venerdì 28 giugno 2013

Piano del lavoro? Non scherziamo

Con il suo "piano per il lavoro" il governo si conferma in grado più di disfare che di fare: dall’Imu, alla Tobin tax, all’Iva, agli F35, è tutto un rinvio in attesa di tempi migliori. Il "pezzo forte" del decreto è il ripristino sotto smentite spoglie della fiscalizzazione degli oneri sociali degli anni ’80 e ’90: ma l’esperienza passata è eloquente circa l’inefficacia di incentivi temporanei alle assunzioni.



di Tito Boeri, Repubblica.it
La buona notizia è che da ieri gli annunci di roboanti “piani del lavoro” prossimi venturi dovrebbero essere finiti. I reiterati annunci di sgravi fiscali e contributivi sulle nuove assunzioni delle ultime settimane avevano spinto i datori di lavoro a rinviare le assunzioni in attesa di questi provvedimenti. Così facendo hanno preparato il terreno per sprechi di denaro pubblico, dato che queste assunzioni premiate dalla nuova normativa ci sarebbero state comunque, anche senza gli incentivi dello Stato.
La cattiva notizia è che gli unici provvedimenti davvero efficaci che sono stati varati ieri sono quelli che rimuovono una serie di oneri burocratici introdotti, per scoraggiare l’abuso della “flessibilità cattiva”, dalla legge 92. Quella che passerà ai posteri come la riforma Fornero del mercato del lavoro viene così modificata a meno di un anno dalla sua entrata in vigore. In questa scelta, il governo si conferma in grado più di disfare che di fare. Sembra trovare consenso al suo interno soprattutto nel rimettere mano a misure varate da esecutivi precedenti, come nel caso delle norme sulla pignorabilità della prima casa o di quelle sulle funzioni di Equitalia. Al di là del merito del disfare, non è certo tornando indietro che si danno quei segnali di svolta che gli investitori, i mercati e le famiglie si attendono oggi dalla politica economica in Italia.

Il piano per il lavoro ripristina sotto smentite spoglie la fiscalizzazione degli oneri sociali degli anni ’80 e ’90. La riduzione del 33 per cento del costo del lavoro corrisponde infatti alla somma dei contributi versati da datori di lavoro e dipendenti alle casse dell’Inps. Gli sgravi riguardano le sole assunzioni di persone con meno di 30 anni fino all’esaurimento delle risorse disponibili e possono avere una durata massima di 18 mesi. L’esperienza passata è eloquente circa l’inefficacia di incentivi temporanei alle assunzioni. Il bonus assunzioni del 2001, meno generoso di quello contemplato ieri dal governo, era costato molto più del previsto imponendo al governo di introdurre lotterie (i cosiddetti rubinetti) nella concessione del sussidio per evitare una voragine nei conti dello Stato. E quando c’è incertezza circa chi potrà davvero beneficiare degli sgravi, finiscono per fruirne solo i datori di lavoro che avrebbero assunto comunque. Difficile che un datore di lavoro decida di creare posti di lavoro a tempo indeterminato davvero aggiuntivi in virtù di un contributo pubblico che poi potrebbe non essere erogato.

I due miliardi spesi nel 2002 per i bonus assunzioni, alla prova dei fatti, non hanno creato posti di lavoro aggiuntivi, nonostante anche allora la legge mettesse una serie di paletti per evitare che i datori di lavoro utilizzassero i fondi per finanziare posti già creati. Non dissimile l’esperienza degli incentivi fiscali alla trasformazione di contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato (e alla stabilizzazione di contratti precari) introdotti pochi mesi fa, nell’ottobre 2012. I fondi disponibili sono stati esauriti in meno di un mese e stime preliminari (si veda il contributo di Bruno Anastasia su lavoce. info) ci dicono che 2/3 degli incentivi sono andati a imprese che avrebbero comunque assunto quei lavoratori. A Torino addirittura la totalità degli sgravi sarebbe andata a imprese che non hanno modificato le loro politiche del personale dopo il varo della legge.

