Noah Smith ha recentemente espresso un interessante punto di vista sui reali motivi per cui le élites sostengono così tanto l’austerità, anche se in pratica non funziona. Le élites, egli sostiene, vedono le difficoltà economiche come un’opportunità per costringere a delle “riforme” – cioè in sostanza i cambiamenti da loro desiderati, che possano servire o meno a promuovere la crescita economica – e si oppongono a tutte le politiche che potrebbero attenuare la crisi senza rendere necessari questi cambiamenti: «Penso che gli “austerians” siano preoccupati che delle macro-politiche anti-recessione consentirebbero a un paese di “cavarsela” nella crisi senza migliorare le sue istituzioni. In altre parole, temono che uno stimolo di successo potrebbe sprecare le possibilità offerte da una buona crisi».
«Se la gente pensa realmente che il pericolo di uno stimolo non è che potrebbe fallire, ma che potrebbe avere successo, allora dovrebbe dirlo chiaramente. Solo così, credo, potremmo avere un dibattito pubblico ottimale sui costi e benefici». Steven Pearlstein del “Washington Post” ha fatto esattamente questa argomentazione a sostegno dell’austerità. Ciò che Smith non ha osservato, in modo alquanto sorprendente, è che la sua tesi è molto vicino alla Shock Doctrine di Naomi Klein, la quale sostiene che le élites sistematicamente sfruttano i disastri per far passare politiche neoliberiste, anche se tali politiche sono sostanzialmente irrilevanti sulle cause dei disastri. Devo ammettere che al tempo della sua pubblicazione non ero tanto ben disposto verso il libro della Klein, probabilmente perché fuori dal campo della professionalità e cose simili – ma la sua tesi aiuta davvero a spiegare molto di quello che sta succedendo, in particolare in Europa.
E la storia va ancora più indietro. Due anni e mezzo fa Mike Konczal ci ha ricordato un classico saggio del 1943 (!) di Michal Kalecki, il quale suggeriva che gli interessi del business odiano la teoria economia keynesiana perché temono che potrebbe funzionare – e questo comporterebbe che i politici non dovrebbero più umiliarsi davanti agli uomini d’affari in nome del fatto di preservare la fiducia. E’ un argomento abbastanza vicino alla tesi che l’austerità è necessaria perché lo stimolo potrebbe togliere l’incentivo alle “riforme strutturali” che, avete indovinato, offrono alle aziende la fiducia di cui hanno bisogno prima di degnarsi di produrre la ripresa. E come previsto, nella mia casella di posta questa mattina vedo un pezzo che più o meno deplora i primi segni di successo dell’Abenomics: Abenomics sta funzionando – ma sarebbe meglio se non funzionasse. Perché se funziona, come facciamo a chiedere le “riforme strutturali”? Quindi un modo di vedere la via dell’austerità è l’implementazione di una sorta di giuramento di Ippocrate al contrario: “In primo luogo, non far nulla per limitare il danno”. Perché la gente deve soffrire se le riforme neoliberiste devono prosperare.
(Paul Krugman, “La teoria dell’austerità di Smith / Klein / Kalecki”, dal blog di Krugman sul “New York Times” del 16 maggio 2013, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Col termine di “Abenomics” si intende la politica keynesiana del premier giapponese Shinzō Abe, basata sull’espansione della massa monetaria sorretta dalla moneta sovrana attraverso la banca centrale: più investimenti pubblici e meno tasse, esattamente il contrario della politica di rigore dell’Eurozona).
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