Qui di seguito anticipo la mia
Introduzione al volume collettaneo "Dopo il neoliberalismo. Indagine
collettiva sul futuro", che sarà in libreria il prossimo 11 marzo per i
tipi di Meltemi.
Introduzione
di Carlo Formenti
socialismodelsecoloxxi.blogspot.com
Il
progetto di questo libro è nato nell’autunno del 2019 da uno scambio di
idee fra Pierluigi Fagan, Piero Pagliani e il sottoscritto. Fagan ci ha
segnalato La grande regressione, un volume collettaneo del 2017 a
cura di Heinrich Geiselberger (pubblicato in italiano da Feltrinelli)
che raccoglieva 14 interventi di vari autori (fra cui Arjun Appadurai,
Zygmunt Bauman, Nancy Fraser, Bruno Latour e Slavoj Zizek) invitati a
fare il punto sullo “stato del mondo” dopo le crisi che lo hanno
investito dall’inizio del nuovo millennio. Per quanto interessante,
questa rassegna ha un limite: tutti i contributi analizzano da diversi
punti di vista la crisi, ma senza prospettare possibili vie d’uscita,
quasi gli autori si limitassero a ripetere il detto di Gramsci che
recita “il vecchio muore ma il nuovo non può ancora nascere”. Perciò ci
siamo chiesti perché non compiere un passo ulteriore, immaginando
possibili scenari alternativi allo stato di cose presente, senza scadere
in sterili esercizi di futurologia. Dopodiché abbiamo iniziato a
cercare interlocutori disposti a condividere il rischio dell’impresa.
Tradurre quella suggestione nel prodotto editoriale che avete in
mano non è stato compito banale. La pandemia del Covid19 ha reso più
complicato trovare compagni di avventura e distribuirci gli argomenti da
affrontare, ma soprattutto ha rallentato lo scambio di idee e
informazioni nel corso della stesura dei contributi, obbligandoci a
interagire esclusivamente attraverso i canali virtuali. Devo dire che,
anche considerati questi intralci, il risultato è andato aldilà delle
mie previsioni, nel senso che, dai dieci scritti che vi apprestate a
leggere, mi pare emerga un quadro abbastanza coerente delle tendenze di
fondo che potrebbero caratterizzare i prossimi decenni. Ovviamente non
mi azzardo a sostenere che qui troverete un’anticipazione veritiera e
attendibile di ciò che ci aspetta. Prevedere il futuro è impresa al
limite dell’impossibile e, visto che è difficile che chi ci prova non
nutra – magari inconsapevolmente - idee precise in merito
all’auspicabilità di certi sviluppi rispetto ad altri, è inevitabile
che, per quanto ci si sforzi di restare nei limiti di un’analisi
rigorosa della realtà e dei potenziali sviluppi che essa sembra
contenere, non si potrà evitare di proiettare, in maggiore o minore
misura, i propri desideri sull’oggetto dell‘indagine. Ciò
premesso, non è un caso se questo volume trova collocazione nella
collana “Visioni eretiche”, che chi scrive dirige da qualche anno per
l’editore Meltemi. Non solo perché cinque degli “eretici” qui raccolti
(Manolo Monereo, Onofrio Romano, Alessandro Visalli e Andrea Zhok, oltre
al sottoscritto) vi hanno da poco pubblicato alcuni loro lavori, ma
anche perché il pensiero degli altri cinque (Pierluigi Fagan, Carlo
Galli, Piero Pagliani, Raffaele Sciortino e Alessandro Somma) non è meno
lontano dal pensiero unico che da anni imperversa nelle aule
universitarie, sui media e nelle élite politico-culturali del nostro
come di altri Paesi occidentali. Il che non implica che i discorsi che
troverete qui appartengano a un’unica area ideologica, né tanto meno che
siano omologabili a un unico approccio teorico, metodologico o
disciplinare. Anzi, è proprio perché sono espressione di punti di vista
diversi (fra gli autori vi sono filosofi, sociologi, costituzionalisti,
logici, politologi, dirigenti politici, esperti di geopolitica) che
sorprende il relativo tasso di coerenza del quadro previsionale cui
accennavo poco sopra.