Anche nel caso dei provvedimenti varati ieri, gli stanziamenti sono limitati. Si parla di circa 150 milioni all’anno per i prossimi 4 anni. Ai salari medi di giovani con meno di 30 anni, questo vuol dire circa 23.000 lavori che ogni anno fruiranno dell’incentivo. Per dare un’idea della portata dell’intervento, bene ricordare che oggi in Italia tra disoccupati, lavoratori scoraggiati, cassintegrati a zero ore e sottoccupati, ci sono più di 7 milioni di persone in condizioni di disagio occupazionale. Come si diceva prima, molto difficile che siano posti aggiuntivi. E i lavoratori assunti, soprattutto nelle piccole imprese, potrebbero venire licenziati non appena lo sgravio si interrompe, come evidenziato dall’esperienza della Spagna con provvedimenti di conversione di contractos temporales in contratti a tempo indeterminato. Come spiegano documenti ufficiali di governo e parti sociali iberiche, queste misure creano dei veri e propri caroselli in cui le imprese assumono lavoratori fino a quando durano gli aiuti, per poi licenziarli subito dopo e magari assumere altri lavoratori per fruire nuovamente degli incentivi.

L’esaurimento dei fondi disponibili potrebbe intervenire molto presto. Ogni mese in Italia ci sono circa 120.000 assunzioni di persone con meno di 30 anni. Questo significa che, anche senza contare il probabile incremento delle assunzioni subito dopo l’entrata in vigore del provvedimento, i fondi potrebbero venire esauriti in meno di una settimana. Forse per questo il governo ha pensato di introdurre requisiti aggiuntivi: i beneficiari devono essere disoccupati da almeno sei mesi oppure avere solo la licenza media oppure ancora devono venire da famiglie monoreddito. Al di là della natura più o meno discutibile di alcune di queste restrizioni, ci vorranno controlli accurati (dunque burocrazia) per verificare il rispetto di questi requisiti.

Il governo poteva essere più coraggioso nel varare riforme a costo zero per le casse dello Stato, ad esempio introducendo quel canale di ingresso alternativo al precariato che la legge 92 non ha saputo definire. Poteva anche stabilire per legge che i lavoratori esodati possono cominciare a ricevere almeno la pensione integrativa, una misura a costo zero per le casse dello Stato e importante per il futuro della previdenza complementare.

Si potevano anche definire delle priorità nella destinazione delle poche risorse disponibili e in quelle che, speriamo, arriveranno dalla spending review, se mai si inizierà a farla sul serio. Ad esempio, era possibile cominciare a introdurre sgravi fiscali o sussidi condizionati all’impiego per i salari più bassi, destinando a questi interventi tutte le risorse disponibili invece di disperderle in tanti rivoli di importo limitato (il decreto varato ieri ha misure che valgono meno dello stipendio annuale di un singolo calciatore!).

Ma questo è un governo debole, che sin qui, oltre agli annunci, ha proceduto soprattutto di rinvio in rinvio – dall’Imu, alla Tobin tax, all’Iva, agli F35– in attesa di tempi migliori. Non sappiamo giudicare se potranno, a bocce ferme, arrivare davvero tempi migliori negli equilibri politico- parlamentari. Ma è certo che la nostra economia non andrà meglio se non si riprende il cammino delle riforme economiche e se non si dimostra nei fatti, oltre che nelle parole, di accordare priorità al lavoro.

Postscriptum:
Come volevasi dimostrare, i diritti per partecipare all’aumento di capitale Rcs non valgono più nulla. Banca Intesa, come ricordavamo una settimana fa, li ha acquistati a caro prezzo dai membri del patto di sindacato che non hanno partecipato all’aumento. Perché questo regalo? Non si potevano utilizzare queste risorse per erogare credito a chi crea posti di lavoro e valore anche per gli azionisti di Banca Intesa?

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