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Nel contesto della competizione capitalista senza regole, come nelle peggiori argomentazioni di strada, i trucchi più infami rappresentano la norma. In un certo senso sì, le oligarchie hanno acconsentito, ma purtroppo per noi lo hanno fatto in perfetta sintonia con la logica capitalista denunciata da Marx, Lenin e altri critici, di intervenire militarmente in Afghanistan, Iraq, Palestina, oltre che in Sudan, Siria, Libia, Yemen e tanti altri luoghi favorevoli all’Ucraina con il massimo sostegno militare ed economico, nascosti dietro la facciata di “missioni umanitarie”; ipocrisia e mancanza di scrupoli allo stato puro…
Un po’ come il Premio Nobel per la Pace assegnato nel 2009 (a Barack Obama). Gli stessi governi e leader politici che affermano di voler sconfiggere il terrorismo ei terroristi cercano di imporre una pseudo democrazia di comodo nei paesi vicini e lontani, attraverso la pratica del bombardamento delle popolazioni.
Visti i contratti milionari per la ricostruzione di Afghanistan, Iraq, Libia, Stati Uniti e Siria e la spudorata spartizione di questi paesi, come negare l’evidente saccheggio ed espropriazione delle loro risorse naturali? E la guerra contro la Russia da parte della NATO e la minaccia militare all’Iran? E le basi statunitensi nella giungla colombiana e in vari paesi come minaccia contro i governi rivoluzionari e progressisti dell’America Latina?
Perché più del 90% della terra in America Latina appartiene a meno del 20% di famiglie di origine europea? Perché la rendita non è tassata in diversi paesi alleati dell’America Latina e spesso server degli Stati Uniti?
In Asia e Africa, varie malsane dittature militari in Asia e Africa opprimono la popolazione, tra proteste interne e internazionali; ma sono grandi difensori, corrotti, delle politiche liberali.
Alla luce di tutto ciò, come non riconoscere il carattere imperialista della competizione tra i paesi capitalisti e, quindi, la dimensione e la dinamica dell’attuale conflitto interimperialista? (Per un utile approfondimento si veda AMIN S. (2010), L’imperialismo contemporaneo, Edizioni Punto Rojo, Milano.)
Dopo i continui sospetti di nuove bolle finanziarie, la competizione tra capitali si è intensificata, estendendosi a tutte le attività produttive. Nonostante ciò, o forse proprio a causa della concorrenza imperialista, le singole oligarchie nazionali non si sono accordate sulla futura divisione internazionale del lavoro, cioè non hanno deciso dove, cosa, come e per chi ogni paese o agglomerato produrrà multistato.
In questa competizione tra capitali, il capitale finanziario (dato dall’unione di capitale industriale e bancario), che rappresenta la componente più forte del capitale transnazionale contemporaneo, segue una strategia contraddittoria rispetto agli Stati: in nome della “libertà economica” vuole per toglierli di mezzo ma, dall’altro, ne ha bisogno come interfaccia con società civili sempre più degradate e globalizzate, e per estrarre denaro e “pace sociale” dai lavoratori, occupati e non.
Nell’Unione Europea, ad esempio, il neoliberismo più flagrante è insito nella stessa legge fondamentale, il Trattato di Lisbona, che vieta l’adozione di misure contrarie alla circolazione dei capitali. Invece, nei discorsi ufficiali, l’”Europa sociale” riempie la bocca di persone che si muovono solo nell’interesse della compatibilità delle leggi del capitale.
La questione multipolare è il vero cuore della riflessione sulla fase di transizione mondiale e richiede, in generale, il rifiuto di ogni prospettiva eurocentrica o, comunque, fondata sulla centralità delle società occidentali, sempre presente nell’elaborazione di Marx: se è vero che la critica e l’analisi del modo di produzione capitalista si è concentrata essenzialmente sullo studio della società occidentale, inglese in particolare, anche perché costava uno specifico «vertice piramidale di un impero mondiale» (JAFFE H. (1977) , Marx e il colonialismo, Jaca Book, Milano, p. 136.)—, il fondatore del socialismo scientifico non ha mancato di evidenziare lo stretto legame tra le dinamiche rivoluzionarie delle società occidentali e quelle dei paesi dominati.
“La
prossima rivolta dei popoli d’Europa, il loro prossimo movimento per la
libertà repubblicana e l’economia di governo, può dipendere – ha scritto Marx – più
probabilmente da ciò che accade nel Celeste Impero – al polo opposto
dell’Europa – che da qualsiasi altra causa politica esistente” (Marx K. (1853), La dominazione britannica in India, New York Daily Tribune, 25 giugno 1853, in Marx K. e Engels F. (2008), India Cina Russia, di Maffi B. , Il Saggiatore, Milano, pagina 43.).
La
previsione di Marx appare straordinariamente lungimirante: in
particolare, ha collegato causa ed effetto alle conseguenze delle
politiche coloniali occidentali (attraverso lo sfruttamento e il
commercio dell’oppio, la corruzione delle classi dirigenti nazionali,
l’esportazione dell’argento in India, la concorrenza di industrie e
merci estere nel mercato interno, ecc.), la conseguente rottura
dell’isolamento cinese nel mercato internazionale, l’espansione del
mercato internazionale, la crisi economica (causata dalla contraddizione
tra l’espansione dei mercati e l’incapacità delle manifatture
britanniche adattarsi) (Ibidem), e il potenziale rivoluzionario:
“Si può tranquillamente prevedere che la rivoluzione in Cina getterà una scintilla nella polveriera sovraccarica dell’attuale sistema economico e farà esplodere la crisi generale” (Ibidem).
