quei soldi arrivavano da uno dei trust offshore di Jersey. Un altro affare che è finito nel gran calderone delle accuse di evasione fiscale. L'ultima mano di poker dei Riva.

Nessun commento:

Posta un commento