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Lo sferzante attacco – dai toni volutamente diretti e trash – del neo Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, contro il Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, è stato un cosiddetto fulmine a ciel sereno solo per chi, nei mesi scorsi, ha abboccato alla mistificante narrazione mainstream che ha presentato la vittoria dei democratici come la fine della tirannide Trumpiana e la riaffermazione – “finalmente” – dei sacri valori dell’universalismo democratico nel centro della metropoli imperialista.
Già nel corso della campagna elettorale delle presidenziali statunitensi e nel successivo epilogo culminato con l’assalto a Capitol Hill – che è stato un evento tutt’altro che grottesco o folkoristico – è venuta montando una retorica apologetica , da parte dei circoli democratici (fortemente influenti nelle grandi catene della comunicazione globale), i quali hanno iniziato a costruire, sia per l’opinione pubblica interna americana e sia per quella internazionale, il nuovo pericolo russo che insidierebbe le sorti della concordia e della democrazia mondiale.
Bastava leggere attentamente i discorsi elettorali di Biden (ma anche quelli di Kamala Harris) per cogliere come il mollaccione Joe – in sostanziale continuità con i contenuti programmatici che già qualche anno fa Hillary Clinton avanzava nel suo confronto/scontro con Donald Trump – stava preparando la ripresa di una offensiva culturale, diplomatica, economica e militare (quest’ultima soglia, al momento, ancora attraverso modalità trasversali ed indirette) contro la Russia e le aree geo/politiche che gravitano attorno a questo paese.
Del resto – a pochi giorni dall’insediamento di Biden alla Casa Bianca – la ripresa dei bombardamenti USA in Siria, il rinfocolamento dei conflitti confessionali ed etnici nel Medio Oriente con l’obiettivo di nuove provocazioni contro l’Iran, lo zampino nei recenti avvenimenti in Myanmar (Birmania), le pressioni sul governo di Kiev affinché riprenda la guerra contro le provincie del Donbass e il mai sopito ruolo sovvertitore contro il Venezuela e gli altri paesi che osano provare a percorrere relazioni multilaterali, sono le tappe più eclatanti di un nuovo interventismo imperialista – in salsa democratica – che la neo Amministrazione USA sta configurando ad ampia scala.
Siamo, dunque, all’ennesimo passaggio di fase delle strategie USA le quali – dentro le complesse dinamiche della competizione globale tra potenze internazionali, aree monetarie e blocchi militari – necessitano di guadagnare peso ed autorevolezza per tentare di arrestare l’accertato declino storico stelle-e-strisce che si manifesta da oltre un decennio.
Che lo scontro innestato dalla neo/presidenza Biden non sia un episodio isolato è confermato dall’amplificarsi di alcune contraddizioni materiali e politiche con gli stessi alleati storici europei, ai quali viene chiesto – senza tanti giri di parole – di prendere posizione, di non aumentare gli scambi commerciali e le partenership con la Russia, e di mostrare concretamente la vigenza fattiva della fedeltà atlantica.
La vera e propria guerra delle multinazionali farmaceutiche USA che producono il vaccino anti/Covid verso analoghi prodotti europei (ma anche russi e cinesi) e le muscolari dichiarazioni del Segretario di Stato, Antony Blinken – che minaccia di introdurre sanzioni contro i paesi europei che partecipano alla realizzazione del gasdotto North Stream-2 – sono le forme più evidenti di come gli Stati Uniti stiano premendo sull’Unione Europea per scongiurare qualsiasi allentamento dell’ostilità verso la Federazione Russa, ricreando – di fatto – quel clima da guerra fredda che le cancellerie europee tendevano a superare per accreditarsi verso Est e in direzione dei mercati orientali e asiatici.
Si sta rideterminando – fatte salve le differenze storiche mai replicabili allo stesso modo – una assonanza con quel clima politico di inizio anni Ottanta, quando l’Amministrazione Reagan impose l’istallazione, sul suolo europeo, dei missili Cruise e Pershing nel quadro dell’offensiva a tutto tondo contro l’URSS, che alla fine di quel decennio implose.
Ieri come oggi l’imperialismo USA sta imprimendo una accelerazione militarista verso il suo nemico storico (la Russia) senza però distrarsi dal suo vero competitore strategico: la Cina.
A tal proposito le cronache di queste ore dal vertice bilaterale USA/Cina, in corso in Alaska, dove gli elementi di divergenze sembrano prevalere sulle possibilità di una positiva conclusione, dimostrano che su questo versante la contrapposizione con Pechino è tutta in piedi e destinata ad aumentare attorno ai vari dossier aperti.
La vacuità dei Democratici e la subordinazione della Sinistra
Colpiscono a tale riguardo – considerando la gravità delle affermazioni di Biden, nonché le inusuali modalità usate – i silenzi delle cancellerie del Vecchio Continente e del mondo democratico europeo, compresi i “Sinistri” di casa nostra. I quali, a parte invertite, avrebbero urlato alla necessità della guerra umanitaria mentre ora o tacciono o si genuflettono, come ha fatto Mario Draghi con la sua Union Sacrée, nel discorso di investitura in Parlamento, alla rinnovata centralità euro/atlantica.
Ancora una volta il mondo democratico europeo e gli epigoni di una “sinistra” sempre più compatibilizzata confermano la loro adesione al partito della guerra e delle rinnovate tensioni internazionali.
Ancora una volta tutte le ipocrite chiacchiere sulla superiorità della civile Europa e sulla sacralità dei fondamenti dell’universalismo occidentale mostrano la loro vacuità e si irreggimentano dentro gli schieramenti per l’oggi (e per il domani) del militarismo e dell’interventismo.
Sarebbe ora di riaccendere l’attenzione, la denuncia e la mobilitazione su queste questioni, ritrovando e riqualificando le ragioni storiche ed immediate che i Movimenti No War hanno sempre espresso, in varie latitudini, ogni volta che i venti di guerra riprendono a soffiare.
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