Ciò che Marx non poteva certo prevedere era una dinamica rivoluzionaria che mettesse in discussione il primato e il predominio dell’Occidente, ma con un processo di transizione lungo, tortuoso e aperto.
L’intuizione fondamentale che, tuttavia, emerge prepotentemente dalla sua analisi è la carica rivoluzionaria contenuta nelle società del suo tempo collocate in una condizione di sfruttamento coloniale e la prospettiva universale del mercato internazionale e le contraddizioni capitaliste che alberga.
La Russia, a differenza dell’India, ha conosciuto la propria essenziale rivoluzione concreta negli eventi storici della Rivoluzione Socialista d’Ottobre. Nella seconda metà del XIX secolo, Engels metteva in guardia contro le facili illusioni sullo sviluppo automatico di una rivoluzione socialista dalle miserie della società feudale.
Ribadendo i presupposti del necessario e massimo sviluppo delle forze produttive, storicamente rappresentate dal sistema produttivo capitalistico e dal dominio della borghesia, Engels ha indicato l’assenza di condizioni oggettive rivoluzionarie nel suo tempo per un improvviso passaggio al socialismo nell’”ultimo grande contrafforte” della reazione nell’Est Europa» (Engels F. (1875), Le condizioni sociali in Russia, Volksstaat, 16, 18 e 21 aprile 1875, in Marx K., Engels F. (2008), India Cina Russia, di Maffi B., Il Saggiatore, Milano, p. 224).
Il contesto in cui si è trovata la Russia zarista, scritta da Engels, è quello di uno stato che si era dedicato alla produzione agricola, con insufficiente terra per i contadini, carenza di manodopera per la proprietà terriera, usura straripante, interessi sui debiti pubblici “livellati” con altri debiti pubblici, e un governo dispotico stretto tra concessioni liberali e ritiro immediato.
Agli occhi del fraterno collaboratore di Marx, tutti questi elementi erano la polveriera di una rivoluzione, ma “avviata dalle classi alte del capitale”, elementi per un “1789 russo”, come scrisse lo stesso Marx.
L’incapacità di una piena conversione in una rivoluzione borghese, della borghesia esige di rispondere alle richieste delle masse proletarie russe, in particolare di fronte alle miserie e alle conseguenze del primo conflitto mondiale, alle atroci disuguaglianze sociali e produttive in La Russia nel 1917 crearono le basi e le condizioni materiali per la gestazione di una rivoluzione completa, una rivoluzione socialista basata sull’alleanza tra operai e contadini.
La rivoluzione fu il primo esperimento di costruzione della transizione socialista, che fin da subito dovette contare sullo sviluppo delle forze produttive, come questione vitale sia per la sopravvivenza interna del sistema socialista, sia per la sua sopravvivenza alla luce del contesto internazionale : quello dell’accerchiamento su più fronti dell’URSS e, infine, quello della seconda guerra mondiale.
Il
rapporto di reciprocità che esiste tra il modello produttivo dominante e
la società pende ancora più chiaramente considerando il rapporto tra
scienza e militarismo. Il primo elemento di chiarezza al riguardo è il
contributo quantitativo che la scienza riserva all’apparato produttivo
militare e tecnologico mondiale: secondo i dati forniti in un
dispensatore della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi
nucleari, riportato da Angelo Baracca,
“Fino a 49 università degli Stati Uniti sono complici del Nuclear Weapons Complex, in vario modo, diretto o indiretto: dalla gestione diretta, alle collaborazioni istituzionali, all’associazione con programmi di ricerca o con personale in programmi di sviluppo” (Baracca A. (2019), Scienza e Guerra).
Un’attenzione assolutamente ricambiata in virtù di quanto reso pubblico dagli Scientists for Global Responsibility in un altro dossier che documentava “Come le società di combustibili fossili e armi finanziano le organizzazioni professionali di scienziati e ingegneri” (Ibidem).
In questa rappresentazione contano non solo i numeri del rapporto, ma anche la qualità del rapporto,
«Lo scienziato è in tutti i sensi un uomo (o una donna) del suo
tempo, condivide ambienti culturali e obiettivi sociali. Nella maggior
parte dei casi fa parte della classe dirigente, e i fenomeni di cui si
occupa sono solitamente quelli rilevanti per lo sviluppo sociale
(capitalista)” (Baracca A. (2019), Scienza e Guerra. Prosegue la discussione).
Le stesse forme, la stessa raffinatezza delle armi e dei sistemi di distruzione di massa, dalle armi di disturbo a quelle batteriologiche, le conseguenze disastrose del loro utilizzo, non più decisamente condizionate dalla sola volontà, ma anche dall’irrazionalità del capitalismo stesso (ibid.).
I risultati dello studio mostrano un ulteriore passo nella subordinazione dello sviluppo scientifico alla logica del beneficio del settore militare, a cominciare dalla liberalizzazione della sperimentazione biogenetica e dall’impossibilità di “distinguere tra usi offensivi e difensivi della ricerca biotecnologica […] ](Ibidem), tra ricerca per la produzione di vaccini e applicazioni militari specifiche“.
Tornando a una citazione di Karl Marx: “Qualsiasi scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica coincidessero direttamente”, si può certamente ritenere che ora, visto il livello di compromesso tra sviluppo scientifico e tecnologico e sviluppo militare e di profitto, si pone chiaramente il problema della responsabilità degli “esecutori” consapevoli di tale degenerazione:
«Se, inoltre, una parte crescente di scienziati – afferma infatti Baracca – si è dedicata allo studio e alla produzione di armi ogni volta più letali, è una scelta fatta da questi scienziati, non vedo come si possa pensare che non abbiano la responsabilità» (Ibidem).
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