Prima di avere in mano
tutti i manoscritti avevo immaginato – sulla base degli argomenti che mi
erano stati anticipati - di distribuire il materiale in tre sezioni
tematiche (socioeconomica, sociopolitica e geopolitica) ma, una volta
che ho potuto disporre dell’intero pacchetto, mi sono reso conto che la
maggior parte dei contributi avevano un approccio trasversale, per cui
risultava difficile costringerli in quella griglia. Ho quindi preferito
ordinare gli articoli in un’unica sequenza, seguendo l’ordine alfabetico
degli autori. Per offrire una chiave di lettura unitaria dell’opera,
questa Introduzione è stata costruita in modo da evidenziare i cinque
fili rossi che, a mio parere, attraversano in diversa misura tutti i
contributi: crisi della globalizzazione neoliberista; scenari
geopolitici; impasse delle sinistre ed esaurimento dell’alternativa
populista; verso un mondo post neoliberale; prospettive socialiste per
il secolo XXI. Infine, nei passaggi in cui rilancio idee e concetti di
uno o più autori, ne segnalo fra parentesi i nomi. In questo modo il
lettore può scegliere a quali articoli dare la precedenza (è raro che si
legga un volume collettaneo tutto di seguito, seguendo pedissequamente
la sequenza dei testi).
1. Crisi della globalizzazione neoliberista
Mi
pare si possa affermare che nei vari articoli questo thread tematico
viene affrontato da tre punti di vista: a) natura eminentemente politica
del regime neoliberista, da analizzare come esito di un consapevole
progetto di attacco capitalistico ai rapporti di forza delle classi
subalterne; b) critica radicale dell’idea secondo cui il ruolo degli
stati nazione sarebbe superato dalla internazionalizzazione dei flussi
di capitali, merci e persone; c) incidenza della crisi pandemica su un
processo di de globalizzazione già in atto.
a)
il sistema neoliberale nato dalla rivoluzione conservatrice degli anni
Ottanta è studiato per “affamare la bestia”, per ostacolare l’accesso
delle classi subalterne a fonti di reddito garantite attraverso una
serie di dispositivi di precarizzazione: i singoli devono essere
obbligati a scegliere i propri fini e a procurarsi da soli le risorse
per realizzarli, mentre ogni interferenza politica che impedisca o
mitighi tale costrizione viene condannata come un abuso, una
“deresponsabilizzazione” (Romano). L’intervento statale viene ammesso
esclusivamente in casi di grave crisi finanziaria (o economico
sanitaria: vedi pandemia in corso) e deve rigorosamente limitarsi ad
agire come sostegno collaterale al funzionamento dei mercati competitivi
(Zhok). Lo stato è chiamato a tradurre in leggi proprie le leggi del
mercato e a utilizzare la concorrenza come strumento di direzione
politica delle condotte umane (Somma). Qualsiasi scostamento dalla
“normalità” capitalistica è percepito come destabilizzante, come una
falla che apre la strada all’ideologia “statalista” rischiando di essere
foriera di sviluppi socialisti. La costruzione europea svolge alla
perfezione tale compito di sorveglianza/repressione di ogni tentativo di
deviazione dalla normalità capitalistica, spoliticizzando il mercato e
neutralizzando il conflitto sociale. In questo senso, la Ue è la
realizzazione del sogno di Hayek (1), che auspicava l’avvento di una
federazione fra stati come strumento per abbattere tutti gli ostacoli
alla libera circolazione dei fattori produttivi, sottraendo alle
organizzazioni dei lavoratori il potere di controllare l’offerta dei
loro servizi (Somma). Un sogno che certificava la consapevolezza, da
parte di questo nume tutelare del pensiero liberale, del fatto che la
dimensione nazionale sta alla base del conflitto di classe.
b)
La dimensione nazionale non sta solo alla base del conflitto di classe,
definisce anche quale posizione una certa sezione delle classi
dominanti occupa nei confronti delle altre. Il capitale necessita
infatti di quadri giuridici in cui muoversi, ma non è in grado di
definirli autonomamente, tale compito spetta allo stato che stipula
accordi più o meno favorevoli con gli altri stati secondo la sua
potenza, per cui la potenza del capitale sarà proporzionale alla potenza
dello stato di origine (Romano). La dimensione spaziale, in barba alla
narrazione ideologica che la dà per liquidata grazie alla sua
neutralizzazione da parte delle tecnologie di trasporto e di
comunicazione, resta ineludibile (Galli). Il campo dei flussi (di
capitali, merci e persone) non può emanciparsi se non in misura limitata
dal campo dei luoghi (stati, nazioni, sistemi politici) con il quale è
costretto a fare i conti perché esso non è solo un limite ma è anche
condizione imprescindibile per il processo di accumulazione
capitalistica (Pagliani). Potere del Denaro e Potere del Territorio si
intrecciano in un rapporto che è fatto al tempo stesso di collaborazione
e conflitto e che scandisce le diverse fasi di sviluppo del sistema
capitalistico. È per questo che il concetto astratto (il modello
idealtipico) di modo di produzione andrebbe rimpiazzato con analisi
storiche concrete capaci di distinguere fra epoche e nazioni in cui
prevale la logica territoriale ed epoche e nazioni in cui prevale la
logica dei flussi, anche se in ciascuna fase storica tende a imporsi la
logica sistemica della potenza di volta in volta egemone (Pagliani)
(2).
c) Il quarantennale ciclo neoliberista
che ha visto la bilancia pendere a favore del Potere del Denaro a spese
del Potere del Territorio, della logica dei flussi rispetto alla logica
dei luoghi, è una delle cause fondamentali, se non la causa
fondamentale, che ha innescato, dopo la crisi finanziaria del 2008, la
crisi pandemica attualmente in corso, nella misura in cui ha favorito
un’elevata mobilità di merci e persone, formidabili addensamenti di
popolazione (incremento demografico e urbanizzazione) e fenomeni di
zoonosi dovuti alle aree sempre più vaste di contatto fra umani e specie
animali esotiche (Zhok). Ora la pandemia sembra in grado di alimentare
un trend di de-globalizzazione che, tuttavia, era già in atto da tempo,
come segnalato dal fatto che il volume degli scambi globali quanto a
merci era in costante declino da almeno dieci anni (Zhok, Fagan). Al
tempo stesso questa inversione di tendenza non è di per sé in grado di
infliggere un colpo mortale alla logica neoliberista, soprattutto perché
il freno alla globalizzazione si esercita in modo asimmetrico (meno sui
capitali, in misura relativa sulle merci, severo sulle persone) e tende
così ad aumentare il potere della finanza sull’economia reale (Zhok).
Il che acuisce ulteriormente le contraddizioni sistemiche, già inasprite
sia dalla crisi dei “settori spugna” a basso valore aggiunto ed elevato
tasso di sfruttamento (spettacolo, turismo, ristorazione, accoglienza,
ecc.) che avevano assorbito parte della disoccupazione creata dalla
concentrazione monopolistica nei settori strategici (a partire
dall’economia digitale cui la crisi pandemica offre un’ulteriore
occasione di espansione), sia dalla nuova polarizzazione
centro/periferia, che tende ad assumere una configurazione a pelle di
leopardo, sia dal fatto che l’inarrestabile processo di urbanizzazione
dei decenni precedenti appare sempre più insostenibile (Visalli).
2) Scenari geopoliticiLa riflessione geopolitica è
presente, sia pure con pesi differenti, in tutti i contributi del libro.
Senza pretendere di riassumere in poche righe la complessità delle
argomentazioni sviluppate dai vari autori, credo sia possibile
evidenziare gli elementi di convergenza che elenco qui di seguito:
a)
Mi pare che in queste pagine ritorni una visione “classica” della
geopolitica che, archiviate le interpretazioni “ideologiche” del “grande
gioco” figlie della guerra fredda (che torna oggi di attualità dopo la
breve parentesi monocratica di incontrastato dominio imperiale
nordamericano), cioè le interpretazioni ispirate da un immaginario
“scontro di civiltà” fra ideologie universaliste, viene ricondotta al
confronto fra attori plurali portatori di interessi geoeconomici e
geopolitici in conflitto reciproco (Galli). In alcuni articoli (Galli,
Monereo) la dinamica di questo confronto viene analizzata evocando il
concetto di Grande Stato. Gli effetti del formidabile processo di
concentrazione di risorse finanziarie, tecnologiche, industriali,
scientifiche e militari innescato da decenni di globalizzazione fanno sì
che solo gli Stati di grandi dimensioni spaziali e demografiche
(attualmente Stati Uniti, Cina e Russia, cui in futuro potrebbero
aggiungersi India, Brasile e alcuni Stati africani) siano in grado di
esercitare contropotere nei confronti sia delle megaimprese
transnazionali sia dei propri competitor politici. Accanto a questi
colossi gravitano le medie potenze, gli Stati “rentier” e gli Stati
falliti (Galli) e fra costoro solo le prime hanno un limitato margine di
manovra autonomo. L’Unione Europea non può essere considerata alla
pari degli altri grandi. Non perché priva di sufficienti risorse
economiche ma perché, non essendo un soggetto sovrano, non ha capacità
unitaria di individuare i propri interessi strategici, per cui è esposta
al rischio che i suoi membri cadano sotto l’egemonia dell’uno o l’altro
Grande Stato (Galli) (Monereo dà anche un’interpretazione “regionale”
del concetto di Grande Stato, attribuendo tale ruolo a Francia e
Germania in contrapposizione agli altri membri dell’Unione).
b)
Un secondo elemento comune consiste nel dare per scontato che gli Stati
Uniti, anche ove riuscissero a riproporsi come guida di un’ampia
coalizione occidentale, non sono più in grado di esercitare un potere
globale incontrastato (Visalli, Galli, Fagan). Nessuno mette in
discussione il fatto che gli Stati Uniti dispongano tuttora di una
schiacciante superiorità militare e di formidabili risorse industriali e
finanziarie, ma tutti sembrano concordi nell’affermare che la loro
capacità “non certo di dominare ma almeno di controllare il mondo si
fanno sempre più scarse” (Fagan). Con l’emergenza di nuovi colossi nel
gruppo dei Paesi in via di sviluppo (BRICS ma non solo) è l’intera
geostoria in cui si ambienta la geopolitica ad apparire terremotata. Il
baricentro del mondo si sposta a Oriente (come certifica il colossale
accordo commerciale fra Cina, Giappone, Corea del Sud, Vietnam,
Australia e altri Paesi annunciato nei giorni in cui scrivo queste
righe, che “pesa” per il 30% del volume mondiale degli scambi mentre
esclude gli Stati Uniti). Né si può escludere che questo nuovo
baricentro possa convertirsi da asiatico in afroasiatico (Fagan). Questo
perché cresce a ritmi rapidissimi la penetrazione di Cina, Giappone e
Corea del Sud sui mercati africani, instaurando rapporti che vengono
percepiti come meno coloniali rispetto a quelli con le potenze
occidentali e che, soprattutto, invece di frenare lo sviluppo dei Paesi
africani depredandone le risorse e oberandoli di debiti, tendono a
creare le condizioni per l’emergenza di nuove potenze anche in
quell’area continentale.
c) Più variegate
sono le diagnosi in merito all’emergenza o meno di un polo egemone
alternativo rispetto al declinante (sia pure in senso relativo) impero
statunitense. Da un lato, c’è chi, pur individuando nella Cina la nuova
potenza egemone, aggiunge come ciò appaia oggi solo una possibilità, che
non esclude quella del protrarsi di una convulsa e caotica fase
multipolare, con i relativi rischi di perdita di controllo e di
catastrofici eventi bellici (Visalli). Altri sottolineano che tale
rischio è associato all’incapacità degli Stati Uniti di accettare e
gestire il proprio declino relativo e al loro tentativo di compattare
l’occidente contro il resto del mondo (Fagan). Altri ancora negano del
tutto la possibilità di un passaggio di consegne egemonico, paventando
una fase multipolare che, frammentando ciò che è ancora – sia pure più
debolmente – unito, rischierebbe di precipitare nel caos il sistema
capitalistico mondiale prima che sia possibile innescare un processo di
transizione socialista (Sciortino).
3. Impasse delle sinistre ed esaurimento dell’alternativa populista
a)
Ragionando sulla declinante capacità delle sinistre di rappresentare
gli interessi delle classi subalterne (e conseguentemente di
egemonizzarne il consenso), molti contributi si concentrano sulle cause
culturali di tale incapacità che affondano le radici nella mancata
comprensione dei grandi mutamenti economici e sociopolitici in corso
dagli anni Settanta del Novecento. Un’incomprensione che si è tradotta,
da un lato, nella conversione ai principi e valori del neoliberismo,
dall’altro, nella riproposizione di dogmi teorici che la nuova realtà
rende anacronistici. In particolare, le sinistre sembrano avere assunto
come un dato di fatto scontato e irreversibile l’unità di un mondo
globale unificato dall’economia, senza rendersi conto che, come dimostra
la crisi della globalizzazione dell’ultimo decennio, questa unità è
stata soprattutto una narrazione ideologica, tesa a legittimare l’idea
della sostituibilità della politica da parte di economia, tecnica e
diritto (Galli). Contro la visione irenica dell’economia come portatrice
di unità e di pace fra i popoli, oltre che di benessere e prosperità
universali, e contro un’ideologia “internazionalista” che ha smarrito
gli originali connotati di classe per appiattirsi sul cosmopolitismo
borghese, si sostiene che nel mondo a venire l’economico non potrà più
essere l’ordinatore, e che tale ruolo dovrà essere necessariamente
restituito alla politica (Fagan, Galli).
b)
Alla critica della conversione neoliberale delle sinistre
socialdemocratiche si affianca la critica del retaggio libertario,
antistatalista e antipolitico dei movimenti sociali eredi del 68. Pur
nella loro apparente radicalità rispetto alle sinistre tradizionali,
questi movimenti hanno a loro volta contribuito a recidere i legami con
gli interessi, i bisogni e la cultura delle classi subalterne, favorendo
la proliferazione di istanze di riconoscimento (da tradurre in diritti
individuali e civili) in capo a soggetti privi di connotazioni di classe
(strati generazionali, minoranze etniche, religiose e sessuali, ecc.).
Un’evoluzione che ha prodotto un dirottamento delle energie dalla lotta
per il potere (considerato un fattore di per sé negativo) all’impegno
per condizionarne le scelte senza mettere in discussione il sistema
(Formenti)
c) La durezza della crisi provocata
dal regime neoliberale crea le condizioni di un nuovo “momento Polanyi”
(3) , vale a dire della reazione della società alla colonizzazione
capitalista di tutti i rapporti sociali. La resistenza dei vincoli
comunitari alla omogeneizzazione mercantile, tuttavia, può avere
caratteri reazionari, conservatori o emancipatori (Pagliani), può cioè
spalancare le porte a una “rivoluzione passiva”, per citare il concetto
con il quale Gramsci definiva i sommovimenti in cui le classi subalterne
restano sotto l’egemonia di forze conservatrici, lottando per obiettivi
in conflitto con i loro stessi interessi. La diagnosi comune a molti
contributi è che ciò sia avvenuto con l’emergere dei movimenti populisti
nell’ultimo decennio del Duemila. Definito da alcuni forma spuria della
lotta di classe in assenza di una leadership rivoluzionaria (Formenti),
da altri sostituto funzionale della lotta di classe a carattere
reattivo (Sciortino), da altri ancora “contenitori dell’ira” incapaci di
convertirsi in contenitori di potere (Visalli), questo fenomeno sembra
prossimo a giungere ad esaurimento tanto nelle sue forme di destra
quanto in quelle di sinistra. Le prime, invece di rappresentare i reali
conflitti sociali, sono andate in cerca di nemici esterni al popolo (le
caste, gli immigrati, ecc.) e, nella misura in cui non incarnano il
risentimento per il regime neoliberale, bensì per le sue promesse
tradite, finiranno inevitabilmente per venire riassorbite nella logica
del sistema (Visalli). Le seconde (delle quali Podemos rappresenta un
esempio paradigmatico), dopo essere inizialmente riuscite ad incarnare
l’aspettativa di una radicale alternativa sistemica, tendono (e sempre
più tenderanno) a ricompattarsi in un fronte unito contro le destre
guidato dalle formazioni liberali “di sinistra” (Formenti).
4. Verso un mondo post neoliberale? Il titolo di questa
raccolta, “Dopo il neo liberalismo”, potrebbe suggerire l’impressione
che gli autori condividano una visione teleologica del processo storico,
che ritengano che la fine del liberalismo sia una necessità immanente a
tale processo. Non è così. La visione che emerge da questa “indagine
collettiva sul futuro”, per citare il nostro sottotitolo, è un’altra:
siamo tutti convinti che il regime nato dalla controrivoluzione
neoliberale sia insostenibile e che quindi il futuro ci riservi
mutamenti economici, politici e sociali radicali, ma siamo altrettanto
consapevoli che la natura di tali mutamenti è in larga misura
indeterminata, dal momento che dipende da fattori complessi e
contingenti. Al tempo stesso riteniamo che sia importante sforzarsi di
capire, se il vecchio muore, da dove nascerà il nuovo, quali strumenti
esistono per superare l’equilibrio sistemico neoliberale (Visalli).
Parlare di strumenti significa alludere a un progetto politico, dunque a
un campo di indagine in cui il confine fra previsione e auspicio si
assottiglia, per cui le previsioni appaiono necessariamente condizionate
dal verificarsi di certe condizioni.
a) Se
sarà possibile restituire centralità al “costituzionalismo sociale” nato
dal compromesso storico del secondo dopoguerra e al suo potenziale
emancipativo, questo costituzionalismo resistente alla normalità
capitalistica potrebbe agire da presupposto di un radicale mutamento di
sistema (così Somma, che ragiona soprattutto sulla Costituzione
italiana, mentre Monereo estende il ragionamento a tutte le costituzioni
nate dal superamento di regimi fascisti). Il passo decisivo consentito
da tale svolta consisterebbe nel restituire spazio strategico al
conflitto economico, cioè alla possibilità di plasmare l’ordine
economico in base alla contrapposizione capitale/lavoro e più in
generale fra interessi in conflitto (Somma) (il che comporterebbe, per
inciso, abolire le “riforme” costituzionali imposteci dalla Ue e
finalizzate appunto alla neutralizzazione del conflitto economico
sociale). Questa riaffermata centralità del conflitto consentirebbe, fra
l’altro, di evocare un concetto non meramente formale della sovranità
popolare, estendendolo fino a comprendere la contrapposizione
governanti/governati e attribuendo al popolo la titolarità della potestà
di governo costituente e costituita (Somma, ma vedi Galli sul rapporto
fra potere costituito e potere costituente).
b)
Altrettanto importante sarebbe riuscire a sfruttare la gestione
politica della pandemia, sottraendola alla dimensione di “eccezionalità”
attribuitale dai regimi neo liberali, per dimostrare come la
circolazione molecolare permanente possa essere interrotta sulla base di
una decisione politica collettiva (Romano). Di fronte alla crisi che ne
ha inceppato i meccanismi, il regime neo liberale cerca di guadagnare
tempo senza cambiare logica, respinge l’idea che lo sviluppo economico
debba essere riportato sotto il controllo intenzionale da parte della
politica per evitare che rappresenti una minaccia permanente per la vita
umana (Zhok), sostenendo che ciò vorrebbe dire instaurare una dittatura
(non si può bloccare del tutto la circolazione del virus senza mettere a
rischio la “libertà”, cioè la libera circolazione dei fattori
produttivi denaro, merci e forza lavoro). La posta in gioco nel
conflitto fra queste due prospettive è altissima, perché non riguarda
solo l’economia ma anche la possibilità di superare la visione che
rappresenta la realtà sociale come il prodotto accidentale della miriade
delle volontà singole, di superare cioè l’antropologia individualista
come fondamento della civiltà liberale in quanto unità di politica,
cultura e mercato (Romano).
c) Se sarà infine
possibile, preso atto dell’assenza di un soggetto politico in grado di
orientare l’inevitabile processo di trasformazione in corso verso esiti
emancipatori piuttosto che regressivi, mettere mano alla sua costruzione
a partire dalla definizione dei soggetti sociali da
coinvolgere/mobilitare in tale impresa. Una delle zavorre concettuali
che pesano maggiormente sulla capacità dei movimenti di ispirazione
marxista di svolgere un ruolo significativo nella direzione delle lotte
sociali nei Paesi occidentali, è l’ostinazione con cui si impegnano a
identificare un soggetto sociale “oggettivamente” rivoluzionario.
Riduzione del peso numerico e politico del proletariato industriale
(falcidiato dai processi di terziarizzazione del lavoro, dalle
ristrutturazioni tecnologiche, dal decentramento della produzione verso i
Paesi in via di sviluppo), disarticolazione del corpo di classe che
l’offensiva neo liberale è riuscita a dividere contrapponendo strati
generazionali, uomini e donne, autoctoni e immigrati, garantiti e
precari, lavoro pubblico e lavoro privato, hanno innescato una sterile
ricerca di possibili “avanguardie” da individuare attraverso improbabili
analisi sociologiche. Analisi in cui è mancata sia la consapevolezza
del peso del conflitto centri/periferie nelle nuove lotte sociali (vedi
il caso dei gilet gialli), sia un’adeguata attenzione alla complessa
articolazione delle classi intermedie, caratterizzata dalla progressiva
separazione fra strati superiori, integrati nel blocco sociale egemone
sul piano economico, sociale e culturale, e strati inferiori investiti
da processi di immiserimento. L’unica via d’uscita da queste
contraddizioni potrà venire dalla costruzione, attraverso una lunga fase
di guerra di posizione, di un inedito blocco sociale fondato
sull’alleanza fra lavoro effettivamente produttivo e periferie
(Visalli). Si tratta di condurre un paziente lavoro di costruzione
politica di una rinnovata consapevolezza degli interessi di classe,
subordinando, almeno in una prima fase, l’obiettivo delle alleanze fra
classi a quello della ricomposizione del proletariato (Formenti).
5. Prospettive socialiste per il secolo XXI
Esistono
concrete possibilità che l’eventuale evoluzione verso un mondo
postneoliberale possa coincidere con una rinnovata vitalità del progetto
socialista? Fino a non molti anni fa, grosso modo dalla caduta del Muro
alla crisi del 2008, questa domanda sarebbe apparsa poco più di una
boutade provocatoria. Lo straordinario successo della Cina, il ciclo
delle rivoluzioni bolivariane in America Latina, l’ascesa di leader
politici come Sanders e Corbyn, che sono riusciti a ottenere
significativi livelli di consenso pur professandosi socialisti in Paesi
come gli Stati Uniti e l’Inghilterra, dove la parola stessa era stata a
lungo bandita, restituiscono attualità all’interrogativo. Nel libro non
troverete risposte univoche, visto che, come già spiegato nel
precedente paragrafo, nessuno degli autori crede nell’esistenza di una
necessità immanente al processo storico che ne determini la direzione.
Troverete piuttosto dei tentativi di descrivere le condizioni che
potrebbero riaprire una prospettiva socialista per il secolo XXI. Ne
elenco qui di seguito quattro.
a) Dovremo
smettere di identificare società di mercato e società con mercato,
accettando l’idea che socialismo non significa necessariamente
nazionalizzazione senza residui (abolizione di ogni forma di proprietà
privata) e pianificazione centralizzata. Polanyi, Arrighi e Samir Amin,
fra gli altri, ci hanno aiutato a capire che la società di mercato è
quella forma - del tutto unica e foriera di spaventosi effetti sociali –
attraverso la quale il capitalismo è riuscito a plasmare la totalità
delle relazioni umane in funzione delle esigenze di un processo di
accumulazione illimitato. La sua diffusione planetaria è stata l’approdo
di un lungo processo storico non necessitato da presunte leggi
oggettive (Pagliani). Viceversa il mercato è sempre esistito prima
dell’avvento del capitalismo e non vi sono motivi (se non nelle teste
dei cultori di una concezione dogmatica del marxismo) per cui non possa
esistere dopo la sua fine. I programmi che hanno ispirato le
rivoluzioni antiliberiste in America Latina, e che figurano nei progetti
di alcune forze politiche del mondo occidentale (potenziamento del
mercato interno, realizzazione della piena occupazione e incremento
della quota di reddito spettante ai salari, controllo politico sui
flussi di capitale e merci, riduzione della dipendenza da esportazioni e
importazioni con conseguente riduzione della dipendenza dal mercato
globale e accorciamento delle catene del valore, potenziamento del
welfare e dei servizi sociali) (Visalli) possono sembrare espressione di
una visione “riformista” compatibile con il sistema capitalista ma, per
citare Rosa Luxemburg, il vero problema è se le riforme vengono
considerate obiettivi fine a sé stessi o strumenti per creare le
condizioni di un cambiamento rivoluzionario di sistema. Forse il momento
storico è maturo per transitare dall’idea (tipica del marxismo
occidentale) della rivoluzione come evento catastrofico a quella di
processo continuo e progressivo (Fagan) incarnata dalla via cinese al
socialismo.
b) Socialismo e ambientalismo dovranno necessariamente convergere
in un unico progetto. La pandemia del covid 19 dovrebbe averci
definitivamente convinto che l’unica prospettiva etico politica
all’altezza del nostro tempo è una nuova alleanza tra paradigma
ambientalista e analisi socialista (Zhok). Tuttavia la realizzazione di
tale alleanza richiede un coraggioso sforzo di revisione teorica e
culturale per superare i limiti intrinseci a entrambi i paradigmi che li
pongono in una relazione conflittuale che potremmo definire come
opposizione fra istanze anti antropocentriche da un lato e istanze
umanistiche dall’altro o, se si vuole, fra progressismo e conservazione
(Zhok). Nel discorso ambientalista è immanente il rischio di una
“disneyzzazione” della natura, a causa del manicheismo che contrappone
la natura buona all’uomo cattivo; una visione che rimuove il fatto che
gli esseri umani non hanno accesso a un punto di vista assiologico
indipendente dalla loro soggettività, approdando paradossalmente
all’esito di antropomorfizzare la natura che vorrebbe salvare.
Viceversa, il discorso socialista appare tradizionalmente appiattito sui
valori guida dell’illuminismo borghese: progressismo, modernismo,
nuovismo (Zhok). Sul versante della cultura socialista la trasformazione
dovrebbe quindi prendere le mosse da un rifiuto del progresso inteso
come crescita di potenza verso le altre nazioni, l’uomo e l’ambiente
naturale (Visalli). Si tratta di mandare in soffitta quella mistica
delle forze produttive – l’idea che il progresso scientifico e
tecnologico sarebbe di per sé in grado di determinare la transizione dal
capitalismo al socialismo – che è uno dei tratti fondamentali della
cultura marxista da più di un secolo (Formenti). Affidare alla politica
il ruolo di decidere cosa, come e quanto produrre implica abbandonare la
spinta alla valorizzazione economica illimitata, anche se ispirata a
criteri di giustizia e uguaglianza (Romano). La crescita illimitata è un
obiettivo non negoziabile in un’ottica liberal capitalista, ma anche in
un’ottica socialista tradizionale. Tuttavia è fondamentale comprendere
che rinunciare a tale imperativo non significa aderire necessariamente a
un piano di decrescita, a uno stato stazionario, bensì subordinare la
crescita al bene comune e sottoporla a controllo e limitazione da parte
della politica (Zhok).
c) Occorre scommettere
sul fatto che la Cina continui a riuscire nell’impresa di differenziarsi
dal resto del mondo sul piano dei valori politici e ideologici pur
adottando i meccanismi del sistema capitalistico (Galli), che continui
cioè – per usare la formula dell’ultimo Arrighi (4) - ad usare il
mercato per liberare dalla povertà i propri cittadini, senza cedere ai
capitalisti la direzione politica del Paese. A questa condizionalità
occorre aggiungerne un’altra che la sovradetermina: dobbiamo scommettere
sul fatto che la lotta di classe in Cina riesca a impedire che il Paese
regredisca a un regime capitalista, non solo sul piano delle forme
economiche, ma anche su quello delle forme politiche. La possibilità che
questa contraddizione fra universalismo del mercato e particolarismo
del soggetto politico (Galli) possa reggere sul lungo periodo,
accompagnando un lento periodo di transizione verso il socialismo, è
ammessa da due autori marxisti che provengono dalla tradizione delle
teorie della dipendenza (Visalli), come Arrighi e Samir Amin. Questo
punto di vista resta tuttavia eretico rispetto al mainstream del
marxismo occidentale che, nella misura in cui continua a pensare che la
struttura economica sovradetermini necessariamente la sovrastruttura
politica, dà per acquisita la restaurazione del capitalismo in Cina a
partire dalle riforme di Deng Siao Ping. Nel libro il lettore troverà
una variegata gamma di punti di vista sull’enigma cinese, che si
estendono fra due posizioni polarmente contrapposte. Da una parte, il
modello cinese viene preso a spunto (assieme alle rivoluzioni
bolivariane) per superare l’ingenua visione utopistica del socialismo
come un mondo pacificato, emancipato da ogni tipo di conflitto sociale,
cui si contrappone l’idea di un “socialismo possibile”, nel quale
permangono disuguaglianze e conflitti sociali, sia pure di natura e
intensità diverse da quelli della società capitalistica (Formenti).
Dall’altra si attribuisce natura inequivocabilmente capitalista al
sistema cinese, riconoscendo al tempo stesso l’esistenza al suo interno
di una dialettica fra classi lavoratrici e stato che configura una sorta
di via orientale alla socialdemocrazia (Sciortino). Mi pare viceversa
condivisa da tutti l’importanza del ruolo della Cina, se non come
modello alternativo di sistema, almeno come potente contrappeso
all’egemonia statunitense.
d) Dovremo
riuscire a elaborare una visione alternativa di democrazia. Che la
“democrazia reale” (per usare una definizione di Colin Crouch (5), cioè
la liberal democrazia in auge in tutti i Paesi occidentali, sia in fase
di avanzato degrado è un dato di fatto riconosciuto anche da molti
esponenti delle élite politiche e accademiche. Si parla comunemente di
post democrazia, di democrazia oligarchica, di democrazia limitata
(Monereo) in riferimento a fenomeni come il ridimensionamento del potere
legislativo nei confronti del potere esecutivo, la crisi dei partiti
politici, la personalizzazione e mediatizzazione del ruolo dei leader,
la “gentrificazione” delle funzioni rappresentative (più della metà dei
deputati e senatori nordamericani appartengono alla élite dei super
ricchi), la riduzione della partecipazione popolare al voto,
l’esorbitante peso delle lobby finanziarie e industriali sulle decisioni
politiche (vedi il fenomeno delle “porte girevoli” con ex esponenti
politici cooptati nel top management di grandi imprese private e
viceversa) e l’elenco potrebbe proseguire. Malgrado tutto ciò, si
continua a sostenere che questo sistema, benché corrotto, ingiusto e
inefficiente, continua a essere il minore dei mali possibili ove
paragonato ai regimi totalitari che vigono in Cina e in altri Paesi (i
media occidentali inseriscono nell’elenco anche nazioni i cui governi
sono andati al potere a seguito di processi elettorali assolutamente
regolari: vedi il caso del Venezuela e della Bolivia, dove il popolo ha
da poco confermato la propria fiducia al partito “totalitario” che era
stato rovesciato da un golpe di destra). Ma è vero che non esistono
alternative? La Costituzione italiana, attraverso gli articoli che
affermano la necessità di promuovere l’uguaglianza sostanziale e non
solo formale fra i cittadini, ha non a caso ispirato la riflessione
togliattiana sulla “democrazia progressiva” come ordine politico
alternativo a quello di matrice liberale. E’ la ragione per cui il
capitalismo mondiale punta il dito contro il carattere
“criptosocialista” della nostra Carta, e che ha indotto i nostri
governanti a mettere ripetutamente mano a “riforme” costituzionali per
adattarla ai principi ordoliberali che ispirano le istituzioni europee.
La parola d’ordine per rovesciare questo stato di cose è staccare una
volta per tutte la forma democrazia dalla forma mercato, prendendo atto,
come invita a fare Wolfgang Streeck (6), che il loro divorzio, al pari
di quello fra democrazia e liberalismo, è fatto compiuto. La democrazia
in quanto accesso delle classi popolari alla possibilità di partecipare
realmente al processo di decisione politica è stata una breve parentesi
che ha interrotto, nel secondo dopoguerra, una lunga storia di
democrazia puramente formale. Per riconquistarla occorre cominciare a
pensarla come processo di democratizzazione, come programma di lotta
(Monereo).
Note
1 Von Hayek, F., la via della schiavitù, Feltrinelli, Milano 2011.
2
Qui la riflessione di Pagliani si muove nel solco tracciato da Giovanni
Arrighi (cfr. Il lungo secolo XX, Feltrinelli, Milano 2008)
3 Polani, K., la grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
4 Arrighi, G., Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008.
5 Crouch, C., Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.
6 Streeck, W., Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013.
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