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È stata resa pubblica la morte di Corrado Alunni, 74 anni. Nato a Roma nel quartiere Centocelle, appena ventenne si trasferì a Milano dove iniziò a lavorare come impiegato alla Sit-siemens e conobbe Paola Besuschio, Pierluigi Zuffada e Mario Moretti. Aderì nel 1972 alle Brigate rosse, in precedenza aveva traversato l’esperienza del Collettivo politico metropolitano da cui si era distaccato insieme a Mario Moretti per ritornare al lavoro politico in fabbrica. Nel 1974 uscì dalle Br per avvicinarsi al gruppo di «Rosso», dove mise in piedi il lavoro illegale, nacquero così le Brigate comuniste. Successivamente diede vita alle Formazioni comuniste combattenti. Venne arrestato nel settembre del 1978 in via Negroli 30 a Milano. Fu subito coinvolto nella inchiesta Moro. La sua foto segnaletica era apparsa nella lista dei sospetti diramata nei giorni successivi al 16 marzo. Diversi testimoni lo indicarono come uno dei partecipanti all’azione di via Fania causa dei suoi baffi, nonostante avesse lasciato le Br quatto anni prima.
Tra questi l’ingegner Alessandro Marini, quello che raccontò la bugia dei colpi di mitra esplosi contro il parabrezza del suo motorino. Nel 1980 prese parte con altri 15 detenuti, tra cui il nappista Emanuele Attimonelli e l’esponente della mala milanese Renato Vallazasca a un clamoroso tentativo di evasione dal carcere di san Vittore a Milano. Ferito all’addome quando erano già in strada venne soccorso da Vallanzasca che tornato indietro per aiutarlo fu colpito a sua volta. Nel 1987, nel corso del processo Moro ter nell’aula bunker di Rebibbia annuciò la porpria dissociazione dalla lotta armata.Nel settembre 2014, durante la fase di preparazione del volume Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, lo contattai insieme a Marco Clementi per chiedergli una sua testimonianza sul periodo del Collettivo politico e metropolitano (Cpm) e dei Gruppi di studio (Gds) della Sit-Siemens fino al successivo ingresso nelle Brigate rosse.
Di seguito la risposta che ci inviò:
La mia formazione è stata assai più pragmatica che ideologica. La
frequentazione del Cpm avvenne a seguito della militanza nel Gds della
Sit-Siemens dove lavoravo come impiegato dopo essere emigrato dalla
periferiria romana. Il Gds ruotava intorno ad una Comune frequentata –
fra gli altri – dal gruppo dei trentini (Curcio, Cagol ecc.) i quali,
insieme ad altri diedero vita al Cpm. Il dibattito si concentrò da
subito sul tema dell’organizzazione della lotta armata, in
contrapposizione con il “volontarismo” che caratterizzava gli altri
gruppi della sinistra estrema su questo terreno. Il convegno di
Costaferrata aveva lo scopo di definire le ipotesi da perseguire in un
periodo segnato dalla strage di Milano, da insorgenze neofasciste e
dalla persistenza di un forte movimento di classe. Personalmente non vi
partecipai – se i ricordi non mi tradiscono – ma il Gds era
rappresentato da Mario Moretti ed altri e quindi venni al corrente delle
ipotesi che si intendevano perseguire. Data la formazione “operaista”,
l’opzione superclandestina di Simioni era fuori dal mio orizzonte
politico anche prendendo in considerazione eventuali derive autoritarie
del quadro istituzionale. Altri si interessarono al riguardo e per
qualche mese diedero vita a quello che chiamate un “comitato di
coordinamento”. In fabbrica di cose da fare ce n’erano fin troppe, se si
pensa che dovevamo ancora fare i conti con le commissioni
interne-cinghie di trasmissione, con la cultura autoritaria e
paternalistica, col cottimo, con gli infortuni dovuti ai ritmi ecc… e il
movimento – sia quello operaio che quello della sinistra estrema – era
ancora molto forte, per cui continuai la mia militanza in fabbrica senza
un particolare interesse al riguardo.
Una svolta si ebbe nel
dicembre del ’71: i gruppi avevano organizzato una manifestazione per il
12 dicembre per rivendicare la liberazione di Valpreda e denunciare la
strage di piazza Fontana come strage di Stato (da notare che era stata
fortissima l’attività di ‘controinformazione’ nei due anni successivi
alla strage). L’8 dicembre la questura vietò il corteo mettendo tutti di
fronte a delle scelte. Alcuni – il gruppo del Manifesto e Lotta
continua – giunsero ad un compromesso e tennero un comizio (consentito
dalla questura), altri – in particolare Potere operaio – erano
intenzionati ad affrontare lo scontro di piazza; la notte dell’11
dicembre ci fu una retata che portò all’arresto di parecchi militanti di
Po che stavano preparando l’armamentario per gli scontri (molotov e
quant’altro). In sostanza il divieto della questura chiarì in modo netto
che, o si costruiva un’organizzazione in grado di affrontare il terreno
di scontro imposto, oppure diventava velleitario qualsiasi discorso
sulla violenza proletaria. Gli esiti del dibattito che scaturì da questa
impasse del dicembre ’71 sono noti: 1) nacquero i ‘servizi d’ordine’
(rivendicazione del diritto di essere in piazza e autodifesa da
provocazioni poliziesche o neofasciste); 2) nacque l’idea del braccio
armato, che avrebbe dovuto trasformare lo scontro di piazza in momemto
insurrezionale. 3) nacquero le Br – dopo l’abbandono dell’ipotesi
Superclan – come primi nuclei organizzati interni agli ambiti di lotta
nelle fabbriche e nei quartieri (era la fase della propaganda armata e
della giustizia proletaria).
Personalmente aderii alle Br non nella
primavera del ’71, ma in quella del ’72. A questo punto credo di dover
fare qualche commento:
a) sono convinto che i ricordi di quel periodo
abbiano avuto il tempo di adattarsi agli esiti – che ciascuno ha
stabilito siano stati – dell’esperienza fatta. Tutto ciò avviene/è
avvenuto il più delle volte in totale buona fede, altre volte – per
protagonismo, interesse o quant’altro – in malafede. E’ necessario,
inoltre, fare una differenza fra la ricostruzione di un momento storico e
i percorsi individuali dentro quel momento. Il primo comprende le
storie di ciascuno ma non vi si appiattisce; b) c’è un’ulteriore
distinguo da fare in relazione a quello che vi proponete («illustrare in
modo critico il fatto che allora si tentassero strade differenti per
uno stesso scopo di fondo, che era rappresentato dalla scelta di lotta
armata») perché, se la pratica e l’auspicio della violenza proletaria fu
un tratto comune a tutte le aggregazioni della sinistra rivoluzionaria
dell’epoca (tanto che questo mi sembra un assioma più che un teorema da
dimostrare), la “lotta armata” è una versione specifica del come, del
quando e del perché della violenza proletaria. A partire dalla fine
degli anni 60 tutte le ipotesi al riguardo erano sul tappeto: da quella
dei fochi guevaristi all’autodifesa dalle aggressioni poliziesche e
neofasciste, dall’insurrezione alla lotta armata di lunga durata e tutte
sono state tentate o praticate.
c) rispetto ai racconti dietrologici
di Franceschini e soci credo si tratti di ricordi/affermazioni
addomesticate. Il periodo in questione è quello che la stampa ufficiale
definiva “degli opposti estremismi” ed è logico (oltre che
documentabile) che la digos di allora e i servizi (il Sid) facessero
bene attenzione a ciò che avveniva all’interno dei gruppi, a maggior
ragione in quegli ambiti in cui il discorso sulla violenza proletaria si
evolveva in ipotesi di lotta armata.
In altre parole: un conto è la
volontà degli apparati dello stato di “giocare al deus ex machina”
attraverso: a) l’infiltrazione dei gruppi della sinistra
b) lo
sfruttamento della propensione alla violenza (verbale o meno) per creare
allarme sociale e giustificare una svolta repressiva, quando non un
colpo di stato come quello di Borghese e soci
c) l’utilizzo dei
gruppi neofascisti in chiave intimidatoria per provocare una reazione
che permettesse la militarizzazione della piazza
d) provocazioni di
vario genere fino a perseguire la strategia stragista addossandone la
responsabilità agli “opposti estremismi”.
Altro è sostenere che in
tutto o in parte la sinistra eversiva sia stata eterodiretta attraverso
personaggi equivoci presenti al suo interno. Sarebbe un falso storico ai
danni, non solo di due generazioni di militanti, ma della logica stessa
degli avvenimenti.
Va detto, inoltre, che i partiti della sinistra
ufficiale – Pci in testa – non erano esenti da preoccupazioni circa la
tenuta delle istituzioni, soprattutto la parte più vicina alla
tradizione della Resistenza – vedi il libro di Pietro Secchia “La
Resistenza accusa 1945-1973” – e ciò portava parecchi militanti del Pci a
simpatizzare – o almeno a mantenere aperta la discussione – con i
giovani della sinistra estrema.
Sinistra proletaria nel corso del ’71
– dopo l’uscita di Simioni – pubblicò alcuni numeri di “Nuova
Resistenza” anche nel tentativo di dare continuità alla lotta partigiana
nella realtà che si era venuta a creare in Italia e nel resto del
mondo.
Tutto ciò per dire che non è verosimile che il Pci non fosse
al corrente di cosa bolliva in pentola (d’altra parte in fabbrica,
durante il periodo della “semiclandestinità” delle BR il sindacato e i
quadri del Pci dovevano avere ben pochi dubbi su chi potesse essere
responsabile delle prime azioni.
Per ora mi fermo qui. Magari ne riparliamo se avete bisogno di chiarimenti.
Corrado Alunni
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