“Non è solo una questione di alberi” recitano molti
slogan del Gezi Park. Quella di Taksim, infatti, non è soltanto una
protesta per tutelare una delle poche oasi verdi rimaste nella zona:
quella di Taksim e di tutte le piazze turche è altra questione.
contropiano.org
Era da tempo che la società turca covava un forte malessere
verso le politiche del Primo Ministro Erdogan. Per questo non stupisce
che la contestazione di Istanbul abbia contagiato le più grandi città
del paese raccogliendo diverse posizioni religiose, di classe e
ideologiche. I divieti proibizionisti degli ultimi tempi sono solo dei
frammenti di una più generale repressione, intrapresa dal partito di
governo, di attività culturali e politiche da ‘moralizzare’. L'attacco
ai costumi, infatti, sembrerebbe rientrare in quel disegno politico che
combina libero mercato e dispotismo. Il tutto condito con una buona dose
di repressione.
Abusi e sopraffazioni, infatti, non sono mai
venuti meno. Negli ultimi anni, in Turchia, é cambiata solamente la
modalità della repressione, ma non certamente la sua intensità. La
repressione non era più quella delle vetrine spaccate e dei negozi in
fiamme. No, la repressione non era plateale, non si vedeva, però c'era. E
si sentiva. Non era più quella repressione che arrestava o manganellava
per strada. Negli ultimi tempi, la Turchia dell'AKP, mentre mostrava il
suo volto liberale al mondo intero, arrestava a domicilio e
manganellava in questura. Era diventata una repressione subdola,
silenziosa, lontana dai riflettori e spesso difficile da denunciare. Ne
sono prova le ripetute campagne contro militanti politici, avvocati e
giornalisti (si veda la retata di gennaio http://www.contropiano.org/esteri/item/13992). O, ancora, l'attacco brutale contro la storica band della sinistra militante, Grup Yorum (https://www.contropiano.org/esteri/item/11375),
episodio in cui gli agenti dell'antiterrorismo arrestarono e
torturarono la cantante e la violinista rompendo loro rispettivamente
timpano e braccio. Nulla di più crudele. Rompere il timpano ad una
cantante e il braccio ad una violinista sono segnali di una repressione
che, oscurata dai media, cerca di colpire artisti militanti privandoli
dei loro strumenti di lotta politica.
Non solo, anche numerosi
accademici e intellettuali sono finiti nel mirino degli arresti, insieme
a tanti altri giornalisti che vanno incontro allo stesso destino perché
accusati di diffamazione dello Stato e delle sue istituzioni. Il
problema della censura rimane una costante. Sebbene nel 2008 il governo
dell'AKP abbia introdotto alcune modifiche al codice penale e, in
particolare al famigerato articolo 301, le formule legislative rimangono
strumenti nelle mani delle istituzioni per colpire chi liberamente
esercita attività accademica, giornalistica e militanza politica.
A ciò si aggiunge il fatto che i gruppi imprenditoriali privilegiati
operano grazie ad un sistema di trattative tra il mondo dell'economia e
della politica, un meccanismo di accordi che ha condotto al proliferare
di associazioni e di sindacati imprenditoriali filo-governativi. Ne
deriva uno sviluppo economico sregolato che, dal volto sempre più
elitario, tende a marginalizzare buona parte della società turca.
A
questa impronta autoritaria e conservatrice si aggiunge anche il segno
del libero mercato. A partire dal suo insediamento, infatti, il governo
di Erdoğan ha lanciato la parola d'ordine del successo economico
riuscendo a portare il paese a livelli di crescita elevatissimi. Eppure,
a guardar bene, la tanto decantata crescita del paese cela non pochi
riscontri negativi. Le politiche economiche di liberalizzazione e di
privatizzazione, infatti, hanno comportato dure manovre contro i diritti
sindacali e la contrattazione collettiva. Ciò ha contribuito a
costruire un mercato del lavoro che, senza nessun controllo e nessuna
regola, scavalca le tutele del lavoratore e pone le premesse al suo
sfruttamento infinito. Così, la tanto glorificata crescita economica
turca ha costruito un modello di accumulazione sfrenata per una
ristretta elite. Per questo, la costruzione del centro commerciale di
Gezi Park, uno dei tanti progetti della speculazione immobiliare
dell'AKP, è il simbolo del boom economico turco che costruisce edifici
per banche o grandi aziende, grattacieli che svettano a poca distanza
dai sempre più vasti bassifondi urbani di una metropoli in rapida
espansione.
Per questo Taksim è altra questione. La richiesta di
non toccare i 600 alberi rappresenta la volontà di incidere sulle scelte
politiche del paese. È il desiderio di poter scegliere del proprio
parco, della propria città così come del paese intero. È la condanna
contro la cementificazione selvaggia del territorio, contro la
speculazione dei poteri forti a danno della maggioranza, contro il
capitalismo barbaro e lo sfruttamento. Allora, Taksim non è soltanto una
questione di alberi, è una questione di democrazia.
Rete per l'Autorganizzazione Popolare - http://campagnano-rap.blogspot.it
Pagine
- Home
- L'associazione - lo Statuto
- Chicche di R@P
- Campagnano info, news e proposte
- Video Consigliati
- Autoproduzione
- TRASHWARE
- Discariche & Rifiuti
- Acqua & Arsenico
- Canapa Sativa
- Raspberry pi
- Beni comuni
- post originali
- @lternative
- e-book streaming
- Economia-Finanza
- R@P-SCEC
- il 68 e il 77
- Acqua
- Decrescita Felice
- ICT
- ECDL
- Download
- हृदय योग सारस
giovedì 6 giugno 2013
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento